Scherzi della memoria

Il modo in cui il nostro cervello registra e rielabora i ricordi è ancora in gran parte sconosciuto alla scienza. Vi sono però alcuni casi estremi che potrebbero aiutare gli studiosi a comprendere i confini della nostra memoria: come ricordiamo, e come dimentichiamo.

La sindrome di Susac è stata scoperta negli anni ’70 dall’omonimo medico; si tratta di un disordine cerebrale che colpisce le donne fra i 18 e i 40 anni, e presenta molti segni clinici distintivi – ma fra tutti il più peculiare è la perdita della memoria a lungo termine. Chi è affetto da questa sindrome ricorda quasi esclusivamente ciò che gli è accaduto nelle 24 ore precedenti. Immaginate cosa significhi avere dimenticato dove eravate e cosa avete fatto la settimana scorsa, tre mesi fa, tre anni fa; risvegliarvi ogni mattina non sapendo se siete laureati, o fidanzati, o addirittura sposati… se è Natale, se vostra nonna è viva o morta, e via dicendo. Come dare un senso alla vostra persona, alla vostra identità?

È quello che accade a circa 250 persone in tutto il mondo. La sindrome arriva all’improvvio e in genere si manifesta con attacchi ricorrenti che durano più o meno da quindici mesi a 5 anni. Come si presenta se ne va, senza preavviso. Non sono segnalati casi mortali, ma su un terzo dei pazienti restano postumi sensoriali e neurologici di gravità variabile.

Jess Lydon, 19 anni, inglese, soffre della sindrome da qualche tempo. Rinchiusa in un infinito presente, non può ricordarsi nemmeno se ha già mangiato. Non osa avventurarsi fuori di casa, per paura di dimenticare la strada del ritorno; ma continua a pettinarsi e curarsi, perché «quando questo disastro sarà passato voglio che la vita mi trovi in ordine». La sindrome provoca anche stati confusionali e Jess è di tanto in tanto preda di terrori e convinzioni paranoiche e irreali – crede che dei chirurghi l’abbiano operata, lasciando una scarpa nel suo stomaco, o che la sua casa sia in realtà un ospedale psichiatrico. I neurologi non conoscono ancora le cause della sindrome, né sanno esattamente come curarla: si procede a tentoni, cercando di arginare le crisi, ma nessun farmaco si è rivelato efficace fino ad ora. Si sa soltanto che Jess guarirà prima o poi, anche se la perdita di udito e di vista potrebbe rimanere permanente.

Ancora più strana è l’opposta malattia di cui soffre l’americana Jill Price: come il Funes del celebre racconto di Borges, Jill non riesce a dimenticare. Ricorda esattamente quasi tutti i giorni della sua vita, da quando aveva 11 anni. È in grado di dire in che giorno e a che ora un determinato episodio di Dallas è andato in onda 20 anni fa, e anche cosa stava facendo lei in quel momento, se pioveva, se era un lunedì o un martedì, com’era vestito suo fratello, e via dicendo.

Quello che potrebbe sembrare un dono invidiabile, com’è facilmente intuibile, risulta essere nella realtà una vera e propria disgrazia. È la nostra capacità di dimenticare che ci permette di superare i problemi e metabolizzare il passato. Jill non può fare né l’una né l’altra cosa: ricorda esattamente tutte le volte in cui la madre l’ha rimproverata quando aveva 15 anni, sente ancora le precise parole così come sono state pronunciate, e ovviamente non può fare a meno di ripassare nella sua testa tutti i momenti drammatici della sua vita, primo fra tutti la morte dell’unico amore della sua vita, vittima di un infarto due anni fa. Il tormento di non riuscire a disfarsi del passato e voltare pagina è ciò che l’ha spinta a sottoporsi a innumerevoli esami e a divenire un caso clinico celebre, nella speranza di poter trovare una cura e finalmente archiviare le sue memorie senza doverle rivivere costantemente.

La sua sindrome si chiama ipertimesia, e la particolarità di questa affezione è che concerne principalmente la memoria autobiografica; questo significa che, paradossalmente, Jill ha difficoltà a memorizzare qualcosa volontariamente – l’enorme flusso di ricordi relativi alla sua vita e alle sue esperienze le impedisce di dare buoni risultati nei test di memoria. La sindrome ha alcuni punti di contatto con l’autismo e la sindrome dei savant, per quanto riguarda la calendarizzazione ossessiva che permette di ricordarsi data e ora di ogni evento; ma le scansioni cerebrali di Jill hanno mostrato anche una maggiore estensione dell’area normalmente associata con il comportamento maniaco-compulsivo, come se la sindrome potesse essere una sorta di ossessione non rivolta ad oggetti concreti, ma ai ricordi stessi, “collezionati” in maniera incontrollabile.

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Tutti impariamo dal passato, e facciamo le nostre previsioni sulla base delle esperienze precedenti; la capacità di ricordare, e di dimenticare, forgia gran parte delle nostre azioni, e in definitiva sta alla base di chi siamo o pensiamo di essere. Eppure la nostra memoria è forse un equilibrio più delicato e misterioso di quello che sembrerebbe, una selezione e rielaborazione continua con cui la nostra mente “decide” a quali avvenimenti far spazio e quali accantonare, cosa è degno di essere ricordato e cosa possiamo, o dobbiamo, lasciare andare.

E anche cosa tutti noi possiamo immaginare di aver vissuto, “ricordando” eventi mai accaduti… ma questa è un’altra storia, ancora più affascinante, di cui parleremo certamente in futuro.

I pietrificatori

Fra tutte le varie forme di conservazione di resti anatomici, quella che ancora oggi suscita stupore e incredulità è la cosiddetta “pietrificazione”. Alcuni grandi scienziati hanno portato questa tecnica ad impensabili livelli, e si tratta principalmente di una tradizione tutta italiana.

Il primo e il più importante nome di questa famiglia di pietrificatori è senza dubbio Girolamo Segato (1792-1836). Nativo del bellunese, fin da ragazzo iniziò a costruire una sua personale collezione di oggetti naturalistici: semplici vestigia di animali raccolte durante le sue camminate sulle Dolomiti, che però risvegliarono nel giovane Segato la passione per la natura e le sue forme. Imbarcatosi più tardi per l’Egitto, si trovò ad esaminare e studiare numerose mummie, arrivando ad elaborare alcune personali teorie sul processo di mummificazione a cui erano state sottoposte. Così, una volta tornato in Italia, cominciò a sperimentare diverse tecniche per fissare nel tempo le forme corporee.

Mediante la sua “mineralizzazione” Segato riusciva a conservare in modo pressoché perfetto i suoi preparati, preservando in alcuni casi anche il colore naturale e l’elasticità dei tessuti. Gran parte delle sue pietrificazioni sono giunte intatte fino ai giorni nostri, e sono conservate all’interno dell’Università di Firenze (ne avevamo già parlato all’interno della nostra serie di articoli sui musei anatomici italiani).

Purtroppo Girolamo Segato portò nella tomba il segreto del suo metodo straordinario. Al di fuori della comunità scientifica, infatti, pochi si resero conto dell’importanza del suo lavoro: accusato di stregoneria, si vide negata ogni richiesta di finanziamento per la sua ricerca. Segato costruì un incredibile tavolo “di carne”, che conteneva alcune decine di preparati pietrificati e incastonati nel legno, e lo offrì al Granduca di Toscana per impressionarlo. Quando anche quest’ultimo rifiutò di sostenerlo economicamente, l’anatomista bruciò tutti i suoi appunti e le sue carte.

Fu sepolto nella Basilica di Santa Croce a Firenze. Sulla sua lapide sono incise queste tristi parole: “Qui giace disfatto Girolamo Segato, che vedrebbesi intero pietrificato, se l’arte sua non periva con lui. Fu gloria insolita dell’umana sapienza, esempio d’infelicità non insolito”.

Di poco più giovane di Segato, Giovan Battista Rini (1795-1856), originario di Salò, utilizzò una miscela di mercurio ed altri minerali (potassio, ferro, bario e arsenico) per preservare il sistema sanguigno e i tessuti dei cadaveri: queste mummie sono oggi oggetto di studi da parte di un team italo-tedesco capitanato dall’antropologo forense Dario Piombino-Mascali, ricercatore dell’Accademia Europea di Bolzano (EURAC).

Sottoponendo le mummie a TAC e altre analisi, gli scienziati stanno cominciando a penetrare i segreti di quest’arte un tempo importantissima: i preparati anatomici avevano una funzione didattica e di studio essenziale in un’epoca in cui non esistevano celle frigorifere e in cui i cadaveri si decomponevano velocemente.

Del pietrificatore, anatomista e scienziato Paolo Gorini (1813-1881), invece, conosciamo per fortuna alcuni dei procedimenti, scoperti nell’archivio delle sue carte: per i suoi preparati utilizzava tecniche diverse, ma la formula di base consisteva in un’iniezione di bicloruro di mercurio e muriato di calce direttamente nell’arteria e vena femorale; dato il numero delle successive iniezioni e delle “disinfezioni”, il processo era lungo, costoso ed estremamente tossico per chi lo praticava.

Efisio Marini (1835-1900) riusciva a pietrificare addirittura il sangue: è curioso l’aneddoto che racconta come, venuto in possesso del sangue di Giuseppe Garibaldi raccolto sull’Aspromonte, lo solidificò e lo plasmò facendone un medaglione che poi regalò a Garibaldi stesso, il quale lo ringraziò con lettera ufficiale. Pur essendo divenuto celebre grazie alle sue pietrificazioni (ci resta in particolare una mano di giovane fanciulla perfettamente conservata all’Università di Sassari), Marini era ossessionato dal mantenere segrete le sue formule, e finì la sua vita in povertà, circondato dalla sua collezione anatomica, evitato da tutti per via della sua sinistra paranoia.

Un caso singolare fra i pietrificatori fu quello di Oreste Maggio (1875-1937): palermitano, medico, oftalmologo, ostetrico, tisiologo, psichiatra e pediatra, ma anche farmacista, chimico, medico condotto e imbalsamatore “di famiglia” (era nipote di quel Salafia di cui abbiamo già parlato in questo articolo), anche Maggio mise a punto una sua tecnica di iniezione di sali minerali per conservare i reperti anatomici. Eppure, ad un certo punto, decise di interrompere bruscamente le sperimentazioni e distruggere la sua formula per dedicarsi esclusivamente ai vivi. All’origine di questa drastica inversione di rotta ci sarebbe stata una vera e propria crisi mistica: cattolico praticante, Maggio era rimasto impressionato dal celebre verso della Genesi “polvere tu sei e in polvere ritornerai”, ed era arrivato alla conclusione che impedire il disfacimento della carne andava contro i naturali precetti divini.

Francesco Spirito (1885-1962) è l’ultimo dei grandi pietrificatori. Medico e presidente dell’Accademia dei Fisiocritici di Siena, che tutt’oggi conserva la collezione dei suoi preparati, ha potuto fornire i dettagli della sua tecnica complessa e delicata in occasione di una lettura accademica. Il suo segreto è la soluzione di silicato di potassio, grazie alla quale “la massa assume un aspetto ed una consistenza lapidea che con l’evaporazione diventa una massa vetrosa trasparente”. Durante la procedura, il pezzo è sostenuto da fili opportunamente sistemati, tesi tra sostegni di legno o metallo, in modo che le singole parti del preparato rimangano nella posizione voluta.

Con le tecniche sviluppate in età contemporanea, come ad esempio la plastinazione di Von Hagens, la pietrificazione risulta ormai obsoleta; ma rimane testimonianza di un’epoca stupefacente in cui erano i singoli sperimentatori che, rinchiusi nei loro studi assieme ai cadaveri, come degli strani alchimisti, mettevano a punto queste formule segretissime e circonfuse di un alone di mistero.

(Grazie, Giacomo!)

La biblioteca delle meraviglie – VII

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Concita De Gregorio

COSÌ È LA VITA – Imparare a dirsi addio

(2011, Einaudi)

Ancora un libro sulla morte, ma questa volta è una piccola gemma del tutto particolare. Una reazione, una ribellione etica e morale quella che anima Concita De Gregorio in questo libro a tratti doloroso, a tratti dolcissimo: la rivolta contro la scomparsa della vecchiaia e della morte dalle nostre quotidianità. La voglia, anzi, la necessità di essere in grado di rispondere alle domande dei nostri bambini: “a quanti anni si muore?”, “ma si muore per sempre?”, “mamma, per favore, potrei morire io prima di te?”. Perché molto spesso sono gli adulti, ad essere impreparati. E così la De Gregorio cerca di trovare un senso sul filo dei ricordi, di vari funerali sorprendenti che hanno trasformato il momento del dolore in occasione di vita e di meraviglia. Di fronte ad un mondo che predica l’estetica dell’eterna giovinezza, avere la possibilità di invecchiare è divenuta ormai una questione di dignità: e così lo è anche imparare il senso della perdita, accettare la possibile sconfitta, e insegnare anche questo ai bambini.

“Penso a Stefania Sandrelli morente che, ne La prima cosa bella, chiede a suo figlio se ha bisogno di mutande, calzini. Poi sospira: “Però ci siamo tanto divertiti”. È una fatica, raccontarsela tutta, ma una grande soddisfazione, un sollievo e una cura. Un’avventura magnifica. Ci siamo tanto divertiti, si dice sempre alla fine”.

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Christian Uva

IL TERRORE CORRE SUL VIDEO

(2008, Rubbettino Editore)

Il sottotiolo del libro di Christian Uva è Estetica della violenza dalle BR ad Al Quaeda. È l’immaginario del terrore che quotidianamente si riversa nelle nostre case attraverso TV, internet, telefonini: il crollo dell’11 Settembre, le minacce dei jihadisti, le esecuzioni sommarie, le decapitazioni degli ostaggi, l’impiccagione di Saddam Hussein ripresa con un videofonino, i video-messaggi di Bin Laden, le foto delle torture di Abu Ghraib, e via dicendo. Un fiume di immagini feroci che costellano e modificano il nostro stesso modo di vedere e interpretare il mondo. Christian Uva analizza il mutare nel tempo di questo genere di audiovisivi iperrealisti, e ne scandaglia l’estetica e la composizione semiotica. Scopriamo così i messaggi nascosti, inaspettati, che quelle immagini elettroniche contengono; capiamo come agiscono a livello visivo, qual è l’idea registica che sta alla base; e comprendiamo quanto l’utilizzo di questi filmati sia paragonabile a un’arma vera e propria, che si infiltra nelle più piccole crepe del nostro immaginario.

The Dangerous Kitchen – II

Continuiamo il nostro viaggio attorno al mondo alla ricerca delle prelibatezze culinarie più esotiche e raffinate. Oggi ci spostiamo nel sud est asiatico per assaggiare il “Re dei Frutti”: il durian.

Il durian è il frutto di un albero gigantesco, chiamato durio, che si può sviluppare anche fino a 50 metri di altezza. Se le api e le farfalle impollinano i fiori delle nostre piante da giardino, con questo colosso verde il compito tocca ai pipistrelli. E così, a circa tre mesi dall’impollinazione, ecco che sui rami del durio cresce quello che sarà il vostro prossimo dessert.

Aperta la scorza piena di spine, il cuore commestibile del frutto è insolitamente cremoso: il gusto di questa densa pasta giallastra ricorda le mandorle, ma con un retrogusto acidulo che ha sentori di senape o cipolla. Secondo alcuni avrebbe anche un leggero sapore di formaggio. Ma non è il gusto il problema del durian: è l’odore.

L’odore del durian è stato di volta in volta descritto in molti modi. Alla maggioranza delle persone ricorda l’odore dolciastro e nauseabondo della putrefazione della carne. C’è chi l’ha paragonato agli effluvi fognari, alle acque di scolo, alla trementina, alle cipolle marce, al vomito, al pungente lezzo di sudore, allo sterco di animale. Quello che è certo è che è decisamente spiacevole, anche quando il frutto è ancora chiuso, e per alcuni sarebbe il più terrificante odore al mondo.

La puzza del durian è così acre e appestante che a Singapore è vietato per legge introdurre il mefitico frutto sui mezzi di trasporto pubblici. Durante la crescita stagionale del durian, molte città fra la Tailandia, il Borneo e l’Indonesia vengono invase dall’inconfondibile aroma. Eppure se il durian è chiamato “il Re dei frutti”, un motivo forse c’è.

Gli appassionati di questa prelibatezza giurano che, una volta acquisito il gusto per il durian, non è possibile tornare indietro. È rimasta celebre, ad esempio, la descrizione che ne ha dato il naturalista Alfred Russel Wallace nel 1856:

“Le cinque celle sono vellutate di bianco all’interno, e sono riempite con una densa polpa di color crema […]. Questa polpa è la parte commestibile, e la sua consistenza e il suo gusto sono indescrivibili. Una ricca senape aromatizzata alla mandorla dà la migliore idea generale, ma ci sono occasionali ondate di sapore che fanno pensare alla crema di formaggio, alla salsa di cipolle, allo sherry e ad altri sorprendenti abbinamenti. E infine c’è la morbidezza appiccicosa della polpa che è davvero unica, e che fa del durian una squisitezza. Non è né acido né dolce né succoso; eppure non ha bisogno di queste qualità, perché è perfetto così com’è. Non produce alcuna nausea o altri effetti negativi,  e più lo mangi e meno vorresti fermarti. In realtà, mangiare il durian è una sensazione nuova e un’esperienza che da sola vale un viaggio in Oriente”.

In Asia il durian è servito fresco, oppure come contorno, ma anche cotto in padella, o abbinato a riso cotto nel cocco; in Indonesia è usato come aroma per un gelato tradizionale, e addirittura nella preparazione di un più moderno (e originale) cappuccino. Insomma, non vi mancherà certo occasione di assaggiare questa prelibatezza – ricordatevi soltanto di mettere in valigia una molletta per il naso.

Per concludere, ecco un divertente filmato in cui i ragazzi della trasmissione Braniac cercano di “misurare” l’odore del durian, inscenando una particolare gara di resistenza.

Interconnessioni

Jorge Louis Borges, contemplando il suo bastone da passeggio in lacca cinese, scriveva queste parole:

“Lo guardo. Penso all’artigiano che lavorò il bambù e lo piegò affinché la mia mano destra potesse stringerlo bene nel pugno.
Non so se vive ancora o è morto.
Non so se è taoista o buddista o se interroga il libro dei sessantaquattro esagrammi.
Non ci vedremo mai.
È sperduto tra novecentotrenta milioni.
Qualcosa, tuttavia, ci lega.
Non è impossibile che Qualcuno abbia premeditato questo vincolo.
Non è impossibile che l’universo necessiti di questo vincolo.”

(da La cifra, 1981)

Ad ogni causa corrisponde un effetto, certo. Ma la causalità va inserita in una visione più ampia e complessa: quella delle interconnessioni, delle interdipendenze. Ce lo dicono da centinaia d’anni poeti, mistici, visionari – e dal secolo scorso anche fisici e scienziati: nulla esiste per conto proprio, ma ogni cosa è legata alle altre, anche le più remote, le più lontane o antiche. Così la vostra vita (e intendo proprio la vostra giornata di oggi!) è influenzata ovviamente da come vi svegliate, ma anche dal modo in cui la luce filtra dalla finestra, dalle nuvole nel cielo e dal rumore che proviene dalla strada; cosa più difficile da afferrare, la vostra potrebbe essere una buona o una cattiva giornata a seconda se una pecora, in un villaggio del Messico, stia calpestando o meno una violetta. E ancora: la vostra giornata è influenzata da Scipione che sconfigge Annibale, dal buon funzionamento della ghigliottina in una calda mattina di fine ‘700, e in definitiva da ogni uomo o donna o animale che sia comparso ed abbia agito sulla Terra. Ogni minima cosa accaduta vi ha portato fin qui, e contribuisce a farvi sentire come vi sentite ora.

Vi sembra che stiamo esagerando? Facciamo allora un esempio.

Fabio è un ragazzo di quindici anni, e sfogliando un libro d’arte si imbatte per la prima volta nella sua vita in un quadro splendido: si tratta dell’ Urlo di Munch. Il cielo dai colori apocalittici e la figura sgomenta in primo piano lo colpiscono profondamente, toccano una parte di lui che sta appena nascendo. Immediatamente, Fabio sente un’affinità con quel dipinto, che gli sembra racchiudere tutta la paura, l’insicurezza e l’orrore che l’universo gli ispira.


In un’altra parte del mondo, Margot sta completando la lettura di Frankenstein di Mary Shelley. Margot è romantica, ma è ugualmente attratta dalla scienza. Il libro sembra riassumere le sue due passioni, e la tragica storia del mostro riportato in vita con parti di cadavere la affascina. Margot è rapita dalle sue fantasticherie.

Sono due esperienze comuni, e senza una evidente correlazione. Eppure, per quanto sembri assurdo, ciò che oggi provano Fabio e Margot è strettamente collegato a due vulcani, ubicati in una remota parte del pianeta, in Indonesia: il vulcano Tambora e il vulcano Krakatoa.

Nell’aprile del 1815 il vulcano Tambora esplose con una furia talmente devastante da riempire l’atmosfera terrestre di cenere e polveri sottili per i quattro anni a seguire: l’eruzione fu 52.000 volte più potente della bomba di Hiroshima. Si stima che, a livello globale, questa catastrofe costò la vita a più di 60.000 persone. La cenere sparata nell’atmosfera causò cambiamenti climatici drammatici, e il 1816 venne ricordato come l’ “anno senza estate“: anche in Europa la luce del sole non riuscì a scaldare le messi; piogge, gelo e carestie si prolungarono per tutto l’anno. Proprio a causa di queste condizioni climatiche avverse, un gruppo di poeti romantici si ritirò in una villa, a Ginevra, dove si sfidarono l’un l’altro a scrivere la più paurosa storia del terrore. In questa sessione di scrittura creativa, nata proprio dalle intemperie causate dal vulcano, vide la luce il romanzo Frankenstein ad opera della signora Shelley, moglie del più celebre poeta inglese Percey Shelley. Quanto questo romanzo abbia influito sulla cultura occidentale è noto.

Il 27 agosto 1883, il vulcano Krakatoa (poco distante dal Tambora) eruttò con un’energia equivalente a 500 megatoni, provocando il suono più forte mai udito sul pianeta, un boato che arrivò a quasi 5000 km di distanza. L’esplosione ridusse in cenere l’isola sulla quale sorgeva il vulcano e scatenò un’onda di maremoto alta 40 metri, che correva alla velocità di 1120 km/h. Morirono più di 36.000 persone, e fu riportata la presenza di gruppi di scheletri umani vaganti alla deriva per l’oceano indiano su zattere di pomice vulcanica, e finiti sulle coste orientali dell’Africa fino a un anno dopo l’eruzione.
A causa delle particelle di cenere emesse nell’aria, la Luna mantenne per anni un colore bluastro.

L’eruzione generò anche tramonti spettacolari in tutto il mondo per diversi mesi successivi, a causa del fatto che la luce solare si rifletteva sulle particelle di polvere sospese nell’aria, eruttate dal vulcano nell’atmosfera. L’artista inglese William Ashcroft realizzò centinaia di schizzi a colori dei tramonti rossi intorno al mondo (generati dal Krakatoa) negli anni successivi all’eruzione.

Nel 2004 alcuni ricercatori supposero che il cielo color rosso sangue del famoso quadro di Edvard Munch L’urlo, realizzato nel 1893, sia in realtà una riproduzione accurata del cielo norvegese dopo l’eruzione.

Così, senza eruzioni in Indonesia, niente Urlo, niente Frankenstein.

Attenti, perché la vertigine è a pochi passi. Quante altre, minuscole, impercettibili interconnessioni sfuggono al nostro occhio? Quante delle nostre scelte sono condizionate da eventi del passato, o da situazioni che logicamente riterremmo lontane da noi? La nostra mente è davvero razionale e a “tenuta stagna”, oppure le decisioni che prende sono continuamente influenzate dal mondo in cui è immersa? Il passato è veramente passato o vive ancora oggi al nostro fianco?

In un paesino del Messico, una pecora ha calpestato una violetta: ora sta a voi.

Le strabilianti macchine di Mr. Ganson

Arthur Ganson, classe 1955, ha  sempre avuto un debole per i meccanismi. Fin da quando, bambino introverso e timido, decise di superare la solitudine raccogliendo materiali di recupero e costruendo macchine incredibili, “mettendo le mie idee e passioni dentro agli oggetti, e imparando a parlare attraverso le mie mani”. Anche oggi, dopo che i suoi lavori sono stati esposti in sedi prestigiose attraverso tutto il mondo, e che alcune sue opere sono raccolte permanentemente in diversi musei scientifici, Ganson mantiene intatti l’entusiasmo e la meraviglia infantili di fronte a un qualsiasi complesso congegno meccanico.

Ma le sue “macchine cinetiche”, o sculture, o come vogliate chiamarle, sono molto più che semplici macchinari – sembrano avere un’anima. Ganson descrive il suo lavoro come l’incontro fra ingegneria e coreografia: automi che danzano, dunque. Eppure per spiegare la spiazzante bellezza di queste macchine occorre afferrare il nodo centrale dell’opera di Ganson – l’inutilità.

Tutte le macchine create dall’uomo assolvono a uno scopo specifico, sono progettate per compiere un lavoro, e la loro struttura è strettamente collegata con la loro funzione. Quelle di Arthur Ganson, invece, non hanno un fine preciso e, per quanto complessa ed elaborata sia la progettazione, per quanto minuzioso e difficoltoso l’assemblaggio, tutta questa fatica di lavoro e di intelletto è diretta alla costruzione di un oggetto senza scopo; tutto questo affollarsi d’ingranaggi, molle e meccanismi ad orologeria si risolve nella chiara, semplice, bellezza del movimento. Ed è in questo momento, quando realizziamo che la macchina non è più nostra schiava, non serve a qualcosa, che essa comincia a parlare.

Ognuna delle decine e decine di opere ha la sua voce distinta. Molto spesso la macchina si muove per il puro piacere di farlo, magari assumendo di volta in volta forme casuali che probabilmente non si ripeteranno mai più.

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In altri casi sembra quasi che la macchina diventi addirittura simbolo della condizione umana: guardate questa Macchina con Petalo di Carciofo, con la foglia rinsecchita destinata a camminare, camminare senza sosta e senza meta, come un moderno Sisifo “on the road”.

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Altri marchingegni si oliano da soli, altri ancora introducono l’elemento del tempo. In Machine with Concrete, nonostante la macchina continui instancabilmente a muoversi, la riduzione di ghiera in ghiera è talmente estrema che l’ultima rotellina ha potuto essere incastonata nel cemento: si muove così lentamente che compierà una rivoluzione completa soltanto fra 2.3 trilioni di anni.

“Tutti questi pezzi cominciano nella mia mente, nel mio cuore, e io faccio del mio meglio per trovare il modo di esprimerli, ed è sempre approssimativo, è sempre una battaglia, ma alla fine riesco a concretizzare questo pensiero in un oggetto, e allora eccolo lì. Non significa nulla. L’oggetto in sé non vuol dire niente. Ma una volta che viene percepito, e qualcuno lo trasferisce nella sua mente, ecco che allora il ciclo si è completato”.

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Le macchine di Arthur Ganson ci parlano della nostra stessa fragilità – sono, come noi, macchinari perfetti ma senza uno scopo definito. E forse è proprio l’assenza di una ragione, di un motivo d’essere, che ne rende poetica l’esistenza. Se la vita avesse un senso, sembrano suggerire questi meravigliosi automi, non saremmo altro che macchine programmate e senz’anima. Che miracolo, che liberazione, potere danzare per il solo gusto di farlo!

Ecco il sito ufficiale di Arthur Ganson.

(Grazie, Yoana!)