Come mai il nuovo millennio ha visto risvegliarsi l’interesse per le “camere delle meraviglie”? Perché un genere di collezionismo così antico, tipico del periodo compreso tra Cinquecento e Settecento, mantiene il suo fascino nell’epoca di internet e della virtualità? E quali sono le differenze fra le wunderkammer classiche e le neo-wunderkammer attuali?
Mi sono recentemente trovato ad affrontare questi argomenti in due contesti diametralmente opposti.
Il primo, un seriosissimo convegno sulle discipline della conoscenza nella prima Età moderna, presso l’Università di Padova; il secondo, un festival di illusionismo e meraviglia organizzato a Fontanellato da un mentalista e da un wonder injector. In quest’ultima occasione ho allestito un tavolino con una micro-wunderkammer (davvero minima, ma è quello che mi stava in valigia!) in modo che, dopo la conferenza, il pubblico potesse vedere e toccare con mano qualche oggetto curioso.
Due ambiti tradizionalmente piuttosto distanti fra loro – il milieu accademico e il mondo dell’intrattenimento (anche se pensato con l’intento di “fare cultura”, come nel caso di Stupire) – hanno entrambi dedicato spazio alla discussione del fenomeno, il che mi sembra indicativo di una sua rilevanza.
Ho pensato dunque di riassumere a grandi linee, per chi non è potuto venire agli appuntamenti, i miei interventi sul tema.
Per motivi pratici dividerò il tutto in due post.
In questo, cercherò di delineare quelle che a mio avviso sono le principali caratteristiche delle wunderkammer storiche – o, meglio, i concetti su cui vale la pena riflettere.
Nel prossimo post affronterò invece le neo-wunderkammer del Ventunesimo Secolo, per provare a individuare quali possano essere i motivi di questa peculiare “rinascita”.
Mirabilia
Ovviamente il concetto fondamentale delle wunderkammer, fin dal loro nome, era quello di meraviglia; dai “gabinetti” nobiliari di Ferdinando II d’Austria o Rodolfo II fino alle collezioni più marcatamente scientifiche come quelle di Aldrovandi, Cospi, o Kircher, il fine delle wunderkammer antiche era prima di tutto stupire il visitatore.
Si trattava di un modo per impressionare gli ospiti di corte, ostentando l’opulenza e la fastosa ricchezza di chi assemblava la wunderkammer: in effetti la camera delle meraviglie deriva dall’evoluzione delle camere del tesoro (schatzkammer) e delle grandi collezioni d’arte del Quattrocento (kunstkammer).
Questa predilezione per gli oggetti costosi e rari finì per generare un fiorente mercato internazionale di articoli naturalistici ed etnologici provenienti dalle colonie.
Il teatro del mondo
La wunderkammer, però, aspirava anche a essere una sorta di microcosmo capace di rappresentare la totalità dell’universo conosciuto, o perlomeno di rimandare all’incredibile assortimento di creature e di forme presenti nella natura. Samuel Quiccheberg, nel suo trattato sull’allestimento di un utopico museo, utilizzò per primo la parola “teatro”, ma in realtà – come si vedrà più avanti – quella della rappresentazione teatrale è una delle idee cardine delle collezioni classiche.
In virtù di questa sua qualità di rappresentazione del mondo, la wunderkammer era anche intesa come un vero e proprio strumento di conoscenza, uno spazio d’indagine per i cosiddetti filosofi naturali.
Il sistema della conoscenza
Per quanto riguarda l’organizzazione dell’enorme quantità di materiale, inizialmente non si seguiva alcun ordine preciso, assecondando piuttosto i gusti e l’estro del collezionista stesso. Poco a poco, però, cominciò a farsi strada l’idea della catalogazione, implicando una prima distinzione fra tre macro-categorie conosciute come naturalia, artificialia e mirabilia, le quali si sarebbero in seguito perfezionate e ampliate in diverse altre classi (medicalia, exotica, scientifica, ecc.).

Naturalia

Artificialia

Artificialia

Mirabilia

Mirabilia

Medicalia, exotica, scientifica
Da questa sempre crescente necessità di distinguere, etichettare e catalogare prenderanno le mosse la tassonomia di Linneo, le dispute con Buffon, via via fino a Lamarck, Cuvier e infine la fondazione del Louvre, che sancisce la nascita del museo moderno come lo intendiamo oggi.
L’estetica dell’accumulo
L’aspetto forse più iconico e conosciuto delle wunderkammer era lo straordinario affollamento, quell’horror vacui che spingeva a non lasciare il minimo spazio vuoto nell’esposizione delle curiosità e delle bizzarrie raccolte in giro per il mondo.
Non soltanto, come dicevamo all’inizio, quest’estetica eccessiva era uno sfoggio di ricchezza, ma mirava anche a sbalordire e frastornare il visitatore. E lo stordimento era un momento essenziale: la meraviglia per l’universo, quel sentimento che era chiamato thauma, passa sì dallo stupore ma è inscindibile da un senso di inquietudine. Per accedere a questo stato di coscienza, da cui parte ogni filosofia, dobbiamo uscire dalla nostra zona di comfort.
Trovarsi confrontati di colpo con l’incredibile fantasia delle forme naturali, visivamente “aggrediti” dalla moltitudine impensabile degli oggetti, era un’esperienza che non poteva lasciare indifferenti. Estetica del Sublime, più ancora che del Bello; questa vertigine enciclopedica è il motivo per cui ad esempio Umberto Eco inserisce le wunderkammer fra gli esempi di “liste visive”.
Conservazione e rappresentazione
Uno degli scopi fondamentali di qualsiasi collezione era (ed è ancora) la conservazione degli esemplari e degli oggetti, ai fini di studio o per la posterità. Eppure ogni conservazione è già rappresentazione.
Quando entriamo in un museo, non ci rendiamo conto delle decisioni che sono state fatte a monte: eppure sono proprio queste che creano la narrativa del museo, il racconto che ci viene esposto sala dopo sala.
Le opzioni sono molteplici: quali esemplari conservare, quale tecnica utilizzare per conservarli (il risultato sarà differente a seconda che un campione biologico venga essiccato, tassidermizzato, o immerso in liquido), come raggrupparli, come allestire la loro esposizione?
Si tratta in definitiva di scegliere quali saranno gli attori, i costumi di scena, le scenografie, lo script interno del museo.
L’esempio più illuminante è senza dubbio la tassidermia, il simulacro per eccellenza: dell’animale non resta altro che la pelle, stesa su un manichino che mima le fattezze e la postura della bestia. Vengono applicati occhi di vetro per renderlo più convincente. Insomma, gli animali imbalsamati recitano la parte degli animali vivi. E non c’è, a ben vedere, più “realtà” in un elefante tassidermizzato che in uno dei moderni prop animatronici che vediamo nei musei di storia naturale.
Ma perché abbiamo bisogno di tutto questo teatro? La risposta sta nel concetto di domesticazione.
Domesticazione: Natura vs. Cultura
La natura si oppone alla cultura fin dai tempi degli antichi Greci. L’uomo occidentale ha sempre sentito la necessità di prendere le distanze da quella parte di sé che avvertiva come primordiale, caotica, incontrollabile, bestiale. I muri della polis chiudevano fuori la natura, mantenendo all’interno la cultura; non a caso i Barbari – esseri per metà uomini e per metà belve – erano etimologicamente coloro che “balbettavano”, che stavano fuori dal logos.
Il teatro, forma evoluta di rappresentazione, nasce ad Atene come sostituto degli antichi sacrifici umani (cfr. Réné Girard), e assolve ai medesimi compiti sacri: sublimare il desiderio animale di crudeltà e violenza. L’eroe tragico assume il ruolo di vittima sacrificale, e infatti il valore sacro delle tragedie è dimostrato dal fatto che assistervi era inizialmente obbligatorio per legge per ogni cittadino.
Il teatro è dunque il primo tentativo di domesticazione degli istinti naturali, di portarli letteralmente “dentro casa”, di includerli nel logos per disinnescarne la potenza antisociale. La natura diventa davvero piacevole e innocua solo se la raccontiamo, se la scenografiamo.
Ecco allora che un leone impagliato (cioè raccontato attraverso la finzione della tassidermia) è qualcosa che possiamo metterci in salotto senza timori. Tutto lo studio della natura, così come concepita nelle wunderkammer, era essenzialmente lo studio della sua rappresentazione.
Mettendola in scena, era possibile esercitare sulla natura un controllo altrimenti impossibile. Di conseguenza il simbolo delle wunderkammer, quel pezzo che non poteva mancare in alcuna collezione, era proprio il coccodrillo incatenato — imbrigliato e incapace di nuocere grazie ai legacci della Ragione, del logos, della conoscenza.
È interessante, in chiusura di questa prima parte, notare come la simbologia del coccodrillo fosse anch’essa in realtà mutuata dalla sfera del sacro. Questi rettili in catene apparvero inizialmente nelle chiese, e se ne possono ancora vedere diversi esemplari in Europa: in quel caso si trattava ovviamente di rimarcare la potenza e la gloria del Cristo che sconfigge Satana (e di impressionare i fedeli, che con ogni probabilità non avevano mai visto una simile bestia).
Esempio perfetto di tassidermia sacra; domesticazione come argine contro l’inconscio animalesco, peccaminoso; barriera fra gli istinti naturali e quelli sociali.
(Continua nella seconda parte)
Davvero una interessante disamina Ivan, complimenti come sempre.
PS: sono io che vedo cosa strane o nella seconda immagine del paragrafo “Mirabilia” c’e’ un cane che morde/mangia un bambino sopra di lui?!
Credo che il bimbo stia solo provando a cavalcare il cane. Per inciso quell’immagine mostra la presentazione del celebre Armadietto di Pomerania al Duca Filippo II, distrutto purtroppo in un incendio dopo la Seconda Guerra. Rimangono però alcune foto del meraviglioso mobiletto.
Ahah, grazie per il chiarimento!
Meravigliose le foto.
Non so perché, ma leggendo il paragrafo sulla domesticazione mi è venuto in mente ciò che dice Gianni Rodari, ne “La grammatica della fantasia”, a proposito di certi giochi (la bambola e la trottola, ad esempio) che inizialmente erano oggetti sacri e che, perso questo loro attributo, sono “calati” (o, per usare le sue parole, sono stati recuperati) nella dimensione del gioco.
Secondo la tua esperienza, la wunderkammer può essere nata per lo stesso scopo? Recuperare, se non al sacro, quanto meno al meravigilioso ed al sublime, qualcosa che sacro aveva ormai smesso di esserlo? Parliamo comunque del periodo della Controriforma, quando la chiesa si dette un gran daffare per cercare di incanalare nel proprio alveo e sconfiggere molte forme di religiosità popolare e “rimasugli” di paganesimo.
Premesso innanzitutto che su queste motivazioni “inconsce” ci è dato soltanto di speculare, le camere delle meraviglie sono espressione di una curiosità proto-scientifica per le cose del mondo; sono legate cioè al nascere dell’indagine naturalistica.
Non che nel Medio Evo gli uomini non fossero capaci di osservare un leone, per dire; ma interessava più il suo valore simbolico che comprenderne il comportamento o le caratteristiche reali. La curiosità scientifica va anche di pari passo – come suggerisci tu, se ho capito bene – con una certa “secolarizzazione” (anche qui ci vorrebbe un bel proto- davanti!). Le cose che un tempo erano sacre non spaventano più così tanto. Il monstrum ad esempio passa da prodigioso segno divino a semplice lusus naturae, scherzo della natura. I feti deformi cominciano a essere messi sotto alcol e ammirati, piuttosto che temuti.
Quindi c’è un certo cambio di prospettiva – da una natura che era esclusivamente espressione della grazia o della collera divina, della fantasia e degli scopi imperscrutabili del Creatore, si passa a una visione della natura che “si regge in piedi da sola”, con il consenso di Dio. Madre di tutte le bizzarrie, comincia a venire studiata e catalogata proprio grazie a queste prime grandi collezioni.
Non ho davvero idea se ti ho risposto o meno. 🙂