Aprite un atlante e guardate bene l’Oceano Atlantico, sotto l’equatore. Notate nulla?
Al centro dell’oceano, praticamente a metà strada fra l’Africa e l’America del Sud, potete scorgere un puntino. Completamente perduta nell’infinita distesa d’acqua, ecco Tristan da Cunha, l’ultimo sogno di ogni romantico: l’isola abitata più inaccessibile del mondo.
L’isola, di origine vulcanica, venne avvistata per la prima volta nel 1506; le sue coste vennero esplorate nel 1767, ma fu soltanto nel 1810 che un singolo uomo, Jonathan Lambert, vi si rifugiò, dichiarandola di sua proprietà. Lambert, però, morì due anni dopo, e Tristan venne annessa dalla Gran Bretagna (per evitare che qualcuno potesse usarla come base per tentare la liberazione di Napoleone, esiliato nel frattempo a Sant’Elena). Tristan da Cunha divenne per lungo tempo scalo per le baleniere dei mari del Sud, e per le navi che circumnavigavano l’Africa per giungere in Oriente. Poi, quando venne aperto il Canale di Suez, l’isolamento dell’arcipelago diventò pressoché assoluto.
Le correnti burrascose si infrangevano con violenza sulle rocce di fronte all’unico centro abitato dell’isola, Edinburgh of the Seven Seas, chiamato dai pochi isolani The Settlement. Chi sbarcava a Tristan, o lo faceva a causa di un naufragio oppure nel disperato tentativo di evitarlo. Fra i naufraghi e i primi coloni, c’erano anche alcuni navigatori italiani.
Nel 1892, infatti, due marinai di Camogli naufraghi del Brigantino Italia infrantosi sulle scogliere dell’Isola decisero, per amore di due isolane, di stabilirsi a Tristan da Cunha; essi diedero vita a due nuove famiglie (che ancor oggi portano il loro nome, Lavarello e Repetto) che si aggiunsero alle cinque già esistenti sull’isola, completando in questo modo il quadro delle parentele che esiste uguale ancor oggi a più di un secolo di distanza. Dopo i due italiani, nessun altro si fermerà a Tristan da Cunha originando nuove stirpi.
Passarono i decenni, ma la vita sull’isola rimase improntata alla semplicità rurale. Fra i tranquilli campi di patate e le basse case di pietra giunsero lontani racconti di una Grande Guerra, poi di un’altra. Tristan rimase pacifica, protetta dal suo deserto d’acqua, una terra emersa inaccessibile che nemmeno il progresso industriale poteva guastare.
Poi, nel 1961, il vulcano al centro dell’isola si risvegliò, e gli abitanti vennero evacuati. Sfollati in Sud Africa, rimasero disgustati dall’apartheid che vi regnava, così distante dai principi solidaristici della loro primitiva e utopica comunità. Ottennero così di essere trasferiti in Gran Bretagna, e lì scoprirono un mondo radicalmente diverso: un Occidente in pieno boom economico, che si apprestava a conquistare ogni risorsa, perfino a spedire uomini sulla Luna.
Dopo due anni, gli isolani ne avevano abbastanza della rumorosa modernità. Ottennero il permesso di tornare a Tristan, e nel ’63 sbarcarono nuovamente sulla loro terra, e tornarono ad occuparsi delle loro fattorie.
E anche oggi, Tristan resta un’isola mitica e remota: è raggiungibile unicamente via mare, e se ottenete il necessario permesso per sbarcare, neanche così è molto semplice. Non c’è infatti un porto sull’isola, che deve essere raggiunta mediante piccole imbarcazioni che sfidano le violente onde dell’oceano.
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Gli abitanti, oggi poco più di 260, pur fieri ed orgogliosi della loro solitudine, si stanno lentamente aprendo alle nuove tecnologie (per molto tempo l’unico accesso a internet è rimasto all’interno dell’ufficio dell’Amministratore dell’isola). Vivono in armonia e serenità, senza alcuna traccia di criminalità. La proprietà privata è stata introdotta soltanto nel 1999. Le navi da crociera che fanno scalo a Tristan sono pochissime (meno di una decina in tutto l’anno), e le uniche imbarcazioni che vi si recano regolarmente sono quelle dei pescatori di aragoste del Sud Africa.
Anna Lajolo e Giulio Lombardi hanno passato tre mesi sull’isola, intessendo rapporti di amicizia con gli islanders, e sono ritornati in Italia regalandoci un documentario, e diversi testi fondamentali per comprendere le difficoltà e le delizie della vita in questo paradiso dimenticato dal mondo, e lo spirito concreto e generoso degli abitanti: L’isola in capo al mondo, 1994; Tristan de Cuña: i confini dell’asma, 1996; Tristan de Cuña l’isola leggendaria, 1999; Le lettere di Tristan, 2006.
Ecco il sito governativo dell’isola.
Cavolo, mi sento affascinata dall’idea di vivere lì in una maniera che non so descrivere! D’altra parte un così totale isolamento mi farebbe sentire un po’ soffocata!
Cercarla su google Earth ti da’ una buona visione d’insieme: ilnullailnullailnulla, e poi ecco Tristan, con accanto l’isola Inaccessibile!
Peccato che ci fosse solo un’offerta di lavoro, già scaduta! 😀
Grazie!
Eh già, con Google Earth si ha proprio una buona idea… nonostante l’ideale romantico della fuga, anch’io sarei leggermente spaventato dall’idea di vivere per sempre lì. Soprattutto credo che non potrei vivere senza olio d’oliva per cucinare… 😉
sono anni che immagino una fuga lontanissimo da questa ‘civiltà inaggiustabile’.Sono ancora in ottima salute e non ho bisogno di lavorare per sopravvivere. Devo solo trovare una compagnia che condivida l’assurdo dell’esistenza…in altre parole: una casa una donna e una vigna.
Tristan da cunha e’ nei miei pensieri da anni, purtroppo mi sento come “….una barca che anela il mare, eppur lo teme…” (Edgar Lee Masters – Antologia di Spoon River).
Finche’ per vivere dovrò lavorare, la mia barca rimarrà in porto con le vele piegate, sognando l’isola inaccessibile.
partirei oggi stesso per rimanerci per sempre
Il fascino di questa isola è talmente grande da attirarmi intensamente…..domani faccio i bagagli e vado alla scoperta delle sue bellezze.
La mia mamma che si chiamava Repetto Ada (1914-2007) mi ha sempre parlato di questa remota isola dove il suo cognome era di casa.Chissà,forse un giorno potrò visitarla,anche se sembra una vera impresa e se ciò sarà possibile il suo pensiero mi accompagnerà.Luisa
Chissà come saremmo senza le tecnologie di oggi, come cambierebbero i nostri interessi e come concepiremmo la vita in generale se fossimo nati lì…
Una vacanza di un mese magari può essere distensiva e rilassante, ma passarci tutta la vita forse farebbe perdere più cose di quante si possano guadagnare stando qui
Se riuscissi a comprare una barca sarebbe il primo posto dove andrei. Spero tanto non rimanga un sogno. Antonello.
Sono… basita. Ho conosciuto quest’isola una settimana fa. Da allora, a parte i casi di approfondimento personale, non fa altro che capitarmi sotto il naso questo nome. Nel banner di un altro blog (per la cronaca è Giap, che ora in alto ha le illustrazioni della copertina di Cantalamappa, dove compare un francobollo del posto), tirato in ballo da una negoziante in un discorso che ho avuto con lei questo pomeriggio, e ora qui, che è la prima volta che metto piede in questo posto, visitato per altri motivi e non di certo per Tristan da Cunha.
È curioso. Voglio illudermi che sia un messaggio, che l’isola mi stia ricordando prepotentemente di non scordarmi di lei, che mi stia dicendo di andarla a trovare, un giorno che potrò.
Se l’intenzione del blog, come qui è dichiarato, è di stupire e risvegliare la meraviglia in ognuno di noi, ce l’ha fatta.
Saluti 😉
Forse ti sta suggerendo non tanto di raggiungerla, quanto di trovare la tua Tristan da Cunha personale… 😉
Sto scoprendo che potrebbero essercene persino più d’una. A proposito, sfogliando il (bellissimo! e così perturbante) blog, mi sono imbattuta in un articolo sull’ammutinamento del Batavia, una vicenda che mi affascina moltissimo, come tutte le storie di isole lontane, mari ed esplorazioni. Non mi è parso di aver visto, nemmeno consultando l’indice, un argomento egualmente affascinante: quello della ricerca del fantomatico Passaggio a Nord-Ovest. Oltre alle ricerche del cartografo Petermann e delle fantasticherie sulla Terra Cava o su un’Iperborea al di là dei ghiacci, credo siano di particolare interesse le vicende attorno alle navi Erebus e Terror, disperse nel pack, delle quali due membri dell’equipaggio furono trovati mummificati ed in ottimo stato di conservazione nell’Isola di Beechey, per cause indipendenti dal naufragio. La storia si intreccia con il mistero delle ultime ore della vita dei sopravvissuti, probabilmente costretti al cannibalismo, con quella dell’esploratore John Rae che trovò indizi di questa pratica e divulgò l’informazione, scandalizzando i civilissimi Inglesi dell’epoca per l’affronto alla memoria dei bravi ufficiali dispersi; e poi con quella del fiorire dello spiritismo finalizzato alla comunicazione con i marinai smarriti, unica ancora di salvezza per i loro cari in patria. Lo scrivo senza presunzione (magari conoscevi già la vicenda), ma con tanto ingenuo entusiasmo, è una storia che vedrei bene in questa cornice.
Wow, grazie per gli spunti! Sono storie di cui avevo letto tempo fa, ma che da quello che mi dici sembrano sicuramente meritevoli di approfodimento. Le vicende marinare sono senza dubbio affascinanti, per risparmiarti la ricerca ti indico un paio di post che potrebbero interessarti: Gli schiavi dimenticati e La nave nel buio. 🙂
Che storie! Di queste non sapevo davvero nulla (la seconda mi ha rammentato un romanzo di Saramago, ma in salsa ancora più cupa!). Grazie! Questo blog è una soffitta delle meraviglie e mi sto già divertendo a passarci ore, è tutto estremamente interessante (a tratti un po’ “EEW”, ma fa parte del gioco 😀 ).