I Mini-Kiss sono una tribute band dei Kiss. Come tutte le tribute band, si vestono come i loro beniamini, suonano esclusivamente il loro repertorio e li imitano in tutto e per tutto. Ma i Mini-Kiss hanno qualcosa di unico: i membri della band sono tutti affetti da nanismo. Questo non impedisce loro di riproporre l’hard-rock spettacolare e colorato di Gene Simmons e compagni… in versione “ridotta”.
Anche dopo la morte nel 2011 di Joey Fatale, loro leader e fondatore, i Mini-Kiss continuano ad esibirsi con ottimo successo. Ecco il sito sito ufficiale.
(Scoperto via Ipnosarcoma, uno dei nostri tumblelog preferiti!)
Un paio d’anni fa avevamo parlato di tabù alimentari; ora ritorniamo sull’argomento, inaugurando la nostra prima rubrica culinaria, The Dangerous Kitchen!
In ogni nuovo articolo suggeriremo ai lettori di Bizzarro Bazar un piatto appartentente alla schiera dei cosiddetti gusti acquisiti. Da Wiki: “il gusto acquisito si ha nei confronti di un alimento o di una bevanda che, per essere veramente apprezzato/a, deve sottostare ad un’esposizione e consuetudine prolungata, parziale o completa, agli aromi e agli ingredienti che esso/a contiene, prima di essere considerato/a familiare dal consumatore. Gli alimenti e le bevande di gusto acquisito possono essere considerati ripugnanti da chi non vi è abituato, sia per la loro materia prima, sia per la forma, il tipo di preparazione, l’odore o l’aspetto”.
Eppure, poche righe più in sotto, una frase salta all’occhio: “tuttavia è possibile acquisire gusti alimentari tardivamente, per esposizione volontaria o abitudine” (corsivo nostro). Perché quindi non cercare di travalicare i confini del gusto assodato, e ampliare i vostri orizzonti? Perché non ricercare questa “esposizione volontaria”, e comprendere perché ciò che a noi fa ribrezzo è considerato sublime da un’altra cultura? Cosa può essere una piccola violenza auto-inflitta, di fronte allo spalancarsi di nuove delizie per il palato?
Preparatevi per un viaggio alla scoperta dei cibi più sorprendenti. Lasciate da parte il buon gusto, fate spazio per un gusto nuovo!
La prima leccornia che vogliamo presentarvi, per dare il giusto tono, è il famigerato piatto svedese chiamato Surströmming.
Il surströmming è composto essenzialmente da aringhe fermentate. I pesci vengono puliti e messi in grandi botti, a fermentare per un paio di mesi. Poi vengono inscatolati in una salamoia abbastanza leggera da permettere alla fermentazione di continuare.
I gas che provengono dalla fermentazione cominciano, dopo un anno dall’inscatolamento, a deformare la latta della confezione: così, per scegliere il vostro surströmming al supermercato, vi consigliamo di cercare i barattoli più “gonfi”, quelli che hanno perso cioè la loro originale forma cilindrica: delle vere e proprie bombe a gas, che è perfino proibito imbarcare sulle principali linee aeree.
Per questo motivo, però, quando aprite la scatola vi converrà prestare un minimo di attenzione. Consiglio numero uno: se gli svedesi non aprono MAI un barattolo di surströmming al chiuso, ci sarà un perché. Consiglio numero due: anche all’esterno, non restate sottovento. Questo cibo, a detta di chi l’ha provato, emana uno degli odori più potenti, appestanti e nauseabondi al mondo. Anche soltanto aprire una scatolina può provocare violenti attacchi di vomito ai neofiti non preparati.
Come servire il surströmming? Potete mangiarlo alla moda del Nord, dove questo cibo è stato inventato, preparando un semplice e spartano panino con due fette di tunnbröd (o, in alternativa, di pane simile), patate a fette o fatte in puré, e il diabolico filetto di aringa. Se invece volete qualcosa di più raffinato, potete servirlo come si fa nella Svezia più meridionale, su un letto di lattuga, accompagnandolo con cipolle, patate, panna acida, pomodori o altri condimenti. Assieme ad esso tradizionalmente si trangugiano dei bei bicchierini di acquavite (per dimenticare in fretta cosa si è mangiato, diranno i maligni): se non reggete i superalcolici, potete ripiegare su un buon bicchiere di birra, o del latte freddo.
Molti fra i giovani turisti che si recano in Svezia acquistano una scatola di surströmming esclusivamente come prova di coraggio, usano tecniche assortite per cercare di mangiarlo resistendo ai conati… e, non c’è nemmeno da dirlo, inevitabilmente pubblicano poi l’impresa su YouTube. Ma al di là dell’aspetto folkloristico, sembra che il vero problema di questo piatto non sia il gusto: è l’odore il vero scoglio, e se si riesce a superare l’iniziale ribrezzo olfattivo, si scopre un sapore piuttosto piacevole e perfino delicato. C’è addirittura chi riesce ad apprezzarlo al primo assaggio, e in Svezia si sono sviluppate vere e proprie feste attorno a questo piatto prelibato ma certamente “difficile”.
Facendo riferimento al nostro articolo sulla meditazione orientale asubha, un lettore di Bizzarro Bazar ci ha segnalato un luogo particolarmente interessante: il cosiddetto cimitero delle Monache a Napoli, nella cripta del Castello Aragonese ad Ischia. In questo ipogeo fin dal 1575 le suore dell’ordine delle Clarisse deponevano le consorelle defunte su alcuni appositi sedili ricavati nella pietra, e dotati di un vaso. I cadaveri venivano quindi fatti “scolare” su questi seggioloni, e gli umori della decomposizione raccolti nel vaso sottostante. Lo scopo di questi sedili-scolatoi (chiamati anche cantarelle in area campana) era proprio quello di liberare ed essiccare le ossa tramite il deflusso dei liquidi cadaverici e talvolta raggiungere una parziale mummificazione, prima che i resti venissero effettivamente sepolti o conservati in un ossario; ma durante il disgustoso e macabro processo le monache spesso si recavano in meditazione e in preghiera proprio in quella cripta, per esperire da vicino in modo inequivocabile la caducità della carne e la vanità dell’esistenza terrena. Nonostante si trattasse comunque di un’epoca in cui il contatto con la morte era molto più quotidiano ed ordinario di quanto non lo sia oggi, ciò non toglie che essere rinchiuse in un sotterraneo ad “ammirare” la decadenza e i liquami mefitici della putrefazione per ore non dev’essere stato facile per le coraggiose monache.
Questa pratica della scolatura, per quanto possa sembrare strana, era diffusa un tempo in tutto il Mezzogiorno, e si ricollega alla peculiare tradizione della doppia sepoltura.
L’elaborazione del lutto, si sa, è uno dei momenti più codificati e importanti del vivere sociale. Noi tutti sappiamo cosa significhi perdere una persona cara, a livello personale, ma spesso dimentichiamo che le esequie sono un fatto eminentemente sociale, prima che individuale: si tratta di quello che in antropologia viene definito “rito di passaggio”, così come le nascite, le iniziazioni (che fanno uscire il ragazzo dall’infanzia per essere accettato nella comunità degli adulti) e i matrimoni. La morte è intesa come una rottura nello status sociale – un passaggio da una categoria ad un’altra. È l’assegnazione dell’ultima denominazione, il nostro cartellino identificativo finale, il “fu”.
Tra il momento della morte e quello della sepoltura c’è un periodo in cui il defunto è ancora in uno stato di passaggio; il funerale deve sancire la sua uscita dal mondo dei vivi e la sua nuova appartenenza a quello dei morti, nel quale potrà essere ricordato, pregato, e così via. Ma finché il morto resta in bilico fra i due mondi, è visto come pericoloso.
Così, per tracciare in maniera definitiva questo limite, nel Sud Italia e più specificamente a Napoli era in uso fino a pochi decenni fa la cosiddetta doppia sepoltura: il cadavere veniva seppellito per un periodo di tempo (da sei mesi a ben più di un anno) e in seguito riesumato.
“Dopo la riesumazione, la bara viene aperta dagli addetti e si controlla che le ossa siano completamente disseccate. In questo caso lo scheletro viene deposto su un tavolo apposito e i parenti, se vogliono, danno una mano a liberarlo dai brandelli di abiti e da eventuali residui della putrefazione; viene lavato prima con acqua e sapone e poi “disinfettato” con stracci imbevuti di alcool che i parenti, “per essere sicuri che la pulizia venga fatta accuratamente”, hanno pensato a procurare assieme alla naftalina con cui si cosparge il cadavere e al lenzuolo che verrà periodicamente cambiato e che fa da involucro al corpo del morto nella sua nuova condizione. Quando lo scheletro è pulito lo si può più facilmente trattare come un oggetto sacro e può quindi essere avviato alla sua nuova casa – che in genere si trova in un luogo lontano da quello della prima sepoltura – con un rito di passaggio che in scala ridotta […] riproduce quello del corteo funebre che accompagnò il morto alla tomba” (Robert Hertz, Contributo alla rappresentazione collettiva della morte, 1907).
Le doppie esequie servivano a sancire definitivamente il passaggio all’aldilà, e a porre fine al periodo di lutto. Con la seconda sepoltura il morto smetteva di restare in una pericolosa posizione liminale, era morto veramente, il suo passaggio era completo.
Scrive Francesco Pezzini: “la riesumazione dei resti e la loro definitiva collocazione sono in stretta relazione metaforica con il cammino dell’anima: la realtà fisica del cadavere è specchio significante della natura immateriale dell’anima; per questo motivo la salma deve presentarsi completamente scheletrizzata, asciutta, ripulita dalle parte molli. Quando la metamorfosi cadaverica, con il potere contaminante della morte significato dalle carni in disfacimento, si sarà risolta nella completa liberazione delle ossa, simbolo di purezza e durata, allora l’anima potrà dirsi definitivamente approdata nell’aldilà: solo allora l’impurità del cadavere prenderà la forma del ‹‹caro estinto›› e un morto pericoloso e contaminante i vivi si sarà trasformato in un’anima pacificata da pregare in altarini domestici . Viceversa, di defunti che riesumati presentassero ancora ampie porzioni di tessuti molli o ossa giudicate non sufficientemente nette, di questi si dovrà rimandare il rito di aggregazione al regno dei morti e presumere che si tratti di ‹‹male morti››, anime che ancora vagano inquiete su questo mondo e per la cui liberazione si può sperare reiterando il lavoro rituale che ne accompagni il transito. La riesumazione-ricognizione delle ossa è la fase conclusiva del lungo periodo di transizione del defunto: i suoi esiti non sono scontati e l’atmosfera è carica di ‹‹significati angoscianti››; ora si decide – in relazione allo stato in cui si presentano i suoi resti – se il morto è divenuto un’anima vicina a Dio, nella cui intercessione sarà possibile sperare e che accanto ai santi troverà spazio nell’universo sacro popolare”.
Gli scolatoi (non soltanto in forma di sedili, ma anche orizzontali o molto spesso verticali) sono inoltre collegati ad un’altra antica tradizione del meridione, ossia quella delle terresante. Situate comunemente sotto alcune chiese e talvolta negli stessi ipogei dove si trovavano gli scolatoi, erano delle vasche o delle stanze senza pavimentazione in cui venivano seppelliti i cadaveri, ricoperti di pochi centimetri di terra lasciata smossa. Era d’uso, fino al ‘700, officiare anche particolari messe nei luoghi che ospitavano le terresante, e non di rado i fedeli passavano le mani sulla terra in segno di contatto con il defunto.
Anche in questo caso le ossa venivano recuperate dopo un certo periodo di tempo: se una qualche mummificazione aveva avuto luogo, e le parti molli erano tutte o in parte incorrotte, le spoglie erano ritenute in un certo senso sacre o miracolose. Le terresante, nonostante si trovassero nei sotterranei all’interno delle chiese, erano comunemente gestite dalle confraternite laiche.
La cosa curiosa è che la doppia sepoltura non è appannaggio esclusivo del Sud Italia, ma si ritrova diffusa (con qualche ovvia variazione) ai quattro angoli del pianeta: in gran parte del Sud Est asiatico, nell’antico Messico (come dimostrano recenti ritrovamenti) e soprattutto in Oceania, dove è praticata tutt’oggi. Le modalità sono pressoché le medesime delle doppie esequie campane – sono i parenti stretti che hanno il compito di ripulire le ossa del caro estinto, e la seconda sepoltura avviene in luogo differente da quello della prima, proprio per marcare il carattere definitivo di questa inumazione.
Zombie in a Penguin Suit è un cortometraggio di Chris Russell, che regala molto più di quanto già non prometta lo strepitoso titolo. Non soltanto un morto vivente in un costume da pinguino: a partire da quest’idea puramente weird, il regista decide di stupirci con un tono adulto, malinconico, disperato e commovente.
Il 19 novembre 1726 un breve ma insolito articolo apparve sul Weekly Journal, giornale inglese:
“Da Guildford ci arriva una strana ma ben testimoniata notizia. Che una povera donna che vive a Godalmin, vicino alla città, è stata il mese scorso aiutata da Mr. John Howard, Eminente Chirurgo e Ostetrico, a partorire una creatura che assomigliava ad un coniglio, ma con cuore e polmoni cresciuti fuori dal torace, 14 giorni dopo che lo stesso medico le aveva fatto partorire un coniglio perfettamente formato; e pochi giorni dopo, altri 4; e venerdì, sabato e domenica, un altro coniglio al giorno; e tutti e nove morti vedendo la luce. La donna ha giurato che due mesi fa, lavorando in un campo con altre donne, incontrarono un coniglio e lo rincorsero senza un motivo: questo creò in lei un desiderio così forte che (essendo incinta) abortì il suo bambino, e da quel momento non è capace di evitare di pensare ai conigli”.
Letta così sembra una di quelle leggende scaturite dall’idea, diffusa all’epoca, che qualsiasi cosa impressionasse la mente di una donna incinta (un sogno, o un animale veduto durante la gravidanza) poteva marchiare in qualche modo anche il feto, dando origine a difetti di nascita. Eppure questa storia si sarebbe presto tramutata in uno dei più grossi scandali medici degli albori.
La donna dell’articolo era Mary Toft, contadina di 24 o 25 anni, sposata e con tre figli. Come tutte le compaesane, Mary non aveva smesso il lavoro nei campi con la gravidanza; e quando, nell’agosto precedente, aveva avvertito dei dolori al ventre, si era accorta con orrore di aver espulso dei pezzi di carne. Poteva forse essere un aborto, ma stranamente la gravidanza continuò e quando il 27 settembre Mary partorì, uscirono soltanto delle parti che sembravano animali. Questi resti vennero inviati a John Howard, il medico citato nell’articolo, che inizialmente si dimostrò scettico. Si recò ciononostante a visitare Mary Toft ed esaminandola non trovò nulla di strano; eppure nei giorni successivi le doglie ricominciarono, e nuove parti di animali continuarono a essere espulse dall’utero della donna: gambe di gatto, gambe di coniglio, budella e altri pezzi di animali irriconoscibili.
A quel punto la storia stava cominciando a fare scalpore, anche perché la stampa esisteva da poco, ed era la prima volta che un caso simile veniva seguito contemporaneamente, “in diretta”, in tutta l’Inghilterra. Un altro chirurgo, Nathaniel St. André, si interessò al caso, e su ordine della Famiglia Reale si recò a Guildford, dove Howard aveva condotto Mary Toft offrendo a chiunque dubitasse della storia di assistere a uno degli straordinari parti. Nel frattempo la donna aveva infatti dato alla luce altri tre conigli, non completamente formati, che apparentemente scalciavano nell’utero prima di morire e venire espulsi.
St. André, arrivato a Guildford, potè quindi investigare il caso direttamente e restò impressionato: il 15 novembre, nel giro di poche ore, Mary Toft partorì il torso di un coniglio. St. André esaminò il torso, immerse i polmoni in acqua per vedere se l’animale avesse respirato aria (e infatti i polmoni galleggiavano) ed esaminò accuratamente la donna. La sua diagnosi fu che i conigli si sviluppavano sicuramente all’interno delle tube di Falloppio. Nei giorni seguenti dall’utero della donna uscirono un altro torso, la pelle di un coniglio e, pochi minuti dopo, la testa.
Il re Giorgio I, affascinato dalla storia, decise di inviare un altro medico a Guildford: si trattava di Cyriacus Ahlers – e questa fu la svolta. Ahlers, infatti, era segretamente scettico sull’intera vicenda, e tenne gli occhi ben aperti. Non trovò segni di effettiva gravidanza sulla donna, ma anzi notò una cosa piuttosto sospetta: prima dei famosi parti, la donna sembrava stringere le ginocchia come per impedire che qualcosa cadesse. Ahlers cominciò a dubitare anche di Howard, l’ostetrico, che si rifiutava di lasciare che fosse Ahlers ad assistere la donna durante le contrazioni. Non lasciò trapelare i suoi dubbi, ma disse a tutti i presenti di credere alla storia, e con una scusa lasciò Guildford, portando con sé alcuni pezzi di coniglio. Esaminandoli con più cura, scoprì che sembravano essere stati macellati con uno strumento da taglio, e notò tracce di grano e paglia nei loro intestini, come se provenissero da un allevamento. Riportò tutto questo al Re e in poco tempo lo scandalo esplose.
Mary fu portata a Londra e alloggiata in carcere, per ulteriori esami, e nella comunità scientifica si formarono immediatamente due fazioni: da una parte gli scettici, Ahlers in prima linea; dall’altra Howard e St. André, che erano convinti sostenitori della genuinità dei prodigiosi eventi. La stampa diede eccezionale risonanza al dibattito e le cose precipitarono quando un inserviente della prigione ammise di essere stato corrotto dalla cognata di Mary Toft affinché introducesse un coniglio nella cella della donna.
Il 7 dicembre, dopo essere stata esaminata da decine di medici e sottoposta ad estenuanti interrogatori e alle minacce di una dolorosa operazione chirurgica, Mary Toft cedette e confessò: era stata tutta una truffa. Dopo il suo aborto spontaneo, quando la cervice era ancora dilatata, aveva con l’aiuto di un complice inserito nell’utero le zampe e il corpo di un gatto, e la testa di un coniglio. In seguito, le parti di animali erano state posizionate più esternamente, nella vagina. Mary Toft venne immediatamente incarcerata con l’accusa di “vile truffa e impostura”. Anche i diversi medici implicati, Howard e St. André su tutti, vennero citati in tribunale e a loro discolpa si dichiararono all’oscuro della frode.
Ma lo smascheramento dell’inganno fu una bomba soprattutto per l’immagine della medicina nell’opinione pubblica: articoli satirici apparvero in ogni giornale, prendendosi beffa della credulità dei chirurghi implicati nel caso, e dei medici tout court. Le ballate popolari si incentrarono immediatamente sui dettagli più volgari della vicenda e le barzellette si affollarono di conigli maliziosi e grandi luminari della scienza fatti fessi da una contadina. La risonanza fu internazionale e persino Voltaire, dalla Francia, indicò il caso di Mary Toft come un esempio di quanto gli Inglesi protestanti fossero influenzati da una Chiesa ignorante e da antiche superstizioni.
La professione sanitaria venne talmente danneggiata in poco tempo che decine e decine di medici cercarono disperatamente di dichiararsi estranei ai fatti o di provare che erano stati fin dall’inizio scettici sul caso. Molte carriere vennero stroncate dall’abbaglio preso, e altre ci misero lustri a riprendersi dal tonfo.
La folla stazionava davanti alla prigione in cui Mary Toft era rinchiusa, nella speranza di vederla anche solo di sfuggita. Nel 1727 Mary fu liberata e tornò a casa. Da allora di lei si seppe poco, se non che ebbe una figlia e qualche altro piccolo guaio con la legge, fino alla sua morte nel 1763. Ma nonostante questo suo forzato “ritiro” dalle scene, il suo nome visse ancora a lungo nelle canzoni, e venne immancabilmente rispolverato ogni volta che i grandi geni della scienza facevano un clamoroso, ridicolo passo falso.
Leonid Ivanovich Rogozov aveva 27 anni quando si imbarcò sulla nave Ob. Era il 1960 e quella spedizione faceva parte del programma sovietico di ricerca in Antartide. Rogozov era l’unico medico a bordo e assieme ai suoi compagni sbarcò a dicembre sulla costa Astrid Princess con il compito di costruire una nuova base. Per febbraio il campo fu completato – appena in tempo, perché stava arrivando il terribile inverno antartico, con tempeste di neve, gelo estremo e buio pressoché perenne. La nave Ob, che li aveva portati lì, non sarebbe tornata fino al dicembre successivo. Il gruppo era confinato in un ambiente selvaggio e inospitale, completamente isolato dal resto del mondo.
Dopo un paio di mesi, però, Rogozov cominciò ad accusare alcuni sintomi, che diligentemente annotò sul suo diario. Qualche linea di febbre, malessere, debolezza, nausea. Ma poi il dolore si localizzò sull’addome e il giovane medico scrisse il 29 aprile: “Sembra che io abbia l’appendicite. Continuo a mostrarmi tranquillo, perfino a sorridere. Perché spaventare i miei amici? Chi potrebbe essermi di aiuto?”
Non c’era via di scampo, nessuna possibilità di intervento esterno: fuori dal campo base c’era soltanto il deserto di ghiaccio, il buio, il freddo più estremo di tutto il globo terrestre. Nessuno sarebbe arrivato.
Nonostante gli antibiotici e le applicazioni fredde locali, il dolore continuava ad acutizzarsi, la febbre a salire e le crisi di nausea e vomito erano ormai continue. Rogozov comprese che l’appendicite sarebbe presto degenerata e per evitare la perforazione prese il coraggio a due mani e si decise a fare l’unica cosa che gli rimaneva: operarsi da solo.
Alle 20.30 del 30 aprile Rogozov scrisse sul suo diario: «Sto peggiorando. L’ho detto ai compagni. Adesso loro stanno iniziando a togliere tutto quello che non serve dalla mia stanza». Durante l’operazione chirurgica ad assisterlo ci saranno tre uomini, Alexandr Artemev, Zinovy Teplinsky e Vladislav Gerbovich. Peccato che nessuno dei tre abbia la benché minima preparazione medica. Artemev, un meteorologo, gli passerà i ferri; Teplinsky, meccanico, si occuperà di orientare la lampada e lo specchio; Gerbovich, direttore della stazione, sarà pronto a sostituire chi dei due dovesse sentirsi male.
Alle due di notte l’intervento ha inizio. In posizione semiseduta, dopo diverse iniezioni di procaina in più punti, Rogozov esegue la prima incisione sul suo stesso addome. Si rende però ben presto conto che lo specchio non servirà a molto e che per orientarsi dovrà seguire quasi esclusivamente il tatto. Decide quindi di procedere all’operazione senza guanti, per sentire meglio cosa sta tagliando. La posizione è scomoda e la visibilità nulla e dopo 45 minuti il medico comincia ad avvertire un senso di crescente vertigine, di debolezza, e a sudare in maniera incontrollata. Sta perdendo molto sangue e gli assistenti (costantemente sul punto di svenire) fanno quello che possono per cercare di tamponare la ferita e asciugargli il sudore dalla fronte.
Ad un certo punto Rogozov si rende conto che ha fatto un errore: si è tagliato per sbaglio l’intestino cieco. Così, sempre più stanco, si decide a suturare l’apertura… ogni 4 o 5 minuti deve fermarsi per riprendere le forze e il controllo, dato che gli sembra di poter perdere i sensi da un momento all’altro. Ma non si dà per vinto e continua a scavare, finché non riconosce l’appendice. Ma proprio in quel momento, quando è a pochi minuti dal traguardo, il cuore di Rogozov rallenta.
Il medico capisce che sta per finire male. Non riesce quasi più a muoversi, ma con un ultimo disperato sforzo tenta di completare l’operazione… e ci riesce. Rimuove l’appendice e faticosamente sutura la ferita. “Con orrore – scriverà – mi rendo conto che l’appendice ha una macchia scura alla base. Questo vuol dire che anche un solo altro giorno e si sarebbe rotta e…”
…e sarebbe morto. Dopo due ore di operazione su se stesso, completamente sfinito, il giovane si addormenta alle 4 di mattina. Il giorno dopo avrà 38 di febbre, ma sarà vivo. Dopo due settimane di antibiotici, tolti i punti, Rogozov torna al lavoro nella stazione antartica. “Non mi sono concesso di pensare a nient’altro che al compito che avevo davanti. Era necessario armarsi di coraggio e stringere i denti”.
Rogozov venne recuperato il maggio 1962 dalla nave, per essere riportato a Leningrado dove lavorava come chirurgo. Morì il 21 settembre 2000, quindi quasi quarant’anni dopo lo straordinario intervento di appendicectomia. Il figlio, Vladislav Rogozov, oggi è anestesista nel Department of Anaesthetics dello Sheffield Teaching Hospital, in Gran Bretagna. E ancora adesso ama raccontare l’incredibile storia di suo padre, l’unico uomo a compiere un’operazione chirurgica completa su se stesso.
In esclusiva per Bizzarro Bazar vi proponiamo l’intervista da noi realizzata all’artista James G. Mundie, disegnatore, fotografo e incisore. I suoi lavori più noti sono due serie di opere: la prima, intitolata Prodigies, è un’iconoclasta rivisitazione di alcuni classici della pittura di ogni epoca, all’interno dei quali i soggetti originali sono stati rimpiazzati dai freaks più famosi. Quello che ne risulta è una sorta di ironica storia dell’arte “parallela” o “possibile”, in cui la deformità prende il posto del bello, e in cui per una volta gli emarginati divengono protagonisti.
Il suo altro lavoro molto noto è Cabinet of curiosities, una serie di fotografie, schizzi e incisioni riguardanti le maggiori collezioni anatomiche e teratologiche conservate nei musei di tutto il mondo.
Le fotografie fanno parte dei tuoi progetti tanto quanto i disegni. Ti ritieni più un fotografo o un illustratore?
Mi piace pensarmi come un creatore di immagini che utilizza qualsiasi strumento o mezzo sia appropriato. Questo significa talvolta disegnare, altre volte incidere su legno o fotografare. Comunque, ho cominciato ad considerare la fotografia come mezzo a sé solo da poco tempo. Ho sempre usato le fotografie come riferimenti, o come fossero dei bozzetti per altri progetti. Con il tempo, invece, ho cominciato ad apprezzare le foto che facevo nei loro propri termini estetici. Specialmente da quando sono diventato padre, la relativa immediatezza dell fotografia è stata un cambiamento benvenuto rispetto ai metodi più laboriosi che uso nei disegni e nelle incisioni, che possono prendere settimane o mesi (addirittura anni!) per emergere.
Riguardo alla serie Prodigies, come è nata l’idea di unire il mondo dei freakshow con quello dell’arte classica, e perché?
Ho sempre disegnato ritratti, e intorno al 1996-97 stavo cercando nuove ispirazioni. Ho cominciato a pensare alle fotografie di strane persone, come Jojo il Ragazzo dalla Faccia di Cane, che avevo visto decadi prima, e pensai che sarebbe stato divertente lavorarci. Cominciai a fare ricerche sui sideshow, e presto scoprii qualcosa di molto più bizzarro di quello che ricordavo dalla mia infanzia. Iniziai a trovare anche dettagli sulle vite di questi performer che li fecero risultare molto più veri ai miei occhi – cioè, più di qualcosa di semplicemente anomalo e strampalato. Prodigies è cominciato come una sfida, per vedere se sarei riuscito a mescolare questi inquietanti e affascinanti performer di sideshow ai miei quadri preferiti.
Mi resi conto che la presentazione circense dei freaks era spesso basata sull’esagerazione – ai nani venivano assegnati titoli militari come Generale o Ammiraglio, le persone molto alte venivano reinventate come giganti, ecc.; e nella storia dell’arte succedeva lo stesso, quello che vediamo nei quadri era, all’epoca, una commissione commerciale all’artista da parte di una persona benestante che voleva lasciare un ricordo di sé e del suo successo. In questo senso, un ritratto di Raffaello di un qualsiasi cardinale o poeta non è molto differente dalle cartoline di presentazione dei freaks vendute dal palcoscenico. Entrambe le cose cercano di proiettare e/o vendere un’identità. “Perché non portare il tutto a uno stadio successivo, e permettere ai freaks di abitare o rimodellare le storie raccontate nei dipinti classici?”, pensai. Ovviamente non volevo procedere a casaccio. Dovevo avere un buon motivo per collegare un performer con un certo quadro, che fosse una storia in comune, o un atteggiamento, o un elemento compositivo che mi ricordava la figura di un freak. Questo significa che sto ancora cercando l’accoppiata ideale per alcuni fra i miei performer preferiti, come ad esempio Grady Stiles l’Uomo Aragosta. Dall’altra parte, ci sono dipinti così iconici che risulta difficile utilizzarli senza apparire risaputi o pigri.
La serie Prodigies è percorsa da una vena di humor iconoclasta. Potrebbe essere letta come una “legittimazione” dei diversi, a cui viene data la possibilità di essere protagonisti della storia dell’arte; ma anche come una specie di sberleffo nei confronti del concetto storico e assodato di “bellezza”. Quale interpretazione ti sembra più corretta?
Sono entrambe corrette. Anche se è di moda oggi denigrare i freakshow come una reliquia culturale barbarica da dimenticare, credo che servissero una funzione necessaria nella società – e che non è ancora sparita. E vedo queste persone che lavoravano nei freakshow – anche se spesso sfruttate – come degli eroi, per aver affrontato le circostanze peggiori e averne tratto il maggiore successo possibile. Queste erano persone che non sarebbero mai state accettate nella società beneducata, eppure trovarono una comunità che si strinse attorno a loro e li celebrò. Invece di essere chiusi negli istituti, vissero bene la loro vita con la loro famiglia, recitando sul palcoscenico un ruolo creato ad arte. C’è un certo carattere di nobiltà, in questo. Sì, la gente guardava e di tanto in tanto li scherniva, ma almeno ora pagavano per il privilegio. Quindi, chi è che era veramente sfruttato? Anche ora vogliamo guardare, ma la maggior parte di noi non è abbastanza sincero da ammetterlo.
Molte delle presentazioni utilizzate nei freakshow erano intenzionalmente umoristiche, quasi ridicole. Credo che quello humor servisse perché il pubblico si sentisse meno a disagio, e anche per dare al performer una protezione emotiva. Una parte del fascino dei freakshow è di confrontarsi con le proprie paure. Vedi qualcuno sul palco a cui mancano degli arti oppure deforme, e naturalmente pensi “E se quello fossi io?”. Quindi ho spesso inserito dei piccoli tocchi scherzosi, per aiutarmi a metabolizzare queste domande, e per tirare un salvagente allo spettatore. Allo stesso tempo sto prendendo in giro alcuni dei pilastri della storia dell’arte. C’è un sacco di materiale esilarante con cui lavorare, se lo guardi con mente aperta. Per esempio alcune convenzioni formali che troviamo in antiche istoriazioni sugli altari: è piuttosto divertente, oggi, vedere come i santi sono raffigurati cinque volte più grandi dei meri mortali. È liberatorio camminare in un museo e permetterti di ridere, anche se per molte persone è puro sacrilegio.
Gran parte di ciò che oggi reputiamo “bello” è semplicemente regolare, uniforme. Le nostre idee moderne di bellezza ci vengono propinate dai giornali di moda, televisione e affini. Eppure, in queste strane persone che io disegno – con le loro proporzioni imperfette – andiamo oltre il bello per avvicinarci al sublime. Uno dei principi guida per me in questo progetto è quello che Sir Francis Bacon scrisse nel 1597: “non c’è beltà eccellente che non abbia in sé una qualche misura di stranezza”.
In uno dei tuoi disegni, ti autoritrai nei panni di un anatomista dilettante, e molti dei tuoi lavori raffigurano anomalie patologiche. Qual è il tuo rapporto con i tuoi soggetti? Ritieni di avere un occhio freddo e clinico oppure c’è un’empatia con la sofferenza che spesso implica l’anatomia patologica? E, ancora, cosa vorresti che provasse chi guarda i tuoi disegni?
Anche se un certo distacco è necessario per rimanere oggettivi, non posso impedirmi di immedesimarmi nei miei soggetti. Queste erano persone reali che affrontavano circostanze che non posso nemmeno immaginare. Quando attraverso una collezione anatomica, mi ritrovo a chiedermi chi fosse la persona da cui questa o quella parte è stata tolta e preservata. Oggi, i casi sono presentati in maniera anonima, ma negli scorsi secoli era comune accludere informazioni biografiche sul paziente. Credo che in questa fissazione di proteggere la privacy degli individui stiamo inavvertitamente negando la loro umanità, perché ora ciò che vediamo è una malattia invece che una persona. Anche se non è mia intenzione forzare nello spettatore alcuna emozione o idea (e spesso la gente trova nei miei lavori dei significati che non ho mai inteso esprimere), spero che almeno porti con sé il senso che i miei soggetti sono o erano persone vere, degne di considerazione.
Il tuo nuovo progetto, Cabinet of curiosities, è basato sulle tue visite ai musei anatomici americani ed europei. Cosa ti attrae nei reperti anatomici e teratologici?
Sono sempre stato interessato a come le cose funzionano, in particolare all’anatomia. Quello che mi interessa delle collezioni patologiche o teratologiche è che questi strani esemplari ci mostrano cosa sta succedendo a livello cellulare, genetico. Esaminando il sistema danneggiato, impariamo come funziona quello in salute. Sono anche affascinato dagli antichi sistemi usati per catalogare e organizzare il mondo naturale, e la teratologia – lo studio dei mostri – è un esempio particolarmente interessante. Anche l’idea del museo, nato come collezione personale per diventare istituzione pubblica è affascinante, e condivide molti aspetti con i freakshow. Alcuni di questi preparati sono strani e bellissimi, e presentati in maniera molto elaborata. Quindi Cabinet of Curiosities è un tentativo di documentare il punto in cui questi due mondi si intersecano.
Quale pensi sia il rapporto fra medicina ed arte, e più in generale fra scienza ed arte?
La medicina è stata considerata un’arte per molto più tempo di quanto non sia stata vista come scienza. La società non si libera da una simile associazione da un giorno all’altro, così ancora oggi continuiamo a parlare dell’abilità di un chirurgo come fosse quella di uno scultore. Ma anche da un punto di vista strettamente pratico, i dottori hanno bisogno degli artisti perché le rappresentazioni artistiche sono da sempre una componente essenziale nell’educazione medica e nella sua comunicazione. Sin dal Rinascimento gli illustratori hanno insegnato l’anatomia a generazioni di medici, e in quel modo la pratica artistica dell’osservazione ha aiutato la medicina ad uscire dalla via puramente teorica. Penso che possiamo affermare che questo ruolo comunicativo valga anche per le scienze in generale, perché l’arte può aiutare a spiegare complesse teorie anche a persone che non masticano la materia. Un artista può fungere da legame tra lo scienziato e il pubblico, rendendo comprensibili le scoperte scientifiche – ma può anche servire come critico. In questo modo, l’arte può divenire una sorta di specchio morale per la scienza.
Nelle tue parole, “questi preparati anatomici rappresentano il punto di intersezione fra scienza, cultura, emozione e mito”. Credi che ci sia bisogno di miti moderni? Pensi che questi nuovi miti possano provenire dal mondo della scienza, invece che da quello magico-religioso come nel passato? Il tuo lavoro fotografico e di illustrazione può essere letto come un tentativo di dare una dimensione mitica ai tuoi soggetti? Sei religioso?
Penso che noi creiamo in continuazione nuovi miti, o che ne risvegliamo e reinventiamo di vecchi. Fa parte della natura umana.
La scienza per molte persone ha sostituito la religione come fondamentale via d’ispirazione, ma in realtà sappiamo ancora così poco dell’universo, che c’è ancora molto terreno fertile per la fantascienza. Con la nascita di Scientology abbiamo visto addirittura la fantascienza trasformarsi in religione! Io non sono assolutamente una persona religiosa, ma penso che spesso cerchiamo di riporre le nostre speranze in un potere che sta al di fuori di noi. Per alcuni, questo significa una divinità che è personalmente interessata a come ci vestiamo, o a cosa mangiamo il venerdì; per altri vuol dire l’idea che il genere umano troverà finalmente la cura per il cancro e imparerà i segreti per viaggiare nel tempo. Così nel mio lavoro mi ritrovo a raccontare storie, o quantomeno a predisporre il seme di una storia che ognuno può trasformare nel racconto che desidera.
Anche tua moglie Kate è un’artista, ma i suoi quadri sembrano essere completamente distanti dal tuo mondo – solari, impressionisti, colorati. Se non sono indiscreto, come vi rapportate l’uno con l’arte dell’altra?
Siamo i migliori critici l’uno dell’altra. Siccome i nostri lavori sono così differenti, non c’è competizione fra noi, e ci diamo costantemente dei pareri e delle idee.
Chi è appassionato di stranezze, corre il rischio di essere reputato egli stesso strano. Cosa pensano delle tue passioni gli amici e i parenti?
Alcune persone amano stare a guardare i treni, o ascoltare gli Abba. Io amo i freaks. Tutte le persone più interessanti sono strambe.