Siamo abituati a considerare la salma di un caro estinto con estremo rispetto: nonostante la convinzione che si tratti in definitiva di un involucro vuoto, le esequie occidentali si iscrivono nella tradizione cristiana della conservazione del cadavere, in attesa della resurrezione della carne. Anche esulando dall’ambito strettamente religioso, il rispetto per la salma non cambia: addirittura la cremazione, pur disfacendo il corpo, viene principalmente intesa da noi come metodo per “salvare” il corpo dalla naturale putrefazione, o per dissolvere metaforicamente l’anima del defunto nel mondo.
In Tibet, invece, le esequie tradizionali hanno assunto dei connotati decisamente distanti dalla nostra sensibilità, ma non per questo meno stimolanti o affascinanti. La cerimonia funebre del jhator, o “funerale del cielo”, si è sviluppata a causa della mancanza, alle grandi altitudini himalayane, della vegetazione necessaria alla cremazione e dell’estrema durezza del suolo che impedisce la sepoltura vera e propria. Jhator significa letteralmente “elemosina agli uccelli”, ed infatti sono proprio questi ultimi i protagonisti della cerimonia.
Dopo alcuni giorni di canti e preghiere, il corpo del defunto viene portato all’alba nel luogo sacro destinato al funerale, sul fianco di una montagna che guarda ad est. Il punto esatto delle esequie può essere in prossimità di templi (stupa), marcato da altari oppure da semplici lastre di pietra. Qui il corpo viene liberato dal sudario, e al sorgere del sole alcuni uomini (chiamati rogyapa, “distruttori di corpi”) cominciano a tagliare la salma secondo le indicazioni di un lama, seguendo un preciso ordine di dissezione rituale.
I primi pezzi di carne, strappati dalle ossa, vengono gettati a qualche metro di distanza, per attirare gli avvoltoi. Se questi non si avvicinano, viene eseguita una danza propiziatoria, il cui canto intriso di versi e suoni gutturali serve da richiamo per gli animali. In breve tempo alcune dozzine di uccelli sono allineati in fremente attesa. Dopo aver proceduto a rimuovere gli organi interni e a tagliare il corpo in pezzi sempre più piccoli, i rogyapa, con dei grossi martelli o con delle pietre, frantumano le ossa per mischiarle alla polpa.
Ogni brandello di carne viene dato in offerta agli avvoltoi, e niente va conservato: una volta sazi, questi enormi uccelli lasciano i rimasugli ai falchi e ai corvi più piccoli, che hanno pazientemente aspettato a debita distanza. Talvolta le carni vengono mischiate alla farina, per sottolineare come questo “pasto” sia davvero un’offerta.
Questo rito funebre, che può apparire barbaro agli occhi di un occidentale, è in realtà intriso di un profondo sentimento: quello dell’impermanenza, una delle grandi verità buddiste. Siamo soltanto di passaggio, appariamo e subito svaniamo nel nulla, in un continuo cambiamento di forma; l’accettazione di questa realtà rende la salma niente più che un guscio, utile a nutrire altri esseri viventi. Così il jhator è innanzitutto un atto rituale di generosità, ma dona anche la sensazione che il morto non sia mai veramente uscito dal ciclo naturale della vita.
In poco meno di un’ora del corpo non rimane più nulla, e i parenti si allontanano dal sacro luogo per far ritorno, più a valle, alle loro gioie e alle loro difficoltà quotidiane. Forse, per ricordare chi se ne è andato, è sufficiente lanciare uno sguardo alle vette dell’Himalaya, che brillano, immense, nel sole.
Ecco la pagina di Wikipedia (in inglese) sul jhator.
Io lo trovo addirittura poetico nella sua crudezza…
Concordo. 🙂
Idem per me.
Anche la semplice putrefazione naturale non la guardo con disgusto. La trovo affascinante per certi aspetti.
All’inizio sono rimasta sorpresa dalla crudezza delle immagini però poi guardandole bene, ne ho visto la poesia.
Hai mai sentito l’odore di un cadavere umano dopo mesi? Io non lo trovo tanto poetico. Meglio farsi mangiare dagli avvoltoi forse…
Avevo letto di questa pratica su un libro “flash, Katmandù il grande viaggio”, pratica veramente interessante.
Quella di cui si parla in Flash, in realtà si riferisce ad un altro rito funebre, quello zoroastriano. Il protagonista si trova a Mumbai e parla di questo in relazione alle torri del silenzio.
Per inciso, delle Torri del Silenzio ho parlato qui. 🙂
Sapevo di ciò. Davvero affascinante.
7
Macabro ma incredibilmente interessante. Anche io preferire che il mio corpo nutrisse la terra piuttosto che farmi seppellire in una bara o essere ridotta in cenere insieme a qualche ettaro di foresta! Sul libro “il totem del lupo” avevo letto di una pratica simile, il corpo del defunto veniva posto su un carro che veniva mandato fino a che il corpo non cadeva…veniva lasciato e presto i lupi avrebbero accompagnato il morto nell’aldila(o qualcosa del genere) lasciando solo le ossa sulla terra…è una pratica che esiste veramente analogamente alla jhator?
Ciao Lerajies, la pratica funeraria mongola che descrivi è reale. Si tratta di un altro tipo di “funerale all’aria aperta”, in cui il corpo viene abbandonato nella steppa, ma i cui dettagli variano considerevolmente a seconda delle tradizioni locali. Normalmente il corpo viene preparato, accudito e infine deposto sul suolo; poi si traccia il suo contorno allineando delle pietre. Vengono lasciati liberi i cani del villaggio, tenuti senza cibo per qualche giorno, che divorano gran parte della salma – il resto viene lasciato agli elementi e agli altri predatori. La “silhouette” fatta di pietre rimane a ricordo del defunto. Come ricordavi tu, nell’antichità, talvolta la salma si caricava a dorso di cavallo fino all’arrivo al luogo sacro di “sepoltura”; qui il cavallo veniva mandato al galoppo, e il corpo decideva da sé, cadendo, qual era il punto in cui “voleva” rimanere.
Questa è la fine che vorrei per me: la sepoltura è dispendiosa, la cremazione inquinante. In questo modo invece da morta sarei utile per chi mi mangia. Immagino però che qui non sia esattamente legale abbandonare un cadavere all’aria aperta, anche se espressamente richiesto sul testamento…
In un modo o nell’altro un cadavere è sempre “utile”, se si attende abbastanza… nulla va sprecato al mondo! 🙂
Anche nel videogioco Metal Gear Solid quando sconfiggevi Vulcan Raven da morente si faceva divorare dai corvi.
“Guru Pema Siddhi Hum” (Mantra di Padmasambhava, per la Rapida Dissoluzione dell’Anima nell Infinito)
molto interessante…
Fantastico… totalmente differente dalla visione ” occidentale” della morte! wabi sabi
Tempo fa mi ricordo che a Voyager, un programma “alla Superquark” su Rai2, mandarono il servizio di un isola, della quale non ricordo né il nome né la posizione, sulla quale venivano portati i defunti e semplicemente abbandonati alla mercè della natura ai piedi di un albero gigantesco che i locali veneravano come fosse una divinità, tant’è che credevano che la sua maestosità fosse dovuta alla linfa dei morti che lo nutrivano, da qui il profondo pensiero filosofico che dalla morte può rinascere la vita.
Gli orientali hanno una percezione molto diversa della realtà rispetto a noi e comunque sia il fine è sempre quello di garantire la sopravvivenza di chi è ancora in vita, aldilà di tutte le credenze e le tradizioni ogni cosa a questo mondo non esiste a caso, alla fine si sono ritrovati costretti a praticare questa usanza perchè il legno gli serve per scaldarsi e per un sacco di altre cose, la pietra per costruirsi le abitazioni, gli animali per il cibo e i vestiti, insomma diciamo che anche in oriente vige la severa legge “MORS TUA, VITA MEA” ma alla fine è in tutto il mondo e anche nel mondo degli animali, quale altra giustificazione ci sarebbe al leone che uccide la gazzella per sopravvivere?
Sono temi che forse non andrebbero nemmeno mai messi in discussione perchè alla fine è nient’altro che l’ordine naturale delle cose e se questo ordine viene reciso tutto ciò che segue ne risente.
“Bee Movie” è un film d’animazione della Dreamworks del 2007 che mi colpì veramente tanto (nonostante io non sia un amante dei film d’animazione), parla delle possibili conseguenze scaturite dalla sparizione delle api, ci fa riflettere che forse a questo mondo ci sono equilibri che non possono assolutamente essere infranti, alcune cose possiamo cambiarle, come la vita, altre no, come la morte.