Con i suoi 9 anni di età, Samantha Young è la più giovane domatrice di alligatori del mondo. Ha cominciato a praticare questa particolare lotta all’età di 6 anni.
I suoi genitori, entrambi domatori professionisti e proprietari di un allevamento di 350 alligatori, l’hanno sorvegliata nei suoi primi tentativi, insegnandole la giusta tecnica per bloccare l’animale e agguantargli le fauci nel punto migliore.
Oggi Samantha insegna agli adulti come domare i rettili al Colorato Gator Reptile Park, e ha addirittura addestrato alcuni marines in questa sfida mortale. Le mascelle degli alligatori sono tra le più forti del regno animale. Per darvi un’idea, ecco come un alligatore adulto riduce un’anguria:
Theo Jansen è l’inventore delle Strandbeest, “animali di spiaggia”. Ha creato non delle semplici sculture, ma una nuova forma di “vita”.
Le sue creature sfruttano gli elementi per muoversi. Hanno imparato a camminare fluide, sicure, armoniose. Alcune fra loro hanno la capacità di immagazzinare parte dell’energia del vento per muoversi più a lungo. Altre hanno addirittura imparato a difendersi: quando il vento si fa troppo violento e rischia di rovesciarle, affondano i loro tubi gialli nella sabbia.
Parlare quindi di mera ingegneria toglie qualsiasi poesia alle Strandbeest. Forse anche solo parlarne, limita la loro bellezza. Guardatele in movimento nei filmati qui sotto… comincerete anche voi a sperare di incontrare un giorno, mentre fate una passeggiata sul bagnasciuga, una di queste meravigliose, armoniose e gentili creature.
La Prima Guerra Mondiale fu un vero e proprio massacro. Ma il peggio non venne per chi restò sotto il fuoco delle prime mitragliatrici, o per chi rimase vittima dei gas o delle bombe. Molti furono così fortunati da salvarsi, e così sfortunati da tornare a casa con ferite assolutamente agghiaccianti. I ritardi nei soccorsi non fecero che peggiorare la situazione dei feriti, che spesso non si ripresero più integralmente.
Una categoria particolare di reduci con ferite di guerra è costituito dalle cosiddette gueules cassées, termine francese che significa pressappoco “facce fracassate”. Erano i militari che avevano riportato estese ferite al volto, e che erano per così dire “impresentabili” e dunque difficilmente reintegrabili nella società. Per la prima volta nella storia, però, la medicina aveva i mezzi per cercare di ovviare a questi incidenti. Stiamo parlando, qui, degli esordi pionieristici della chirurgia plastica ricostruttiva del maxillo-facciale. Sulla base di queste prime esperienze i chirurghi furono in grado di sviluppare un’esperienza che, affinatasi nel tempo, permette oggi di restituire una vita quasi normale a persone sfigurate. (È triste ammetterlo, ma questi soldati fecero anche inconsapevolmente da cavia per quelle tecniche che successivamente portarono alla chirurgia estetica vera e propria, quella delle labbra al silicone, del lifting o dei seni rifatti).
In questo blog abbiamo già parlato di terapie piuttosto crudeli relative agli albori della medicina. Quello che colpisce sempre nel riesaminare a distanza di quasi un secolo queste tecniche mediche primitive, è la scarsa considerazione che i medici sembravano avere della sofferenza del paziente. Confrontate i tentativi odierni di essere sempre meno invasivi, delicati, poco intrusivi, con queste tecniche antiquate: il dolore era qualcosa che andava sopportato, punto e basta, mentre i dottori cercavano di salvarti la pelle o migliorarti la vita.
Prendiamo ad esempio i sistemi per aprire la bocca del paziente. Molto spesso, dopo un trauma facciale, i muscoli della mascella rimanevano tirati e in tensione e aprire la bocca risultava impossibile. A seconda del grado di gravità, venivano utilizzati diversi sistemi. L’apri-bocca più comune era questo:
Si trattava di una sorta di morsa “al contrario” che veniva aperta gradualmente per allentare la tensione dei muscoli. Aveva effetti poco rilevanti nel tempo. Altri metodi, però, erano ancora più drastici e dolorosi.
Il “procedimento del sacco”, esposto dal dottor Pitsch nel 1916, è un esempio di terapia davvero brutale. Una volta trovato un interstizio tra i denti, due assicelle venivano inserite nella mascella del paziente.
Appena dischiuse le due pareti dentarie, un uncino veniva attaccato alla mascella inferiore e a questo veniva attaccato un sacco pieno di sassi o carbone il cui peso veniva velocemente aumentato per consentire l’apertura della bocca.
Il procedimento era dolorosissimo e non aveva effetti notevoli a lungo termine, perché i muscoli, troppo bruscamente e violentemente stirati, si ricontraevano poco dopo. Anche se la trazione veniva bilanciata da una banda che tratteneva il capo del paziente, le vertebre della nuca risentivano comunque dello stress.
Più complesso ancora era il caso dei volti sottoposti a un vero e proprio trauma che li aveva lasciati a brandelli e con ferite aperte. La protesi immediata veniva effettuata mediante maschere di contenimento che riportassero assieme i vari frammenti di volto, in modo che non si allontanassero ma anzi si fondessero assieme. L’idea era quella di cicatrizzare l’area più grande possibile, favorendo il consolidamento in buona posizione delle fratture, per permettere in seguito la riparazione delle parti lese. Il casco di Darcissac teneva insieme i diversi “pezzi” di faccia finché non si fossero riattaccati e cicatrizzati. L’intera procedura durava due o tre settimane, di immobilizzazione assoluta.
Passarono alcuni anni, prima che nel 1918 si arrivasse alla rivoluzionaria tecnica di Dufourmentel. Egli scoprì infatti che la pelle del cuoio capelluto reagiva meglio ed era più solida rispetto a quella del braccio. Tagliando quindi ampi lembi di pelle dal cranio dei pazienti, Dufourmentel riuscì a ricostruire elementi fino ad allora inapprocciabili della ricostruizione facciale. Ecco una mandibola “rimodellata” a partire dal cuio capelluto.
Anche gli italiani ebbero una parte in questa “corsa” alla ricostruzione dei volti dei reduci. I medici, infatti, provarono anche a ricorrere a una metodologia già inventata e spiegata addirittura nel XVI secolo dal chirurgo italiano Tagliacozzi, modificando qua e là il procedimento e le indicazioni di questo storico precursore. Questa tecnica si applicava soprattutto alle perdite moderate di tessuto nell’area nasale e del mento.
L’idea era quella di “rialzare” un lembo di pelle dal braccio, connetterlo al tessuto mancante del volto e lasciare che la pelle facesse il suo lavoro, “ricucendosi” con le parti mancanti. Ovviamente bisognava assicurarsi che il braccio fosse immobilizzato, per due o tre settimane, al fine di permettere la vascolarizzazione dei nuovi tessuti. Questa tecnica era stata, nei secoli precedenti, violentemente ostracizzata dalla Chiesa, a motivo della presunta interferenza con i piani del Creatore, e la Santa Sede dispose addirittura la riesumazione del Tagliacozzi e la sua sepoltura in terra non consacrata.
Infine la tecnica di ricostruzione prevedeva degli esperti dentisti che, a partire dai calchi del volto dei pazienti, progettavano e scolpivano protesi che potessero ridare loro la fisionomia perduta.
Le protesi alle volte includevano occhiali per dissimulare l’artificio.
Infine, ecco un raro filmato della Croce Rossa, datato 1918, in cui alcuni dottori e infermiere posizionano e controllano l’efficacia delle protesi facciali su alcuni reduci.
Le tecnologie di ricostruzione del maxillo-facciale hanno da allora fatto un passo in avanti decisivo, e ad oggi costituiscono la fortuna di chirurghi plastici proprietari di atolli e isolotti, così come di onesti medici che cercano di ridare il sorriso e un’integrazione maggiore alle vittime di incidenti terribili.
Per ironia della sorte, la chirurgia estetica è nata proprio da uno dei più grandi e sanguinosi confilitti che il mondo abbia mai conosciuto.
Lo sanno anche i bambini: gli alieni Navi del blockbuster Avatar hanno la pelle di un bel blu acceso. Ma cosa direste se anche il vostro vicino di casa un bel giorno uscisse dal portone con un look simile?
Per quanto possa sembrare assurdo, la storia medica ha registrato diversi casi di gente dalla pelle blu. L’uomo fotografato qui sotto (al centro), per esempio, era del tutto normale.
Oggi, all’età di 60 anni, la sua pelle ha assunto un colore blu smorto. Come è potuto succedere?
La trasformazione di Paul Karason (così si chiama il simpatico vecchietto dell’Oregon) è avvenuta gradualmente, nel corso degli ultimi 17 anni. Tanto gradualmente che, a detta dello stesso Paul, né lui né gli altri parenti se ne sono resi conto immediatamente. È bastato però rivedere un amico rimasto lontano per anni, per sentire la fatidica domanda: “Ma cosa ti è successo?”. Da quel momento, la sua vita è cambiata. Paul Karason ha cominciato a vergognarsi, ad evitare i posti affollati. Fino alla difficile decisione di lasciare il suo Stato per emigrare in California, dove “la comunità è molto più aperta e spero di vivere una vita normale, in cui mi accettino per quel che sono”.
La sua fidanzata, Jackie Northrup, afferma di “ricordarsi” che lui è blu soltanto quando sono in spazi pubblici e la gente comincia a fissarlo. “È gentile e dal cuore generoso”, lo descrive Jackie.
Sembra che lo strano cambiamento sia da attribuire all’assunzione prolungata di argento colloidale, uno di quei rimedi a cui la medicina alternativa attribuisce poteri benefici e curativi che possono risolvere praticamente qualsiasi problema di salute. Si ottiene liberando l’argento nell’acqua tramite energia elettrica, e molti lo considerano una panacea universale. E, nonostante tutto, Paul ne è ancora convinto. Secondo lui l’errore non è stato bere la pozione d’argento, ma passarsela sulla faccia per combattere delle eruzioni cutanee, provocando così un brutto caso di argiria. Quali che siano le cause, comunque, Paul ha deciso di non curarsi e si è rassegnato a vivere così il resto dei suoi giorni.
Ma la pelle blu può derivare anche da problemi di tipo genetico. Divenne celebre il caso di una famiglia del Kentucky, residente sui monti Appalachi, la familia Fugate.
Poiché risiedente in una zona montagnosa sperduta, questa famiglia installatasi a Troublesome Creek nel 1800 e ivi stanziata fino agli anni ’60 del XX secolo, dovette ricorrere spesso ai matrimoni consanguinei. Questo fece emergere dei geni recessivi responsabili della malattia denominata metaemoglobinemia, un’alterazione che produce alti livelli di metaemoglobina nel sangue. La metaemoglobina è una variante dell’emoglobina che non si lega con l’ossigeno, e quando è prodotta in dosi massicce può portare a ipossia dei tessuti (poco ossigeno nelle cellule). Questo spiegherebbe il colore bluastro dei Fugate, con labbra viola ematoma.
I Fugate furono curati dal medico che si prese a cuore il loro caso con iniezioni e pastiglie di blu di metilene: il trattamento ridonò loro il colorito naturale (anche se l’effetto era temporaneo e le pastiglie andavano assunte quotidianamente). “Erano gente povera, ma brava gente”, ricorda il medico. Diverse troupe di documentaristi e programmi televisivi hanno da allora cercato di intervistare i Fugate, ma sono state regolarmente respinte dai feroci cani da guardia della famiglia. Dagli anni ’60 si è persa traccia dell’esatta localizzazione del ranch dei Fugate, e ora la famiglia dalla pelle blu può vivere in pace.
Il campione del mondo di free-diving (immersione libera in apnea) Guillame Nery ha affrontato il Dean’s Blue Hole nelle Bahamas, il secondo buco sommerso più profondo del mondo (202 metri). La campionessa di apnea Julie Gautier l’ha accompagnato, filmando il tutto, anche lei senza respiratore.
Il risultato di molteplici immersioni è Free Fall: un cortometraggio spettacolare e mozzafiato, estatico e onirico. Un filmato che ci tocca a un livello archetipico: l’uomo, la natura, la sfida ma anche il volo, la luce, l’acqua… Godetevelo a schermo intero, e immergetevi nel mistero!
Se visitate la Thailandia, ricordatevi questo nome. Si tratta di un luogo sacro, unico e assolutamente weird, almeno agli occhi di un occidentale. Tempio buddista, mèta annuale di migliaia di famiglie, è celebre per ospitare la più grande scultura metallica del Buddha. Ma non è questo che ci interessa. È famoso anche per il suo Palazzo delle Cento Spire, ma nemmeno questo ci interessa. Quello che segnaliamo qui sono le dozzine di figure e complessi statuari che descrivono torture e sevizie riservate dai demoni dell’inferno alle anime in pena.
Infilzate in faccia, o intrappolate nelle fauci di orrendi mostri, con le interiora esposte, trafitte da spade e lance, queste sculture lasciano ben poco all’immaginazione: se non diciamo le preghierine alla sera, non ce la passeremo tanto bene nell’aldilà. Questo macabro e violentissimo “parco di attrazioni” ha per i fedeli un valore educativo. È una visualizzazione grafica e figurativa della sofferenza e dell’inferno.
Certo, c’è da dire che il rapporto dei thailandesi con la morte è meno travagliato del nostro; eppure, per quanto a prima vista il giardino delle torture di Wat Phai Rong Wua possa sembrare una soluzione estrema per colpire la fantasia dell’uomo illetterato, ricordiamoci che anche le nostre chiese abbondano di dipinti e allegorie non meno violente o macabre. Ormai abituati all’arte del Novecento, che si è man mano astratta dal bisogno di veicolare o avere un significato, ci dimentichiamo facilmente del ruolo avuto anche nella nostra storia dell’arte figurativa: quella di educare le masse, di proporsi come libro illustrato, e di servire quindi alla formazione di un immaginario anche per quanto riguarda i mondi a venire.
Eizo, una ditta specializzata in apparecchiature mediche e radiografiche, ha pubblicato un calendario 2010 piuttosto particolare. Le modelle infatti, tutte ritratte in pose molto provocanti da vere pin-up, sono davvero senza veli!
Quando nel 2005, a soli 32 anni, il pittore giapponese Tetsuya Ishida morì sotto un treno, per chi conosceva la sua opera venne più che naturale pensare che si trattasse di suicidio. I suoi quadri, infatti, sono talmente carichi di un’angoscia gelida e paralizzante da poter essere letti in un’ottica prettamente personale di depressione e solitudine.
Eppure i suoi dipinti surrealisti vanno ben al di là della semplice espressione di un disagio individuale. Certo, i quadri di Ishida avevano come protagonista assoluto e ossessivo Ishida stesso, che nei suoi autoritratti si figurava come una vittima dal corpo fuso con gli elementi architettonici e tecnologici quotidiani. Ma la sua forza evidente è quella di offrire un ritratto drammatico dell’uomo moderno, al di là dell’autoritratto. Un uomo irrimediabilmente oppresso e imprigionato, reificato, ormai ridotto ad oggetto inanimato, parte integrante di una catena di montaggio di stampo industriale che lo priva di ogni identità.
Benché lo stile e l’immaginario di Ishida siano tipicamente giapponesi (a qualcuno di voi verrà certamente in mente il Tetsuo di Tsukamoto), i temi che sono affrontati nelle sue opere hanno valenza universale ed esprimono le paure di tutto il mondo “civilizzato”. L’ibridazione uomo-macchina, tema fondamentale della fine del secolo scorso con cui si sono confrontati autori del calibro di James G. Ballard o di David Cronenberg, è uno dei tratti fondamentali della nostra cultura.
Se negli anni ’50 si poteva pensare che la tecnologia ci venisse in aiuto e facesse da protesi senza che questo intaccasse la nostra stessa identità e il concetto di corpo, oggi è ovvio che non è così. Gli ambienti in cui viviamo entrano a far parte delle architetture della mente, così come il corpo diviene sempre più sfuggente, ibridato, multiforme. Il concetto identitario cambia e si trasforma continuamente.
Ishida mostra di essere consapevole di questo nuovo assetto, e allo stesso tempo denuncia la violenza che l’individuo subisce a livello sociale. In un paese come il Giappone, l’allarme lanciato dall’artista è che la conseguenza di un’impostazione di lavoro così oppressiva non può che portare a una totale deumanizzazione.
Purtroppo, a parte il sito ufficiale (in giapponese) con diverse splendide gallerie, sulla rete si trovano pochissime informazioni su questo prolifico pittore scomparso prematuramente.