Il vostro prossimo cucciolo – XI

Da tempo non aggiorniamo questa rubrica dedicata ai più dolci e teneri animaletti a cui spalancare le porte della vostra casa.

Se il vostro amore per gli amici animali è davvero senza confini e desiderate portare sempre con voi il vostro cucciolo, perché non ospitarlo all’interno del vostro stesso corpo?


Il dracunculus medinensis, ad esempio, è un simpatico vermetto il cui ciclo vitale ha del prodigioso: le larve infestano dei minuscoli crostacei chiamati copepodi; voi bevete un bicchiere d’acqua in cui ci sono questi millimetrici crostacei, e le larve finiscono nel vostro stomaco. Sopravvivono ai succhi gastrici, attraversano la parete dell’intestino ed entrano nella cavità addominale. Lì crescono e diventano adulti, cominciano a conoscersi, sapete com’è, una cosa tira l’altra ed ecco che sboccia l’amore! I vermi si accoppiano nella vostra pancia, e dopo un anno circa la femmina è gravida di tre milioni di nuove larve.

Si è spostata adesso a livello sottocutaneo, di solito nel piede o nella gamba, e secerne una sostanza che forma una bella bolla sulla vostra pelle. Per alleviare il bruciore immergete il piede nell’acqua; la bolla si rompe, la femmina fa uscire la coda dalla ferita e spruzza le larve nell’acqua, dove andranno ad infestare nuovi mini-crostacei e faranno ripartire lo straordinario ciclo della vita.


Se siete invece quel tipo di persona che ama esibire orgogliosamente i propri animali domestici, ci permettiamo di consigliarvi il loa loa filaris. Un altro verme parassita, che arriva all’uomo tramite la puntura di una mosca: una volta entrato a livello subcutaneo, il verme si sposta sotto la pelle, in giro per il vostro corpo e addirittura gli piace attraversare i vostri occhi! Potrebbe farvi un po’ male mentre si muove sinuoso nei tessuti che stanno sotto la congiuntiva, o quando dal bulbo oculare passa attraverso la radice del naso… ma quale altro cucciolo si affeziona a voi in modo così commovente, tanto da non volere più lasciarvi?

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Questi due vermiciattoli non sono certamente gli unici animali a sopravvivere grazie alla nostra generosa ospitalità – oltre alle tenie e ad altri vermi intestinali, i parassiti dell’uomo includono diverse specie di protozoi, fino agli ectoparassiti come zecche o pidocchi: insomma, c’è tutto un mondo là fuori che ha bisogno di noi. E ricordiamo che, come diceva Konrad Lorenz, “il nostro amore per gli animali si misura dai sacrifici che siamo pronti a fare per loro”.

(Grazie, Giusy!)

Daikichi Amano

Daikichi Amano è un fotografo nato in Giappone nel 1973; dopo gli studi in America, torna in patria e si dedica inizialmente alla moda. Stancatosi delle foto patinate commissionategli dalle riviste, decide di concentrarsi su progetti propri e comincia fin da subito a scandagliare il lato meno solare della cultura nipponica: il sesso e il feticismo.

I primi scatti di questa nuova piega nel suo lavoro sono dedicati al cosiddetto octopus fetish (di cui avevamo già parlato brevemente in questo post): belle modelle nude vengono ricoperte di piovre e polpi, che talvolta sottolineano con i tentacoli le loro forme, ma più spesso creano una sorta di grottesco e mostruoso ibrido. Le immagini sono al tempo stesso repellenti e sensuali, quasi archetipiche, e il raffinato uso della luce e della composizione fa risaltare questa strana commistione di umano e di animale, sottolineando la sessualità allusa dalla scivolosa e umida pelle dei cefalopodi.

Poi gli animali cambiano, si moltiplicano, proliferano sui corpi delle modelle che sembrano sempre più offerte in sacrificio alla natura: anguille, rospi, rane, insetti, vermi ricoprono le donne di Amano, in composizioni sempre più astratte e surreali, ne violano gli orifizi, prendono possesso della loro fisicità.


Con il passare del tempo, la fotografia di Daikichi Amano rivela sempre di più il valore mitologico che la sottende. Le donne-uccello ricoperte di piume ricordano esplicitamente l’immaginario fantastico nipponico, ricco di demoni e fantasmi dalle forme terribili e inusitate, e la fusione fra uomo e natura (tanto vagheggiata nella filosofia e nella tradizione giapponese) assume i contorni dell’incubo e del surreale.

Mai volgare, anche quando si spinge fino nei territori tabù della rappresentazione esplicita dei genitali femminili, Amano è un autore sensibile alle atmosfere e fedele alla sua visione: non è un caso che, così pare, alla fine di ogni sessione fotografica egli decida di mangiare – assieme alle modelle e alla troupe – tutti gli animali già morti utilizzati per lo scatto, siano essi polpi o insetti o lucertole, secondo una sorta di rituale di ringraziamento per aver prestato la loro “anima” alla creazione della fotografia. Il mito è il vero fulcro dell’arte di Amano.


Le sue fotografie sono indubbiamente estreme, e hanno creato fin da subito scalpore (soprattutto in Occidente), riesumando l’ormai trito dibattito sui confini fra arte e pornografia: qual è la linea di separazione fra i due ambiti? È ovviamente impossibile definire oggettivamente il concetto di arte, ma di sicuro la pornografia non contempla affatto il simbolico e la stratificazione mitologica (quando si apre a questi aspetti, diviene erotismo), e quindi ci sentiremmo di escludere le fotografie di Amano dall’ambito della pura sexploitation. Andrebbe considerata anche la barriera culturale fra Occidente e Giappone, che pare insuperabile per molti critici,  soprattutto nei riguardi di determinati risvolti della sessualità. Ma nelle fotografie di Amano è contenuta tutta l’epica del Sol Levante, l’ideale della compenetrazione con la natura, il concetto di identità in mutamento, l’amore per il grottesco e per il perturbante, la continua seduzione che la morte esercita sulla vita e viceversa.


Le sue immagini possono sicuramente turbare e perfino disgustarci, ma di certo è difficile licenziarle come semplice, squallida pornografia.

Ecco il sito ufficiale di Daikichi Amano.

Lithopedion

All’inizio della gravidanza, il feto risiede per 2-5 giorni nella tuba di Falloppio prima di spostarsi nella cavità uterina. Ma a volte, per svariate cause, non riesce a raggiungere l’utero e rimane bloccato nella tuba, oppure si sposta in altra sede all’interno dell’addome. Si parla allora di gravidanza ectopica extrauterina, che comporta un rischio molto elevato di aborto spontaneo o di rottura della tuba.

Se il feto extrauterino muore, viene normalmente espulso oppure riassorbito dai tessuti circostanti. Ma se ha raggiunto uno stadio di sviluppo piuttosto avanzato, e lo scheletro si è già formato, potrebbe non riuscire ad essere smaltito in alcun modo dal corpo.

Il feto morto, qualora non venga rimosso chirurgicamente, può essere trattato dal corpo come un oggetto estraneo e fonte di pericolose infezioni: la strategia di difesa messa in atto dall’organismo per rendere innocuo l’ “intruso” è quindi quella di avvolgerlo a poco a poco in strati di calcio, come una perla in un’ostrica. Resi innocui dalla calcificazione, i feti possono rimanere in situ anche per anni. È il fenomeno noto con il nome di lithopedion, che significa letteralmente “bambino di pietra”.

Se già la gravidanza extrauterina è un’evenienza poco frequente  (1-2% su tutte le gravidanze), il lithopedion è ancora più raro perché si sviluppa dopo una serie straordinaria di “errori” dell’organismo.

In oltre 400 anni di letteratura medica sono stati registrati meno di 300 casi di lithopedion (e molti di questi si pensa fossero in realtà anomalie congenite); il più antico è stato rinvenuto durante uno scavo archeologico, e datato al XI secolo avanti Cristo. Il medico di Strasburgo Israel Spach, nel suo trattato Gynaeciorum del 1557, scriveva, sotto l’incisione rappresentante un lithopedion nel grembo aperto di una donna: “”Deucalione ha gettato dei sassi alle sue spalle e così dato forma alla nostra tenera razza dal duro marmo. Com’è possibile che oggi, al contrario, il tenero corpo di un piccolo bambino abbia degli arti in tutto simili alla roccia?”.

Considerati gli strumenti diagnostici odierni, non stupisce che la maggioranza degli sporadici casi registrati negli ultimi decenni provengano da paesi in via di sviluppo e da zone in cui la povertà e la poca istruzione contribuiscono al mancato riconoscimento del fenomeno. Il lithopedion può rimanere non diagnosticato per molti anni, perfino decenni. Qualche anno fa ha fatto scalpore il caso di Huang Yijun, donna cinese di 92 che ha portato nell’addome un feto calcificato per ben 60 anni: i medici all’epoca le avevano chiesto l’equivalente di 100 sterline per l’operazione di rimozione, una tariffa improponibile per la donna che aveva deciso di ignorare il tutto.

Ecco il link ad un accurato sito (in inglese) interamente dedicato al lithopedion: Stone Child. Un altro articolo approfondito sull’argomento (sempre in inglese) si trova su Doctor’s Review.

(Grazie, Daniela!)

Monkey Glands

Un celebre chirurgo (Max Thorek) ricordava in un’intervista che negli anni ’20 “i festini alla moda e le chiacchiere all’emporio, così come i tranquilli ritrovi dell’élite medica, erano ravvivati di colpo soltanto a sussurrare queste parole: ‘Monkey Glands’ “. Le ghiandole di scimmia di cui tutti parlavano erano il frutto del lavoro di un uomo, Serge Voronoff, che sarebbe  stato screditato da lì a breve e condannato dall’opinione pubblica come ciarlatano, salvo essere in parte riabilitato in anni recenti.


Serge Abrahamovitch Voronoff, nato nel 1866, era un chirurgo russo naturalizzato francese. Dal 1896 al 1910 lavorò in una clinica in Egitto, e si interessò agli effetti della castrazione sugli eunuchi; questi primi suoi studi lo appassionarono talmente che da allora dedicò l’intera sua carriera alle correlazioni fra gonadi e longevità.

In realtà, Voronoff era già da tempo convinto che negli ormoni sessuali si celasse il segreto dell’eterna giovinezza. Nel 1889, Charles Brown-Sequard, oggi ritenuto uno dei padri della moderna endocrinologia,  si era iniettato un estratto ricavato da testicoli di cane e di cavia finemente macinati, e ispirato dall’esperimento Voronoff aveva provato su di sé lo stesso bizzarro elisir di lunga vita. Purtroppo il siero non aveva avuto l’effetto sperato di aumentare drasticamente il livello di ormoni nel suo corpo.

Dopo la sua permanenza in Egitto, comunque, Voronoff divenne ancora più sicuro delle sue idee. Certo, le iniezioni si erano rivelate fallimentari, ma le nuove tecniche di trapianto messe a punto in quegli anni davano speranze ben più entusiasmanti. Per provare l’esattezza della sua teoria, Voronoff in dieci anni eseguì più di 500 operazioni su capre, pecore e tori, trapiantando testicoli di animali giovani su animali più vecchi. Secondo le sue osservazioni, il nuovo “set” di attributi aveva l’effetto di rinvigorire i vecchi animali, e Voronoff si convinse di avere scoperto un metodo per combattere e rallentare la senilità.


Così il chirurgo passò alla sperimentazione sull’uomo, trapiantando ghiandole tiroidi di scimmia su pazienti umani che mostravano deficienze tiroidee. Per un breve periodo si dedicò anche al trapianto uomo-uomo di testicoli di criminali appena giustiziati, ma le scorte erano difficili da reperire e non bastavano a soddisfare la domanda, quindi Voronoff si orientò verso le gonadi dei primati.

Ovviamente, nessun paziente voleva ritrovarsi con due testicoli di scimmia al posto dei suoi: il trapianto messo a punto da Voronoff prevedeva quindi che fossero inserite nello scroto soltanto delle sottili fettine di qualche millimetro di larghezza tagliate dai testicoli di babbuini e scimpanzé. Questo tessuto era talmente fino che in poco tempo si sarebbe fuso con quello umano, offrendo diversi vantaggi che avevano del miracoloso: aumento della memoria, diminuzione della fatica, miglioramento dei muscoli attorno agli occhi che avrebbero reso superflui gli occhiali, aumento dell’appetito sessuale, prolungamento della vita. Forse il trapianto, si azzardò a teorizzare Voronoff, avrebbe portato beneficio anche nel curare la schizofrenia.


Il primo trapianto ufficiale di una ghiandola di scimmia in un corpo umano avvenne il 12 giugno 1920. Tre anni dopo Voronoff veniva applaudito da una schiera di 700 chirurghi riuniti per il Congresso Internazionale di Chirurgia a Londra.


La tecnica di Voronoff ebbe un successo travolgente, e per i ricchi milionari di tutto il mondo sottoporsi all’operazione divenne una vera e propria moda: all’inizio degli anni ’30 migliaia di persone avevano ottenuto il trattamento, 500 solo in Francia. Per far fronte al vertiginoso aumento di domanda, Voronoff aprì una fattoria di scimmie in una villa a Grimaldi, frazione di Ventimiglia, affidata ad un allevatore di animali che aveva lavorato per anni nel circo.

La villa era anche attrezzata con un laboratorio per il prelievo dei tessuti. Ecco una rara foto di un parto assistito dai chirurghi di Voronoff.

E le donne? Non avevano anche loro diritto a una nuova giovinezza?
Il tanto richiesto trapianto di ovaie di scimmia non tardò ad arrivare. Voronoff provò anche l’esperimento contrario: impiantò un’ovaia umana in una scimmia, e tentò di inseminarla con sperma umano. Purtroppo, o per fortuna, non successe nulla.

La fama e il successo di Voronoff erano alle stelle, tanto che egli risiedeva in uno degli hotel più costosi di Parigi, presso il quale aveva riservato l’intero primo piano per sé e per il suo entourage di maggiordomi, valletti, segretarie, autisti, e ben due capi del personale. Le ghiandole di scimmia entrarono a far parte della cultura dell’epoca: venivano citate dai fratelli Marx così come dal grande poeta E. E. Cummings; si vendevano posaceneri adornati di scimmie che si proteggevano i genitali, con la scritta “No, Voronoff, non mi avrai!”; in un bar di Parigi venne inventato un cocktail a base di gin, succo d’arancia, granatina e assenzio chiamato Monkey Gland.


Ma la fortunata carriera del chirurgo volgeva al termine. Si fecero sentire le prime proteste, quando si cominciò a capire che i trapianti non avevano le virtù pubblicizzate: molti chirurghi si schierarono contro l’utilizzo delle ghiandole, dichiarando che qualsiasi miglioramento era dovuto all’effetto placebo.

Nel 1935 in Olanda venne per la prima volta isolato il testosterone, l’ormone prodotto dai testicoli. Voronoff esultò, perché da sempre sosteneva che dovesse esserci una sostanza prodotta dalle ghiandole sessuali: l’iniezione di tale ormone avrebbe reso inutile il trapianto chirurgico, ma avrebbe anche finalmente confermato le sue teorie. Con suo grande disappunto, gli esperimenti di iniezioni a base di testosterone non risultarono affatto in un ringiovanimento e rafforzamento del corpo umano.


Negli anni ’40 a poco a poco il trattamento di Voronoff venne screditato dai medici, che lo bollarono come “non distante dai metodi di streghe e maghi”. Voronoff morì nel 1951 a seguito di una caduta, e pochi giornali pubblicarono la notizia, se non per ridicolizzare un’ultima volta le sue idee.

Oggi la comunità scientifica ha in parte rivisto la propria posizione sugli esperimenti e le teorie di Voronoff, dato che alla luce delle conoscenze odierne (in particolare sull’azione di barriera immunitaria delle cellule del Sertoli contenute nei testicoli e oggi usate in alcuni trapianti per evitare il rigetto) le intuizioni del chirurgo non sembrano più così completamente prive di fondamento.

Eppure c’è anche chi ha lanciato un’ombra ancora più grande sulla figura di Voronoff, suggerendo che egli sia stato l’inconsapevole responsabile di uno dei flagelli del nostro tempo: potrebbero essere stati proprio i suoi trapianti ad avere permesso il passaggio del virus HIV dalle scimmie all’uomo.

(Grazie, Elisa!)