Aghori

Il mondo non è altro che illusione. È facile dirlo, ma se dovessimo davvero crederci, come imposteremmo la nostra vita? Avrebbero ancora senso le leggi degli uomini, le regole di comportamento? E se perfino l’etica fosse un ulteriore tranello mentale, e in realtà Dio se la ridesse di tutti i nostri dubbi e scrupoli morali?

Simili questioni stanno al centro di molte tradizioni religiose, ma nessuna ha portato il ragionamento alle estreme conseguenze quanto la setta degli Aghori.


Asceti shivaisti, lo scopo degli Aghori è liberarsi una volta per tutte dalla ruota delle reincarnazioni; per fare questo puntano, attraverso la meditazione e un ascetismo estremo, a fondere il proprio Sé (Atman) con il tutto (Brahman), superando il pensiero bloccato in illusori dualismi. Gli opposti non esistono, per loro, e così non esiste nulla di bello o di brutto, di buono o di cattivo; tutto è emanazione di Shiva, dunque tutto è perfetto.


Così, gli Aghori hanno sviluppato un percorso spirituale davvero incredibile: abbracciare tutti quei comportamenti che la società normalmente condanna ed aborre, tutte le pratiche più disgustose e oscene, tutte le azioni moralmente condannabili secondo le tradizionali regole del karma.


Per raggiungere l’estasi che permetterà loro di trascendere le categorie del pensiero umano, gli Aghori fanno uso di cannabis, bevono alcool, mangiano cibi conditi con oppiacei e allucinogeni. Si abbandonano anche a rituali sessuali di matrice tantrica, se non a vere e proprie orge. Mica male come asceti, direte.


Ma gli Aghori non si fermano certo qui. Per dimostrare che hanno abbandonato ogni preconcetto, inclusi i dualismi gusto/disgusto e puro/impuro, si dedicano senza battere ciglio a urofagia e coprofagia. Si aggirano anche spesso negli ossari a cielo aperto dove le salme vengono lasciate a decomporsi, e sono stati più volte avvistati mentre si spalmavano su tutto il corpo le ceneri di una cremazione. Uno dei loro rituali (il shava samskara) utilizza un cadavere come “altare” su cui si celebra la cerimonia.


Terrificanti già nell’aspetto, adorni di monili ricavati da ossa umane e teschi utilizzati come coppe da cui bevono, non arretrano nemmeno di fronte all’ultimo dei tabù: il cannibalismo. Quest’ultimo viene praticato su cadaveri trafugati o dissepolti, e secondo alcune fonti la fine preferita dai maestri Aghori è quella di venire divorati dal proprio successore, in modo da trasferirgli tutti i “poteri” acquisiti durante la vita.


Potrebbe sembrare che nulla sia troppo sacro per un Aghori; in realtà è esattamente l’opposto. L’asceta cerca infatti di vedere Dio in qualsiasi fenomeno dell’universo, in tutte le manifestazioni della catena di causa ed effetto. Quindi, se ogni cosa è sacra e illuminata, la tenebra e la paura sono soltanto nella nostra mente. Mangiare carne di mucca (proibitissimo per qualsiasi tradizione induista) o mangiare un corpo umano sono azioni che non possono dispiacere a Shiva, in quanto egli permette che esistano. Anzi, Shiva è in quelle azioni così come in tutte le altre, sempre, contemporaneamente, ovunque.
La ricerca spirituale è dunque un precipitarsi nella turpitudine, nell’osceno e nel rivoltante, salvo accorgersi poi che quella che sembrava oscurità era in verità luce – è un tentativo di disimparare tutto ciò che ci hanno insegnato sul bene e sul male, per guardare il mondo con uno sguardo primordiale, con gli occhi di un bambino ancora privo di categorie di pensiero.


Ora, quanto avete letto finora è la teoria, fin troppo nobilitante.
Nella realtà molte frange della setta sono più interessate agli aspetti magico-sciamanici che a quelli filosofici: così i rituali divengono veri e propri atti magici, violenti e rivoltanti, finalizzati all’acquisizione di poteri soprannaturali, e che comportano il sacrificio di animali e perfino di esseri umani. La comunione con Shiva passa in secondo piano rispetto alle fatture contro i nemici, e al potenziamento delle virtù magiche degli “stregoni” attraverso il rito. Secondo alcune fonti, gli Aghori sarebbero addirittura convinti che Shiva perdona fino a sette omicidi (esclusi i sacrifici umani, che sono sempre a fin di bene e che quindi non entrano nel conto).

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La setta degli Aghori, sparsa principalmente su India e Nepal, è avvolta nel segreto e nel mistero, in quanto i suoi adepti non hanno alcuna voglia di fare troppa pubblicità alle proprie azioni. Nelle campagne, gli asceti sono temuti e venerati come uomini dagli enormi poteri magici, proprio in virtù della forza che dimostrano nel dedicarsi agli aspetti più terribili dell’esistenza.

(Grazie, Skiv95!)

Alice sotto terra

Abbiamo già parlato del regista e disegnatore Stefano Bessoni in diverse occasioni. Il suo nuovo lavoro illustrato, Alice sotto terra, verrà lanciato in anteprima al Romics di Roma sabato 29 settembre, in un appuntamento intitolato “Viaggio nella wunderkammer”. Sarà un’occasione per conoscere l’autore di persona e procurarsi una copia autografata di questa sua fantasiosa rielaborazione del capolavoro carrolliano.

Chi conosce il mondo di Bessoni, sia quello su carta che quello su grande schermo, saprà già cosa aspettarsi: nelle sue opere l’elemento fiabesco si tinge di accenti macabri, mescolando assieme suggestioni scientifiche e letterarie, la fascinazione per il pre-cinema, il collezionismo naturalistico ed entomologico; tutti questi strani e disparati ingredienti si amalgamano in maniera sorprendente, intessendo un intricato gioco di rimandi di senso.

Rispetto ai precedenti libretti editi da Logos (Homunculus e Wunderkammer), qui è però presente un referente titanico, ovvero quel Reverendo Dodgson, scrittore matematico e fotografo, in arte Lewis Carroll, che con i suoi Alice nel paese delle meraviglie (1865) e Alice dietro lo specchio (1871) ha influenzato tutto il secolo scorso nei più disparati campi (arte, cinema, letteratura, musica, psicologia, ecc.).

Stefano Bessoni, da parte sua, insegue il coniglio bianco da decenni ormai, con una passione e un entusiasmo commoventi, e dalle tavole di Alice sotto terra emerge proprio questo rispetto infinito e questa estrema familiarità con i personaggi che popolano l’universo carrolliano. Con il passare del tempo, essi sono divenuti per Bessoni dei veri e propri compagni di strada, di cui egli conosce ogni minimo segreto; e per ognuno di essi ha inventato storie parallele o devianti dalla favola classica, metabolizzandone caratteristiche e virtù attraverso il filtro delle proprie ossessioni.

Il bruco con il narghilè si trasfigura quindi in uno psiconauta appassionato di frenologia; il cilindro del Cappellaio Matto diventa una wunderkammer ambulante ricolma di teschi di feti, occhi di vetro e preparazioni entomologiche; il Tre di Cuori è un anatomo-patologo intento a dissezionare cadaveri nel tentativo di costruire un cuore a vapore… e via dicendo, tra follia, umorismo e un senso del grottesco che a Carroll, probabilmente, non sarebbe dispiaciuto affatto.

Il blog ufficiale di Stefano Bessoni.

F.A.Q. – Come ricostruire uno scheletro

Caro Bizzarro Bazar,

sono un aspirante ladro di cadaveri e ho appena disseppellito la mia prima salma; adesso però mi ritrovo con un sacco pieno di ossa che non so come organizzare. Mi daresti una mano?

Caro tombarolo in erba nonché necrofilo pivello, il corpo umano è composto da circa 200 ossa. Rimetterle nella giusta posizione può essere ben più difficile del previsto. Per fortuna viene in tuo soccorso l’osteologo Michael Anderson, del Museum of London, che fa sembrare il tutto un gioco da ragazzi.

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(Scoperto via Materies Morbi)

La Pascualita

Nella cittadina di Chihuahua, capitale dell’omonimo stato in Messico, c’è un piccolo negozio di abiti da sposa; e in una vetrina di questo negozio potete ammirare un manichino del tutto particolare.


La gente del luogo la chiama La Pascualita. Fece la sua apparizione nella vetrina il 25 marzo del 1930, vestita di un leggero abito primaverile da sposa. Fin da subito le sue fattezze iperrealistiche stregarono i passanti: il suo sguardo vitreo sembrava fin troppo umano, la cura nei dettagli era estrema e l’illusione di trovarsi di fronte a una modella in carne ed ossa dava certamente i brividi.

Così iniziarono a nascere le leggende. Quel manichino, si cominciò a dire, assomigliava troppo a Pascuala Esparza de Perez, figlia dell’allora proprietaria: in poco tempo, la gente del posto si convinse che quello fosse in realtà il cadavere imbalsamato e perfettamente preservato della giovane ragazza, morta forse in gran segreto. Come spiegare altrimenti quella chioma autentica e quella pelle così perfetta?


La leggenda si arricchì di dettagli, e si sparse la voce che Pascuala fosse morta proprio il giorno delle sue nozze, in seguito al morso di una vedova nera. La ragazza, ovviamente ancora in perfetta salute, appena seppe di queste storie provò a convincere i suoi concittadini che era viva e vegeta… ma ormai nell’immaginario popolare il manichino era diventato “Pascualita”, la sfortunata sposa imbalsamata. Chi si trovava a passare di notte di fronte alla vetrina illuminata giurava di aver visto il manichino muoversi per seguirlo con lo sguardo. Secondo altri, Pascualita cambiava posizione da sola di tanto in tanto.


Fu così che i proprietari del negozio dovettero decidere che, dopotutto, essere al centro di questa storia fantastica e soprannaturale poteva anche funzionare come un’insperata pubblicità. Trasformata in attrazione turistica, ogni due settimane la Pascualita viene cambiata rigorosamente a tende chiuse, in modo che nessuno possa conoscere i suoi segreti, oltre alle commesse del negozio. Le quali dichiarano – non si sa se per contratto o per autentica superstizione: “Ogni volta che mi avvicino a Pascualita, le mie mani si mettono a sudare. Le sue mani sono così realistiche, e ha perfino le vene varicose sulle gambe. Io credo che sia una persona reale”.

A qualcuno di voi questa storia farà venire in mente la macabra vicenda di Elmer McCurdy. Ovviamente la Pascualita era, ed è, soltanto un manichino iperrealistico (se seguite un poco il nostro blog, sapete bene che preservare un corpo per 75 anni in queste condizioni non sarebbe possibile). Ma la statua della giovinetta vestita da sposa non è tanto interessante per la sua fattura, o per i presunti segreti che nasconderebbe; il suo fascino sta nella leggenda a cui ha dato vita, e che dimostra il nostro desiderio, il nostro bisogno di credere in questo tipo di storie – paranormali, macabre, fantastiche, che ci riportano ad una dimensione fuori dal tempo in cui bellezza e morte, orrore e poesia sono indissolubilmente fusi assieme.

La spiaggia di vetro

Articolo a cura della nostra guestblogger Marialuisa

Se le vostre vacanze sono appena finite, ma già state mettendo da parte brochure e indicazioni per il prossimo anno e siete in cerca di nuove esperienze e mete particolari, perché non andare a stendervi e rosolarvi al sole su una meravigliosa distesa di rifiuti?


Se siete stanchi della solita spiaggia di sassi o sabbia, ecco una meta alternativa, Fort Bragg, California, spiaggia che all’inizio del ventesimo secolo e fino agli anni ’60 veniva definita the Dump, ovvero “la discarica”, per via dell’abitudine della popolazione limitrofa di gettarvi qualsiasi tipo di rifiuto, in particolare vetri, rifiuti solidi e in molti casi anche automobili.

Il pezzo di spiaggia in questione, di proprietà della Union Lumber Company, veniva riempito così tanto di rifiuti, che per mantenerne attiva la funzione di discarica collettiva, i diversi cumuli venivano periodicamente incendiati dalla stessa popolazione.


Con il passare del tempo, rifiuti di ogni tipo vengono accumulati per decine di anni, inquinando l’ambiente circostante e rendendo impossibile qualsiasi altro uso del lido che non sia quello ormai noto di discarica pubblica.


La situazione cambia quando nel 1967 la North Coast Water Quality Board insieme ad una commissione cittadina fa chiudere l’area e avvia dei programmi di smaltimento e pulizia.

Nonostante questo, la spiaggia resta invasa di rifiuti; eliminati i pezzi maggiori, quali auto e mobilio, i vetri non vengono rimossi, restando abbandonati sulla spiaggia per decine di anni, anni che servono al mare per ripulirsi, ma anche per levigare, riprendere e riportare i cocci di vetro sulla spiaggia, sotto un’altra forma.

Sabbia e sassi originari, infatti, scompaiono sotto un tappeto di tondini di vetro traslucido e colorato, che da rifiuto si è trasformato in parte integrante dell’ambiente nonché in decorazione e caratteristica peculiare, innocuo, liscio e dai riflessi splendidi.


Un insolito lieto fine ambientale per una spiaggia che da discarica si auto-rigenera, dove i materiali di scarto sono stati rimodellati e preparati per poi essere inglobati nuovamente nell’ecosistema sotto tutt’altra forma, parte integrante dell’ambiente e addirittura valore aggiunto.

Un lido di vetro che dal 1998 è diventato di dominio pubblico e ambita meta di turisti che spesso si portano a casa un “souvenir” insolito. Ora si assiste quindi ad un curioso fenomeno per cui dopo anni di investimenti per eliminare il vetro dalla costa, vige il divieto di portarlo via per non rovinare la spiaggia.


Fort Bragg comunque non è l’unica spiaggia di vetro in cui potreste imbattervi, esistono infatti la piccola Benicia (California), Guantanamo e infine, ebbene sì, Hanapepe nelle Hawaii, decisamente particolare in quanto formata evidentemente solo da bottiglie trasparenti e marroni.

The Dangerous Kitchen – VII

Per tutti voi appassionati di cibi estremi, gourmet del tabù, buongustai del cattivo gusto, siamo orgogliosi di presentare oggi per la nostra rubrica culinaria un piatto annoverato fra i più raffinati della storia, che ha sempre mandato in estasi assoluta i suoi sostenitori… e fatto inorridire chi lo ritiene una pura e crudele barbarie.

La ricetta di oggi viene d’oltralpe, dal paese che più di tutti ha reso la cucina un’arte vera e propria. Siete pronti ad assaggiare la più squisita prelibatezza della haute cuisine francese?


L’ortolano è un uccellino di circa 16 centimetri di lunghezza, per un peso medio di 20-25 grammi, dal bel piumaggio multicolore: verde sulla testa, bruno sulla parte superiore e sulle ali, giallo sulla pancia. Si nutre di semi e bacche, ed è diffuso in tutta Europa – anche se in Francia è ormai una specie protetta; per secoli, infatti, è finito sul piatto dei più esigenti amanti della cucina.

Gli uccelli di piccola taglia vengono consumati sulle tavole di tutta Europa fin dal Medioevo, e anche in Italia fanno parte di piatti tradizionali come il classico veneto poenta e osei, in cui allodole o tordi sono cucinati e serviti con la polenta calda. Ma la ricetta francese per degustare l’ortolano ha diversi aspetti davvero inusuali che lo rendono un piatto controverso e piuttosto rivoltante.


Innanzitutto, gli ortolani vengono cacciati e catturati vivi, per mezzo di reti. I piccoli uccelli vengono poi riposti in scatole completamente buie (alcuni raccontano di intere stanze utilizzate allo scopo, nelle quali la luce del sole non può entrare): in questo modo i pennuti sono ingannati dalla perenne oscurità, e spinti a cibarsi in continuazione delle sementi di miglio bianco che sono sparse ai loro piedi. Dopo essere stati messi così all’ingrasso per qualche settimana, i poveri uccellini sono uccisi annegandoli nell’armagnac. Questa macabra “ultima boccata” di liquore stagionato dona alla carne un tocco di sapore inconfondibile.


Gli ortolani vengono poi spennati, ma non ripuliti delle loro interiora – e questa è un’altra delle particolarità della ricetta. Cotti alla brace per 8 minuti, vengono serviti ancora interi, completi di testa (unica eccezione, le zampine, che vengono asportate).

Ma le stranezze non finiscono qui: esiste un preciso rituale da seguire per apprezzare appieno il piccolo uccellino. Quest’ultimo va infatti inserito in bocca tutto intero, in un solo boccone, partendo dalla testa o dalle terga a seconda del gusto personale. A questo punto i commensali si coprono il capo con un grande fazzoletto, e cominciano il lungo e paziente lavoro di spolpamento, tutto eseguito all’interno della bocca.


La scena è un po’ comica, un po’ inquietante, certamente assurda. Chi entrasse in quel momento potrebbe pensare di trovarsi di fronte a una setta o a un quadro surrealista: il fazzoletto in realtà serve, a quanto dice la tradizione, per non disperdere i delicati fumi dell’armagnac e consentire una concentrazione maggiore sul sapore dell’ortolano. Ma le malelingue sostengono che serva in realtà a nascondere la disgustosa vista delle bocche che succhiano la carne, rigirando gli ossicini, frantumando con i denti la piccola cassa toracica. Secondo altri ancora, il fazzoletto dissimulerebbe l’osceno pasto addirittura “agli occhi di Dio”.


Il fatto che l’ortolano non venga eviscerato prima della consumazione lo rende davvero particolare al gusto: mano a mano che ci si fa strada nelle sue carni, diverse stratificazioni di sapore arrivano alle papille. Lo strato esterno è quello del grasso, che vanta la consistenza ricca del burro salato; ma quando si liberano gli organi interni, la bocca è invasa da un bouquet di intensi sapori che ricordano il foie gras (altro piatto crudele e, per molti, tabù). Gran parte degli ossicini possono essere agevolmente masticati e inghiottiti come, per fare un paragone, le lische delle sardine.


L’ortolano è legato a un famosissimo “ultimo pasto”: quello organizzato da François Mitterand otto giorni prima di morire, assieme a trenta convitati fra gli amici e i parenti più intimi. L’ex-presidente era ormai gravemente malato e consunto, ma ebbe comunque la forza di concedersi un ultimo pasto degno di un re: dopo 50 ostriche, foie gras e cappone, il vecchio Mitterand, fazzoletto in testa, consumò ben due ortolani. L’organizzatore della luculliana cena era un certo Henri Emmanuelli, un politico che ancora oggi si schiera in difesa della caccia a questi uccelli.


In Francia cacciare, vendere o acquistare un ortolano è proibito per legge – ma è ancora consentito mangiarlo. I ristoranti lo servono quindi soltanto a porte chiuse e a una ristretta cerchia di fidati intenditori, e assolutamente senza farsi pagare.
La popolazione mondiale di questi uccelli non è attualmente in pericolo (ce ne sono a milioni), ma come dicevamo in Francia è calata di una fortissima percentuale proprio a causa della pressione venatoria: ogni anno si stima che circa 30.000 uccelli cadano nelle reti dei bracconieri.

Oggi, sul mercato nero, un ortolano può costare fino a 200 €. E, per quanto sembri incredibile, c’è sempre chi è pronto ad sborsare questa notevole cifra per comprare, ingrassare, annegare, cucinare e succhiare sotto un fazzoletto quel singolo boccone di estasi carnivora.

Il pianto

Si dice che l’uomo sia l’unico animale capace di piangere. Questo non è del tutto vero, perché anche altri vertebrati come scimpanzé, elefanti, orsi, cani, hanno un sistema lacrimale simile al nostro che serve a mantenere umida la superficie degli occhi. Si potrebbe dire allora che soltanto l’uomo ha sviluppato un pianto di tipo emotivo, ma sappiamo che anche i cuccioli di molti animali, se separati dalle madri, producono dei versi caratteristici e inconfondibili che in alcuni casi assomigliano proprio al pianto dei nostri bambini. Eppure una differenza notevole e curiosa fra noi e gli animali esiste, ed è la correlazione fra pianto e lacrime. Soltanto noi abbiamo sviluppato la peculiarità di lacrimare quando soffriamo emotivamente.

A cosa serve questa strana strategia evolutiva? Perché quando siamo sottoposti a un trauma o un motivo di stress, le lacrime compaiono ai nostri occhi?


Ogni vita comincia con un pianto: è il segnale che siamo arrivati al mondo, siamo qui, e abbiamo bisogno di aiuto. Vulnerabili in tutto, non abbiamo altro sistema per attirare l’attenzione sulle nostre necessità. Il pianto dei bambini è quindi soprattutto vocale, potente, ogni grido dura circa un secondo e segue il ritmo del ciclo respiratorio, con brevi pause per “tirare il fiato”; non sempre è accompagnato da lacrime.

Mano a mano che cresciamo, piangiamo sempre meno e anche il modo in cui lo facciamo cambia lentamente: si passa dalle grida rumorose ad un pianto più silenzioso, di cui l’elemento più notevole è la copiosa lacrimazione. Non ha perso la sua funzione di richiesta di aiuto, ma con la maturazione questo segnale diviene più visivo che sonoro; diventiamo, per così dire, più selettivi e possiamo “scegliere” da chi vogliamo farci vedere mentre piangiamo. Così, al di là della (relativa) capacità di inibire le lacrime o di decidere quando e dove piangeremo, il pianto adulto avviene nella maggior parte dei casi entro le mura domestiche, dove il segnale visivo raggiunge le persone con cui siamo più intimi. L’idea che la società impedisca agli adulti di piangere non è forse corretta: piuttosto le regole sociali restringono il campo d’azione, in modo che il pianto diventi un evento più “mirato”, ritualizzato e codificato – e quindi più efficace.

Ma il pianto è davvero soltanto un segnale sociale? Perché piangiamo anche da soli? E perché, dopo aver pianto, ci sentiamo meglio?

Gli studi condotti fino ad oggi evidenziano una forte possibilità che le lacrime abbiano una funzione curativa: infatti la concentrazione di NGF (nerve growth factor, la proteina scoperta da Rita Levi-Montalcini e che le ha valso il premio Nobel) presente nelle lacrime aumenta dopo una ferita alla cornea, suggerendo l’idea che l’NGF giochi un ruolo importante nella guarigione dell’occhio.

Alcuni scienziati hanno ipotizzato che le lacrime ad alta concentrazione di NGF possano quindi avere anche un effetto antidepressivo: piangere non servirebbe soltanto a segnalare agli altri  il proprio stato d’animo, dunque, ma addirittura a modularlo.

La strategia evolutiva alla base del pianto emotivo è, ovviamente, oggetto di pura speculazione: possiamo immaginare che le lacrime un tempo servissero soltanto all’auto-guarigione di ferite o malattie degli occhi. Con il tempo, però, la connessione fra le lacrime e un trauma agli occhi venne compreso e quando un membro di una tribù lacrimava ci si prendeva cura di lui, o comunque venivano inibiti comportamenti aggressivi nei suoi confronti; questo segnale primitivo può in seguito essere stato ritualizzato per divenire un segno di sofferenza fisica ed emotiva.

Questa lacrimazione emotiva è un’innovazione relativamente recente, e gli scienziati sono convinti di poter scoprire le tracce biologiche della sua genesi. L’NGF presente nelle lacrime potrebbe infatti avere una doppia funzione: da una parte, come già detto, essere un agente curativo e dall’altra, in quanto neurotrofina, giocare un ruolo centrale nella formazione dello stesso circuito neurologico necessario al pianto. Questo studio “a ritroso” delle tracce evolutive ha portato spesso a scoperte inattese, vaste e profonde. Le nostre lacrime racchiudono forse un nuovo segreto che ci aiuterà a comprendere meglio la straordinaria macchina che è il nostro corpo.

Chiesa e anatomia

Qualche tempo fa Lidia, una nostra lettrice, ci segnalava la presenza della statua di un écorché (“scorticato”, una delle raffigurazioni classiche dell’anatomia umana) proprio all’interno del Duomo di Milano: si tratta del celebre San Bartolomeo di Marco D’Agrate. Eccolo qui sotto.


Lidia si chiedeva: com’è possibile che una statua simile venisse posta all’interno di un Duomo, proprio in un periodo (il XVI secolo) in cui l’utilizzo di cadaveri per la dissezione comportava la scomunica?

Questo apparente paradosso ci dà la possibilità di fare luce su alcuni miti relativi al Medioevo, in particolare riguardo ai rapporti fra la Chiesa cattolica e lo studio dell’anatomia.


L’idea che molti hanno degli albori degli studi anatomici e chirurgici si ricollega all’idea di Medioevo come di un’epoca buia, pervasa da ignoranza e superstizione; in questo contesto, i primi studiosi dell’anatomia sarebbero stati dei pionieri “fuorilegge”, che riesumavano cadaveri ed eseguivano le loro dissezioni di nascosto, perché su queste azioni gravava la pena della scomunica o, ancora peggio, la reclusione. Leonardo da Vinci, responsabile delle prime dettagliate illustrazioni dell’interno del corpo umano, e inventore del moderno disegno anatomico (quello “esploso”, che mostra come gli organi siano posizionati e si rapportino l’uno all’altro), effettuò le sue dissezioni in gran segreto, o almeno così ci hanno sempre raccontato, per evitare ritorsioni dalla Chiesa.

Preparatevi però a una sorpresa: queste idee sono state grandemente ridimensionate dagli studiosi a partire dagli anni ’70, fino ad arrivare a sostenere che la Chiesa cattolica non abbia mai condannato né le dissezioni, né lo studio dell’anatomia, né tantomeno la chirurgia.


Da cosa nasce allora questa confusione? Principalmente dalla cosiddetta “tesi del conflitto”, nata in ambito positivista nel XIX secolo: alcuni studiosi di storia infatti (White e Draper in particolare) sostennero che la Chiesa fosse da sempre stata in conflitto con la scienza, perché quest’ultima contraddice i miracoli; lo sviluppo delle materie scientifiche, quindi, sarebbe andato contro gli interessi del Pontefice e della comunità ecclesiastica, entrambi intenti a mantenere salvi i proventi della loro “vendita dell’Agnus Dei”. Quest’idea godette subito di grande popolarità, benché le fonti coeve non riportassero esplicitamente traccia di questa lotta acerrima fra scienza e religione. Gran parte degli autori, a dir la verità, non citava e spesso non si prendeva nemmeno la briga di verificare e studiare approfonditamente il diritto canonico e gli atti dei concili.

A complicare le cose, ci furono un paio di canoni e bolle papali che vennero interpretati in maniera errata o parziale. È vero infatti che alcune restrizioni erano state decise dalla Chiesa per vietare a parte del clero di studiare l’anatomia. Ad esempio, un canone approvato in diversi concili ecclesiastici prevedeva che fosse proibito a monaci e canonici regolari lo studio della medicina. Ma se si leggono approfonditamente le motivazioni di questa proibizione, si scopre che essa veniva messa in atto per limitare quella “prava e detestabile consuetudine” che alcuni monaci avevano preso di studiare “giurisprudenza e medicina al fine di ricavarne un guadagno temporale”. Un monaco avrebbe dovuto dedicarsi alla preghiera e al conforto delle anime – ma al tempo molti si dedicavano invece alla medicina e alla giurisprudenza come secondo lavoro; ed era questa sete di guadagno che, secondo il canone, male si addiceva a degli uomini di fede. D’altronde il canone è tutto incentrato sul problema dell’avidità, e vi si proibiscono anche simonia e usura: il fatto che ai monaci venisse vietato anche lo studio della giurisprudenza fa capire bene come non fosse la medicina il problema essenziale.


Un altro canone si scagliava contro quei membri della Chiesa che erano soliti “lasciare i loro chiostri per studiare le leggi e preparare medicine, con il pretesto di aiutare i corpi dei loro fratelli malati […] stabiliamo allora, con il consenso del presente concilio, che a nessuno sia permesso di partire per studiare medicina o le leggi secolari dopo aver preso i voti ed aver fatto professione di fede in un certo luogo di religione”. Anche in questo caso non viene mai proibita la pratica della medicina; vengono accusati quei ministri di Dio che abbandonano il loro chiostro per perseguire scopi differenti. Come a dire, una volta che hai preso i voti, la tua strada deve essere quella del Signore, a quello devi dedicarti, senza che altre discipline ti distraggano dai tuoi compiti.

Un altro dilemma morale era che la chirurgia curava di certo molti malati, ma spesso portava alla morte del paziente. Questo mal si conciliava con l’assunzione ad alte cariche nella Chiesa, e pertanto praticare la chirurgia fu proibito agli Ordini Maggiori (insieme, per esempio, al divieto di pronunciare sentenze di morte o di essere a capo di uomini che spargono sangue). Ancora una volta, nessuna traccia della proibizione della pratica chirurgica in sé; e ancora una volta questi divieti erano limitati soltanto a una specifica parte del clero.


Ma forse il più incredibile fra i miti relativi alla Chiesa è l’editto denominato Ecclesia abhorret a sanguine (“La Chiesa aborre dal sangue”). Questa frase, citata e ricitata nei secoli a riprova della distanza fra Chiesa e chirurgia, venne attribuita a un fantomatico editto: eppure esso non è presente in alcun canone di alcun concilio! Pare che uno storico del XVIII secolo, citando un passo delle Recherches de la France di Étienne Pasquier, abbia deciso di tradurlo in latino e di scriverlo in corsivo. Da quel momento, tutti gli storici successivi presero il motto come una citazione diretta da qualche canone, senza controllarne l’effettiva provenienza.


E le dissezioni? Anche qui, ben poco che ci confermi una presunta presa di distanza della Chiesa. Ci fu, è vero, la bolla De sepulturis, nata con l’intento di combattere l’usanza, fiorita in Terra Santa durante le Crociate, di tagliare a pezzi il corpo dei nobili e di bollirli per separare la carne dalle ossa e riportare più agevolmente le spoglie a casa, oppure per seppellirle in diversi luoghi ritenuti sacri. Nella bolla non si proibiva di fare a pezzi un corpo per scopi scientifici (la preoccupazione era rivolta appunto a quella pratica di sepoltura definita “abominevole”), ma forse la bolla poté essere liberamente interpretata e usata per limitare in alcuni rari casi anche le dissezioni anatomiche.

Quello che è certo è che i monasteri erano da sempre i depositari dei maggiori testi di anatomia e medicina, che una buona parte del clero studiava queste discipline, e che le dissezioni vennero praticate durante tutto il Medioevo senza particolari problemi. Già nel XIII secolo le autopsie erano utilizzate e legalmente permesse come pratiche sperimentali per accertare le cause di un decesso e prevenire eventuali epidemie. È proprio dal XIV secolo che la pratica della dissezione, partendo da Bologna, iniziò a diffondersi gradualmente in tutte le altre università italiane ed europee, senza trovare alcun ostacolo.


E, se ancora non siete proprio convinti che la Chiesa non avesse problemi con la dissezione di un cadavere, pensate a quello che succedeva ai corpi dei santi, spesso letteralmente smembrati appena morti, ad opera degli stessi ecclesiastici… per farne reliquie.