Negli ultimi trent’anni Jack Burman ha esplorato il mondo alla ricerca dei morti. Da quando, negli anni ’80, ha visitato le catacombe dei Cappuccini a Palermo, la sua arte è divenuta instancabilmente concentrata sull’esplorazione di ciò che rimane del corpo dopo la morte.
Dal Sud America all’Italia, dalla Spagna alla Francia e alla Germania, Burman ha visitato luoghi sacri, musei di anatomia, obitori e scuole di medicina; in ognuno di questi luoghi ha fotografato quei morti che al tempo stesso “riposano” e “non riposano”, poiché le loro spoglie sono ancora visibili e intatte, che siano delle mummie o delle reliquie, o dei preparati conservati per lo studio medico.
L’approccio di Burman a questo soggetto macabro ed estremo è di grandissimo rispetto: spesso inquadrati di fronte a un backdrop nero, sapientemente illuminati, questi resti umani acquistano una nobiltà e un’astrazione inaspettate. La testa di una donna è racchiusa in un vaso di vetro: i suoi occhi socchiusi, la serenità dell’espressione, l’immobilità della carne le donano un’aura quasi sacra; questa donna ha conosciuto il segreto, è passata dall’altra parte e la sua seraficità ci parla di una conoscenza per noi irraggiungibile. Sarebbe facile parlare di memento mori – eppure forse c’è di più. Di fronte agli scatti di Burman, paradossalmente, il sentimento che proviamo non è quello della morte che conquista ogni cosa: non assistiamo alla decomposizione che annulla ogni speranza, ma siamo invece confrontati con un concetto forse ormai fuori moda – la dignità.
Le fotografie di Burman ci mostrano con estrema compassione la bellezza e il dramma dell’uomo, fissate per sempre nell’istante ultimo. Impossibile non immaginare le aspirazioni, le passioni, la vitalità dei soggetti ritratti: e le composizioni del fotografo sembrano perpetuare questa forza vitale, come se i morti fossero ancora in grado di parlarci della vita quaggiù, delle nostre stesse esistenze, piccole ma commoventi, in cui lo splendore e la miseria sono le due facce dell’identica medaglia. Più si guardano queste fotografie, e più cresce forte la sensazione di essere guardati. E chi ha attraversato la soglia forse ha elementi in più, ha per così dire un quadro più completo – ma il suo mistero è inaccessibile, e Burman immortala questi “resti”, cosciente di fotografare uno scrigno che non potrà mai essere aperto.
Ecco le nostre cinque domande a Jack Burman.
1. Perché hai deciso che era importante raffigurare la morte nei tuoi lavori fotografici?
Sebald ha scritto che “la fisicità è scolpita più fortemente, e la sua natura diviene più percettibile nell’indistinto confine con la trascendenza”. Io cerco di lavorare vicino al corpo e porre il mio lavoro proprio su quel confine.
2. Quale credi che sia lo scopo, se ce n’è uno, delle tue fotografie post-mortem? Stai soltanto fotografando i corpi, o sei alla ricerca di qualcos’altro?
Una parte di questa domanda trova già risposta nella prima. Fammi aggiungere questo: io cerco di trovare una parte della presenza del corpo. La forza del danno e della perdita. La durezza e i moti del tempo che si depositano sulla (e sotto la) pelle. Il sentimento.
3. Come succede per tutto ciò che mette alla prova il nostro rifiuto della morte, il tono macabro e sconvolgente delle tue fotografie potrebbe essere visto da alcuni come osceno e irrispettoso. Ti interessa scioccare il pubblico, e come ti poni nei riguardi della carica di tabù presente nei tuoi soggetti?
Ricordi i capelli della ragazza all’inizio di Dell’amore e di altri demoni di Garcia Marquez? I capelli sono le orecchie, gli occhi, i nervi della ragazza. Così ciascuna mano, ed il volto. Quando entro nella sfera privata dei morti, lo faccio con un lento e forte rispetto per le loro mani, braccia, spalle e occhi. I pochi collezionisti che comprano le mie stampe (o il mio libro) per portarle fra le loro mani e nelle loro stanze – almeno quelli che conosco – vedono le cose con lo stesso rigore.
4. È stato difficile approcciare i cadaveri, a livello personale? C’è qualche aneddoto particolare o interessante riguardo le circostanze di una tua foto?
No, non è stato mai difficile.
Tempo fa, il mio lavoro mi portò in una cittadina sulle Ande Peruviane. Ogni mattino, all’alba, una mandria di alpaca veniva condotta al pascolo attraverso uno stretto vicolo proprio dietro al muro contro il quale stava il mio letto. Il loro movimento attraversava il muro e faceva vibrare il letto. Era interessante poi alzarsi e andare a lavorare con dei cadaveri del 1500.
5. Riguardo alle foto post-mortem, ti piacerebbe che te ne venisse scattata una dopo che sei morto? Come ti immagini una simile foto?
Sì, mi piacerebbe, a condizione che la persona che la scatterà sia capace di vedere attraverso i miei occhi, il mio passato, i miei bisogni.
La immagino pulita; scura; danneggiata; semplice; punteggiata dalla luce.
Questo è il sito ufficiale dell’artista. Il suo libro fotografico The Dead può essere acquistato sul sito di Magenta.
Potresti mettere la didascalia della foto del morto dentro una cassa con feluche? C’è un brutto film dell’orrore (Imago Mortis) in cui si racconta di un “tanatoscopio” che fisserebbe l’mmagine vista dal morto nell’istante della morte
Non ho capito bene: che didascalia dovrei mettere?
Riguardo a Imago Mortis, il regista del film Stefano Bessoni (frequentemente “ospitato” su Bizzarro Bazar) ha più volte spiegato come le ingerenze della produzione abbiano interferito con la sua visione. Forse un film in parte sfortunato, ma di certo visivamente ricco e dai rimandi culturali complessi: a mio parere i brutti film sono altri. 🙂
in realtà mi interessava sapere chi fosse il morto, perché avesse in testa quelle feluche e cose simili. per il film, capisco quello che vuoi dire, però io ho visto solo la versione che è risultata dalle intereferenze delle produzione.non è che manchino le idee interessanti e scelte raffinate, però il risultato è un po’ monco, a parer mio.
Se ti interessa il titolo della foto, è “Sicily #12”.
questi articoli sul fotografare la morte sono incredibili. non sarei riuscita ad approfondire l’argomento, non ci avrei neanche pensato. invece esistono artisti capaci di guardare e di cercare qualcosa che non è tabù né visione sconvolgente in quanto oscena o spaventosa. queste foto aprono un discorso parallelo, che in genere in molti si rifiutano di affrontare, di considerare.
è stata una scoperta sconvolgente perché oltre i limiti e continua ogni volta ad esserlo.
Sono felice che ti abbiano impressionata e intrigata, kuroko! 😉
ciao Ivan, grazie per questo tuo bel post ! inutile dire che sono appena andato a comprarmi il libro … e così ne approfitto anche per farti un saluto 🙂 Ale (Nautilus)
Ciao Ale, che piacere leggerti. Spero vada tutto bene lì da te… Non ho ancora avuto la possibilità di passare a visitare Obsoleto a Modena (per chi non lo sapesse, la nuova incarnazione del Nautilus di Torino): ecco il mio buon proposito per l’anno prossimo! 😉
E che non faccia la stessa fine di tutti i buoni propositi per il nuovo anno !! 😉 un abbraccio e spero a presto
11 Dicembre 2012
Noto che le fotografie della Morte, pur fatte molto bene, si riferiscono a soggetti, diciamo così abbastanza presentabili.Ho avuto modo di vedere altre fotografie dove non vi era alcuna trascendenza o spiritualità, anzi in molte solo grande dolore se non terrore , non so se fisico o metafisico. Raramente ho visto quella serenità mostrata dall’Autore, in alcune immagini almeno se non in tutte. Non vedo i segni dell’agonia, della lotta inconscia ma reale nel trattenere l’ultima fiammella di vita. Probabimente non ho compreso a fondo il ” senso ” della Morte come fine di tutto o inizio di una vita ……diversa ? Certo un’ esperienza positiva o negativa con un suo …..fascino, che prima o poi avremo modo di conoscere tutti.
Chi può dire di aver compreso il “significato” della morte?
Il senso di trascendenza che avverti nelle foto scaturisce chiaramente dalla poetica dell’autore: gli stessi corpi avrebbero potuto facilmente essere “drammatizzati” con un uso più espressionista della luce. Quello che interessa a Burman è evidentemente un mistero pacato, comune a tutti eppure distante dalla nostra percezione. Il centro della sua riflessione, per come la vedo io, non è sull’agonia e la sofferenza, che tutti possiamo immaginare: è ciò che viene dopo il vero enigma, l’inimmaginabile (“ciò per cui non esistono immagini”), quello per cui la nostra mente non ha rappresentazioni adeguate.
mi interessa l’argomento, ma non condivido le opinioni dell’artista
nelle foto post mortem non c’è dignità, a mio avviso, che può essere solo nei vivi, i quali possono aver espresso la loro volontà a a essere immortalati, possono decidere, pensare, guardarti…gli occhi dei cadaveri non guardano. Forse i defunti vedono con gli occhi dell’anima, ma questo è un altro discorso, insondabile anche x i crededenti nell’aldilà.
il corpo vivo ha dignità, svolge la funzione per cui è stato creato, e cioè sopravvivere, il nostro fine non è quello di decomporci.
quella dell’ artista è nella migliore delle ipotesi 1 forma di tanatofobia che mira a esorcizzare la paura dell’inevitabile, nella peggiore una necrofilia a livello teorico.
La materia che lui ritrae sono tessuti che si atrofizzano, cellule che muoiono, i componenti dovrebbero servire a nutrire altri organismi e fare compostaggio, invece sono mummificati o sotto formalina, cosi ci si illude, mantenendoli incorrotti che abbiano ancora dignità e non siano solo materia in putrefazione. Non sò se l’anima vive, ma il corpo marcisce
Questo, e pochi altri, articolo mi mancava: semplicemente splendido! Grande Ivan!
Grazie Livio! 😉
bizzarrobazar: Ho fatto un nuovo libro: The Dead (Vol.II) – Toronto: Andora, 2016. Le parti di esso sono stati fotografati nelle magnifiche collezioni del vostro paese. JB
Splendido e poetico. Come da miglior tradizione di Bizzarro