Pensate anche voi che le lumache siano simbolo di lentezza? Date un’occhiata a questa lumaca carnivora della Nuova Zelanda.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=5xNxQfVNVR8]
Scoperto via BoingBoing.
Pensate anche voi che le lumache siano simbolo di lentezza? Date un’occhiata a questa lumaca carnivora della Nuova Zelanda.
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Scoperto via BoingBoing.
Julijonas Urbonas è un artista, designer e ingegnere lituano trapiantato in Inghilterra. Ha lavorato per tre anni come direttore di un parco di divertimenti, ed è lì che ha cominciato a interessarsi alle potenzialità tecnologiche e artistiche legate alla forza di gravità.
Così, battezzando il suo campo di ricerca “estetica della gravità”, ha cominciato ad occuparsi delle relazioni fra l’uomo e la forza che lo tiene a terra; i progetti artistici di Urbonas cercano una nuova prospettiva su questa storia di amore/odio fra corpo umano e gravità. Una delle sue più controverse opere è senza dubbio un rollercoaster futuristico progettato appositamente per essere una vera e propria macchina di eutanasia.
L’ultima, euforica e adrenalinica corsa in ottovolante si compone di due fasi: come prima cosa, attaccati a una serie di dispositivi per il monitoraggio del cervello, venite trasportati fino alla cima di una una torre di 500 metri di altezza, per poi precipitare in caduta libera. Questo garantisce la necessaria forza cinetica per esporre il corpo a una forza di 10 g per 1 minuto, attraverso una serie di “giri della morte” posizionati nella seconda parte della corsa.
Il sangue viene sparato verso le estremità basse, causando una completa mancanza di afflusso di ossigeno al cervello: la velocità garantisce uno stato di ipossia e ischemia cerebrale con conseguente perdita di coscienza già dal primo anello… alla fine della serie di giri, i sistemi di monitoraggio constateranno l’avvenuta morte cerebrale e si assicureranno che non abbiate bisogno di un’altra corsa.
Questo progetto, volutamente provocatorio, è comunque stato studiato in modo scientifico e non è una semplice trovata per stupire. Si basa sui dati reali degli esperimenti e addestramenti in cui i corpi dei piloti vengono sottoposti a simili forze per pochi secondi. La macchina per l’eutanasia in forma di ottovolante, nelle intenzioni dell’autore, è insieme uno studio sugli effetti della gravità sul corpo umano e una possibile, futura variazione degli apparecchi per la morte assistita, che potrebbe inoltre garantire l’efficace dipartita di più soggetti contemporaneamente. Tutti assieme sul trenino, cinture allacciate, pronti per l’ultimo, estremo sballo.
È evidente l’umorismo provocatorio che sta alla base del progetto, l’iconoclasta sovrapposizione di temi opposti come l’eutanasia e l’industria del divertimento; con il suo ottovolante suicida, che provoca assieme ilarità e repulsione, Urbonas riesce a stimolare una riflessione profonda su un’incredibile varietà di temi: sul futuro, sull’etica, su quale sia il nostro concetto di morte, su come possa evolversi, sulla ricerca odierna del divertimento estremo… e, forse, si propone anche come una ironica, macabra variazione del vecchio detto “la vita è soltanto un giro di giostra”.
[vimeo http://vimeo.com/23040442]
Ecco la pagina web dell’artista dedicata al progetto Euthanasia-Coaster, contenente una descrizione in inglese (esilarante e angosciante al tempo stesso) dell’esperienza che si proverebbe salendo sulla macchina.
Ecco a voi Doxology, un cortometraggio sperimentale diretto nel 2007 da Michael Langan. Delirante e assurdo gioiello di surrealismo e visioni allucinate, il corto utilizza la tecnica della pixillation, un tipo particolare di stop-motion in cui gli attori in carne ed ossa vengono “animati” a passo uno, fotogramma per fotogramma, come si farebbe con un pupazzo o un cartone animato.
Palline da tennis, danze con le automobili, misteriose riprese aeree che sembrano essere contemporaneamente fisse e in movimento… e questo titolo criptico, riferimento alla dossologia liturgica, che rimanda all’idea della ripetizione, e al concetto di sacro. Come se questo potesse essere il beffardo sguardo che Dio lancia verso l’uomo – uno sguardo ironico e incomprensibile, all’interno del quale tutto è fermo e allo stesso tempo in continua mutazione, e che vede l’essere umano come una piccola e buffa marionetta.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=ouEtqk3VIFM]
Nata a Los Angeles nel 1979, la fotografa Alex Prager si sta affermando come una delle voci più originali della scena artistica californiana. Le sue fotografie, estremamente ricercate, fanno di sicuro la felicità di semiotici e critici, ma riescono a provocare forti emozioni anche nel pubblico meno “dotto”. E questo perché contengono riferimenti a un certo tipo di cultura popolare, o meglio “pop”, che tutti conosciamo bene.
Nonostante la splendida fattura e la maniacale ossessione per i dettagli, l’arte di Alex Prager è infatti interessante proprio in virtù di ciò che non mostra, per i rimandi esterni che chiama in causa. I suoi scatti sembrano provenire direttamente dagli anni ’60, dalle patinate riviste di moda, piene di belle modelle vestite di colori sgargianti, con stravaganti acconciature e che spesso esibiscono la gioiosa e liberatoria indipendenza delle donne di quegli anni. La cura nel ricostruire il look e i piccoli particolari d’epoca è notevole, ma il tutto non si esaurisce in un vuoto esercizio di stile.
Talvolta la drammaticità di alcune fotografie le fa sembrare dei veri e propri fotogrammi tratti da film che non vedremo mai… e che, allo stesso tempo, abbiamo la sensazione di aver visto centinaia di volte. Così un volto dal trucco rétro, gli occhi arrossati colmi di lacrime, è talmente potente da risvegliare in noi una fantasia narrativa. Lo spettatore si ritrova, inconsciamente, a ricostruire un prima e un dopo, a inventare un personale e immaginario film, è cioè chiamato a usare tutti i referenti “cotestuali” che ha per completare il senso dell’immagine.
Le migliori opere della Prager sono quindi rivolte a un pubblico cinefilo, e non a caso l’artista californiana ha anche diretto un paio di cortometraggi utilizzando alcune amiche modelle come attrici. I toni mélo e la drammaticità dell’illuminazione riportano direttamente a un immaginario cinematografico, che scopriamo essere molto più che un bagaglio culturale: in questo caso si tratta di un vero e proprio filtro inconscio, attraverso il quale guardiamo e interpretiamo gli stimoli visivi che ci arrivano dalle fotografie. Le riconosciamo istantaneamente come probabili fotogrammi di film anche se, a rifletterci, faremmo fatica a spiegare il perché di questa immediata “interpretazione”.
E, infine, parliamo dell’aspetto più “politico” dell’opera di Alex Prager. Forse stiamo leggendo un po’ troppo fra le righe, ma donne, sempre donne sono le protagoniste di queste foto. Donne disperate, liberate, spregiudicate o misteriose. Talvolta, donne che sembrano in gabbia. Come se il vero senso di ribellione di quell’epoca d’oro, gli anni Sessanta, fosse racchiuso in un universo esclusivamente femminile – e, allo stesso tempo, al di là dell’emancipazione, la donna continuasse ad essere un personaggio, stereotipato nelle sue pose melodrammatiche e fissato per sempre in un mondo dai colori accesi e dalle mille passioni incontrollabili. Ma, al di là delle interpretazioni, quello che rimane inconfutabile è la stupefacente potenza di alcune di queste foto, che giocano in maniera postmoderna con l’immaginario di una controcultura ormai metabolizzata e addomesticata. E ci spingono a interagire, a integrare attivamente ciò che vediamo con ciò che abbiamo vissuto come spettatori.
Ecco il sito ufficiale di Alex Prager.
AGGIORNAMENTO: Ecco un interessante documentario su Alex Prager firmato da un lettore di Bizzarro Bazar, il giovane ma talentuoso scrittore e attore Francesco Massaccesi.
[vimeo http://vimeo.com/24849216]
FREAKS – LA COLLEZIONE AKIMITSU NARUYAMA
(2000, Logos)
Ovvero “Lo Sfruttamento Delle Anomalie Fisiche Nei Circhi E Negli Spettacoli Itineranti”.
L’impressionante collezione fotografica di meraviglie umane di Naruyama è un vero tesoro. Immagini storiche, di un’importanza eccezionale, raccolte in un libricino che, pur non offrendo un approfondito background storico, ha il potere di stregare il lettore grazie alla bellezza delle illustrazioni. Dai Lillipuziani alla Meraviglia Senza Braccia, dai Bambini Aztechi ai ragazzi-leone, tutti i più famosi freaks vissuti a cavallo fra diciannovesimo e ventesimo secolo sono presenti nella raccolta; molte delle fotografie sono infatti relative agli spettacoli circensi e alle fiere itineranti americane in cui questi artisti si esibivano. Dopo lo show, un’ulteriore fonte di profitto erano proprio le fotografie che venivano vendute al pubblico, autografate. Per quanto l’esibizione della deformità all’interno dei carnivals americani sia un capitolo affascinante della storia dello spettacolo moderno, questo prezioso libro però, così focalizzato com’è sui ritratti, offre qualcosa di diverso.
La raccolta documenta un’epoca e una società attraverso i suoi corpi meno fortunati, e allo stesso tempo nello scorrere le pagine avvertiamo l’atemporalità di queste anomalie: nell’antichità come nell’epoca moderna, certi uomini hanno dovuto sopportare il fardello di fattezze eccezionali, spesso temuti ed emarginati. Eppure, se è vero che ogni uomo è specchio per il suo prossimo, fissando gli occhi di questi nostri fratelli dai corpi stupefacenti ci accorgiamo che il loro sguardo rimanda il riflesso più puro e vero.
ELEFANTI IN ACIDO E ALTRI BIZZARRI ESPERIMENTI
(2009, Baldini Castoldi Dalai)
Una buona parte degli articoli di Bizzarro Bazar contenuti nella sezione “Scienza anomala” nasconde un debito verso questo splendido libro. Boese raccoglie, in forma divulgativa e spesso scanzonata, gli esperimenti scientifici più improbabili, sconcertanti, risibili – e, talvolta, illuminanti. Chi pensa che gli scienziati siano persone serie e compite, sempre nascosti dietro provette o lavagne piene di equazioni impossibili, farebbe meglio a ricredersi: l’immagine della scienza che esce dalle pagine di Elefanti in acido è quella di una disciplina viva, fantasiosa, sempre pronta a prendere le strade meno battute, anche a costo di errori madornali e vergognosi fallimenti. In definitiva, una disciplina molto più umana (nel bene o nel male) di come viene normalmente rappresentata.
Molti di questi esperimenti sono spassosi in quanto, a una prima occhiata, totalmente inconcludenti. Dai ricercatori del titolo, che somministrano a un elefante una potentissima dose di LSD, fino allo psicologo che in automobile resta fermo quando scatta il semaforo verde soltanto per cronometrare quanto ci mette l’autista dietro di lui a suonare il clacson, per finire con gli scienziati che costruiscono uno stadio per le corse degli scarafaggi, il tempo perso dagli studiosi in progetti dagli esiti comici può sconcertare. Eppure, come ricorda l’autore, non sempre la scienza ricerca soltanto le risposte alle nobili e grandi domande. Ogni tassello, per quanto insignificante possa sembrare, contribuisce a comprendere qualcosa di più del mondo in cui viviamo. È vero che gli uomini preferiscono le donne difficili da conquistare? Se cadessimo in un pozzo, il nostro cane verrebbe a salvarci? Perché non riusciamo a farci il solletico da soli?
I ricercatori le cui vicende sono narrate in Elefanti in acido hanno una fiducia smisurata nel metodo scientifico, e non esitano ad applicarlo a quesiti di questo tenore. Anche se, come nel caso dello scienziato che si incaponisce a contare tutti i peli pubici dei suoi colleghi, questa fiducia sembra talvolta divenire talmente cieca da non accorgersi dell’assurdità della ricerca stessa. E anche questo è molto umano.
Da bambini, tutti sognano di fare l’astronauta. Ma qualcuno sognava di diventare un becchino.
Se c’è un regista italiano che, per temi, dimostra una vera e propria “affinità elettiva” con il nostro blog, è Stefano Bessoni. Fin dai primi corti, le sue immagini pullulano di esemplari tassidermici, wunderkammer, bambole e preparati anatomici, scienze anomale, fotografie post-mortem, e tutto quell’universo macabro e straniante che caratterizza in buona parte anche Bizzarro Bazar. Ma la lente attraverso cui Bessoni affronta questi argomenti è pesantemente influenzata dalle fiabe, Alice e Pinocchio sopra a tutte, filtrate dalla sua vena di visionario illustratore.
Dopo il suo esordio al lungometraggio con Imago Mortis nel 2009, segnato da mille traversie produttive (ma qualcuno ricorderà anche il precedente Frammenti di Scienze Inesatte, mai distribuito), Bessoni ritorna quest’anno a una dimensione indie che gli è forse più congeniale. Se infatti Imago Mortis, pur contando su un notevole dispiego di mezzi, aveva sofferto di alcuni compromessi, il suo nuovo Krokodyle si propone come visione “pura” e totalmente svincolata da pressioni commerciali.
Gli elementi più apprezzati del film precedente, vale a dire la cura per i dettagli fotografici e scenografici, le atmosfere gotiche e macabre, la riflessione metacinematografica, si ritrovano anche in Krokodyle, nonostante la decisione di operare in low-budget e assoluta indipendenza artistica. Bessoni costruisce qui una specie di scrigno di “appunti di lavoro” che testimonia della varietà e profondità dei temi a cui attinge la sua fantasia. Se in Imago Mortis trovavamo la fascinazione per lo sguardo, i teatri anatomici, le favole nere, in Krokodyle il protagonista Kaspar Toporski (alter ego del regista, interpretato da Lorenzo Pedrotti) si trova a “raccogliere” in una collezione virtuale tutte le sue più grandi passioni: l’amore per le stanze delle meraviglie, l’animazione in stop-motion, la fotografia (ancora), l’esoterismo più grottesco e fumettistico, le creature magiche medievali (mandragole e homunculi), la frenologia, l’archeologia industriale, la letteratura… e, infine, il cinema. Il cinema visto come necessità ed estasi, libertà assoluta di inquadrare “con il cuore e con la mente”, vero e proprio processo alchemico capace di infondere vita a un mondo immaginario.
In esclusiva per Bizzarro Bazar, ecco un’intervista a Stefano Bessoni.
Con Krokodyle ritorni a una dimensione più indipendente – meno soldi e più libertà espressiva. In quale dimensione ti senti più a tuo agio? Cosa trovi di positivo e negativo nelle due differenti esperienze produttive?
L’ideale sarebbe avere tanti soldi e la completa libertà espressiva, ma questa è un’ovvietà. Mi trovo sicuramente molto più a mio agio nella dimensione indipendente, anche se non è possibile farlo senza trovare un minimo di finanziamento e un rientro economico che permetta almeno di coprire i costi del film. Lavorare per il cinema commerciale è invece massacrante, per non dire avvilente, ti annullano le idee e tutta la creatività costringendoti a lavorare come se fossi comunque un indipendente, limitandoti brutalmente il budget destinato all’aspetto visivo ed espressivo, per poi gettarti in pasto al pubblico senza farsi troppi scrupoli. Certo mi auguro che non sia sempre così e che magari, trovando i produttori giusti, si possa anche lavorare in sintonia su un prodotto che possa sposare esigenze commerciali ed espressive. Comunque mi piacerebbe molto continuare a lavorare da indipendente, assieme ai miei amici fidati di Interzone Visions (produttori di Krokodyle), sognatori e visionari come me, cercando però di mettere in piedi budget soddisfacenti per produrre film particolari, di ricerca visiva, ma allo stesso tempo accattivanti per il grosso pubblico.
È inevitabile che qualsiasi cosa tu faccia venga rapportata al cinema italiano. All’uscita di Imago Mortis erano stati citati Bava, Margheriti, e (forse a sproposito) Argento. In Krokodyle “rispondi” dichiarando il tuo amore per Wenders e Greenaway. Dove sta la verità?
La verità è che io ho iniziato a fare cinema guardando autori come Greenaway, Wenders, Jarman, Russell, poi ho scoperto il cinema espressionista tedesco e quello surrealista, l’universo fantastico di Svankmajer e dei fratelli Quay, insieme al grottesco di Terry Gilliam e di Jean Pierre Jeunet, infine mi sono lasciato contaminare da una buona dose di cinema di genere, avvicinandomi in questi ultimi anni a figure come Guillermo del Toro. Gli autori ai quali mi accomunano non li conosco nemmeno bene, li ho visti di sfuggita quando ero bambino e non credo che mi abbiano mai influenzato più di tanto.
Krokodyle si presenta fin da subito come un oggetto particolare, un “contenitore di appunti”. In questo senso sembra un film estremamente personale, quasi pensato per riorganizzare e fissare alcune tue idee in modo permanente. Ma un film deve anche saper incuriosire ed emozionare il pubblico, non può essere ad esclusivo “uso e consumo” di chi lo fa. Come hai mediato questi due aspetti? Come si concilia l’onestà di una visione con i compromessi commerciali?
Krokodyle è indubbiamente un film molto personale. Un film per me necessario per permettermi di fare il punto della situazione sulle mie idee e sulla mia condizione di filmmaker diviso tra indipendenza e cinema commerciale. Penso comunque che anche qualcosa di estremamente personale, se raccontato con fantasia e vivacità, possa destare l’interesse del pubblico. In fondo si dice che si dovrebbe raccontare solamente quello che si conosce molto bene, ed io ho fatto esattamente questo.
Hai spesso parlato del cinema come wunderkammer. Al giorno d’oggi, cos’è che ti provoca meraviglia?
Tante cose mi meravigliano, cose che magari altri non degnerebbero neanche di attenzione. Un animaletto rinsecchito, un insetto, una macchia d’umidità su un muro, un ferro arrugginito, un tratto di matita che lascio su un foglio quasi casualmente. Mi meravigliano le immagini e tutti gli espedienti e le tecniche per catturarle o crearle. Mi meraviglia il cinema, che considero la mia personale camera delle meraviglie, e trovo peculiare che la macchina da presa venga spesso chiamata camera.
Il film è stato in parte realizzato a Torino. Come è stato girare al Nautilus?
Il Nautilus è un posto che adoro. Ogni volta che vado a Torino non posso fare a meno di andarci e di intrattenermi per ore con il mio amico Alessandro Molinengo, perdendomi tra le mille curiosità e stranezze di quella bottega meravigliosa. Lì dentro si respirano le ossessioni degli antichi costruttori di wunderkammer, si percepiscono le perversioni di strambi sperimentatori scientifici e riaffiorano nella mente le descrizioni delle Botteghe color cannella di Bruno Schulz. In parte l’idea iniziale di Krokodyle è partita proprio dentro a quella bottega tanto macabra quanto bizzarra. Girarci è stato come girare a casa… a parte il terrore di rompere qualche reperto dal valore inestimabile!
Krokodyle, come altri tuoi lavori, è mosso da passione enciclopedica, e stupisce per quantità e ricchezza di riferimenti “alti” – letterari, cinematografici, scientifici, magico-esoterici. Eppure il tutto è filtrato da una leggerezza e un sorriso quasi infantili. Quanto è importante l’umorismo per te?
L’umorismo per me è fondamentale, soprattutto se parliamo di un ironia tendente al grottesco e al mondo dell’infanzia. Sono pervaso da una forte dose di umorismo nero che inevitabilmente riverso in ogni lavoro che faccio, che sia un film, un’illustrazione o uno scritto. È un temperamento molto più nordico, anglosassone e lontano dal modo di fare tipicamente italiano. Infatti vengo normalmente visto come un folle o un degenerato, come uno che rema controcorrente, uno da biasimare e allontanare, che mai riuscirà a comprendere le gioie e le delizie della commedia italiana più mainstream, dove calcio, doppi sensi, peti, tette e culi sono ingredienti prelibati per “palati raffinati”.
Gli attori nel film sembrano ben integrati e assolutamente a proprio agio nel tuo mondo. Eppure, recitare in Krokodyle dev’essere stato un po’ come entrare nella tua testa, e far finta di esserci sempre stati. Ok, mi dirai, sono attori… come li hai introdotti in questa realtà macabra e straniante? Che domande ti hanno fatto? Quali difficoltà hanno incontrato?
Non è stato facile, ma sono tutti attori che mi conoscono molto bene e che avevano già lavorato su Imago Mortis. Hanno accettato con entusiasmo di lavorare su Krokodyle proprio per aiutarmi a raffigurare personaggi estremamente intimi. Abbiamo lavorato molto, affrontato lunghe discussioni, e ho pensato a loro fin dalla fase di scrittura, proprio per avere il totale controllo dell’operazione. Somigliano anche ai miei disegni e non fatico a riconoscerli come qualcosa di estremamente familiare, di “mio”. Sono molto soddisfatto del risultato ottenuto.
In Italia l’idea diffusa è che il cinema debba riflettere la realtà, la condizione sociale, parlare insomma di problemi concreti. In una delle immagini più poetiche di Krokodyle, il protagonista fa partire una macchina da presa tenendola vicino all’orecchio, finché il ronzìo del trascinamento della pellicola non copre e annulla il rumore del traffico e dei clacson fuori dalla finestra. Il cinema è per te una fuga dalla realtà? Ti senti in colpa per le tue fantasticherie o le rivendichi orgogliosamente? Insomma, l’esotismo è una vigliaccheria o un diritto?
In colpa? Assolutamente no! Ne sono consapevole ed orgoglioso. L’esotismo, come lo definisci tu, è un privilegio, un dono, un’illuminazione. Io mi sento un fortunato. E poi, sembra strano dirlo, ma per me Krokodyle è un film sulla realtà, sulla realtà che io vivo tutti i giorni. La realtà è fatta di mille sfaccettature e quella che un certo cinema si ostina a propinare è solamente una piccola parte, forse quella più evidente. Basta saper osservare, ascoltare, per scovare un infinità di livelli di realtà che non ci sognavamo minimamente che potessero esistere. Anche gli specchi in fondo non sempre riflettono la realtà, basta pensare a quello che è successo ad Alice. Per concludere vorrei citare una frase di Jean Cocteau proprio a proposito di questo: “gli specchi farebbero bene a riflettere prima di rimandarci la nostra immagine…”
[vimeo http://www.vimeo.com/22233126]
Ricordiamo che il film è in uscita nelle edicole in DVD a partire da metà giugno, in allegato con la rivista Dark Movie, contenente uno special di 16 pagine interamente dedicato al film.
Ecco il blog di Stefano Bessoni, e il sito ufficiale di Krokodyle.
Quando Cyriak pubblica una sua nuova animazione, sapete che per un po’ potrete fare a meno della mescalina.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=WQO-aOdJLiw]
Se volete continuare il trip, riguardatevi i suoi vecchi filmati che avevamo ospitato qui e qui.
(Scoperto via BoingBoing)
Abbiamo già parlato di gemelli siamesi in questo post. Eppure le gemelline Hogan hanno qualcosa di davvero unico e sorprendente.
Nate nel 2006 a Vancouver, in Canada, le due sorelline Tatiana e Krista sono unite per la testa (craniopagia). Non possono essere separate, perché i loro sistemi nervosi sono intimamente interconnessi, e un’operazione in questo senso potrebbe ucciderle o renderle paralizzate.
Le due gemelline condividono parte dello stesso cervello, e la loro incredibile particolarità è che, pur avendo due personalità distinte, i loro sistemi limbici e nervosi sono intrecciati indissolubilmente. I loro talami, sede delle emozioni, sono fusi assieme. Questo implica una conseguenza sconcertante: una gemellina può avvertire quello che prova, emotivamente, l’altra. Fin dalla nascita, se la mamma faceva il solletico a Krista, anche Tatiana si metteva a ridere. E se a Tatiana davano un ciuccio, anche Krista smetteva di piangere.
Mano a mano che le sorelline Hogan crescono, gli scienziati scoprono “abilità” sempre più insolite. È stato addirittura confermato che possono “vedere” ciascuna attraverso gli occhi dell’altra – vale a dire che le immagini catturate dalla retina di una gemella si formano anche nella corteccia della sorella. Questa simbiosi è più unica che rara, e per questo le gemelle Hogan sono state assaltate dalla stampa, almeno fino a quando i genitori non hanno firmato un’esclusiva per un documentario a cura del National Geographic.
Oggi le bambine, dopo alcuni problemi di salute e qualche operazione (pienamente riuscita), stanno crescendo bene: hanno cominciato a camminare, parlare e contare. Nessuno può predire con certezza come si evolverà la loro personalità. I loro cervelli sono infatti distinti, e al tempo stesso collegati tramite il tronco encefalico e il talamo. Ogni cervello lancia segnali all’altro, e ne riceve. Ovviamente la stampa ha tirato in ballo la fantascienza, la telepatia, eccetera, ma questa è semplicemente la natura nella sua declinazione più bizzarra. E, se le gemelline godranno di buona salute come sembra probabile, la loro vicenda potrà forse segnare una svolta nello studio della formazione di pattern di informazione a livello cerebrale, e perché no, illuminare molti dei quesiti che assillano filosofi e neurologi da decenni. Cos’è l’identità? Come e dove esattamente si forma la coscienza?
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=42A0GdmQ02M]
Per il momento le gemelline Hogan continuano a giocare, ignare di tutti questi problemi, e sperimentano quotidianamente un grado di intimità di pensiero che nessuno di noi può nemmeno immaginare. E questa, per loro, è l’unica realtà che esiste.