Intervista sul sesso estremo

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Come sapete, da settembre dello scorso anno Bizzarro Bazar ha l’onore di compilare ogni mese una rubrica fissa sulla splendida rivista Illustrati di Logos Edizioni.

Confessiamo che il tema del numero di febbraio, “l’arte della gioia e l’amore”, ci aveva posto qualche problema, visto che questo è un blog che si occupa principalmente del macabro e del meraviglioso. Alcune strane storie d’amore le abbiamo già affrontate (ad esempio qui), e non era il caso di ripetersi.

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Dunque, per celebrare San Valentino con il giusto gusto per il bizzarro, abbiamo pensato di intervistare Ayzad, una delle massime autorità italiane in campo di sesso estremo, BDSM e sessualità alternative, autore di BDSM – Guida per esploratori dell’erotismo estremo (2004-2009, Castelvecchi) e di XXX – Il dizionario del sesso insolito (2009 – Castelvecchi), entrambi testi consigliati dall’Associazione Italiana di Sessuologia e Psicologia Applicata e dall’Istituto di Evoluzione Sessuale.

L’intervista esclusiva affronta temi succulenti come la dipendenza da sesso, i rapporti di dominazione/sottomissione, passando per l’orgasmo dei ravanelli, i matrimoni gay e i danni provocati da Cinquanta sfumature di grigio. Il tutto condito con l’ironia e l’arguzia a cui Ayzad ha abituato i suoi lettori.

Illustrati è scaricabile in PDF e consultabile online sul sito ufficiale, e sarà disponibile gratuitamente nelle librerie dai primi di febbraio. Il sito ufficiale di Ayzad è invece un must per approfondire alcuni degli argomenti di cui abbiamo chiacchierato assieme.

Il Museo Criminologico di Roma

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Nella seconda metà dell’800, in Europa e in Italia, divenne sempre più evidente la necessità di una riforma carceraria; allo stesso tempo, e grazie agli intensi dibattiti sulla questione, crebbe l’interesse per lo studi delle cause della delinquenza, e dei possibili metodi per curarla. Mentre quindi la Polizia Scientifica muoveva i primi passi, il grande criminologo Cesare Lombroso studiava le possibili correlazioni fra la morfologia fisica e l’attitudine al delitto, e grazie a lui prendeva vita il primo, grande museo di antropologia criminale a Torino.

A Roma, invece, si dovette aspettare fino al 1931 perché potesse aprire al pubblico il “Museo Criminale”, che ospitava la collezione di reperti utilizzati precedentemente per gli studi della scuola di Polizia scientifica. Il Museo ebbe poi fasi e fortune alterne, tanto da venire chiuso nel 1968, e riaperto solo nel 1975 con la nuova denominazione “MUCRI – Museo criminologico”. La nuova sede, all’interno delle carceri del palazzo del Gonfalone, è quella in cui il Museo si trova ancora oggi. Dalla fine degli anni ’70 il museo è stato nuovamente chiuso per quasi vent’anni, per riaprire al pubblico nel 1994.

Il Museo oggi conta centinaia di reperti, divisi in tre grandi sezioni: la Giustizia dal Medioevo al XIX secolo, l’Ottocento e l’evoluzione del sistema penitenziario, il Novecento e i protagonisti del crimine.

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La prima sezione, che ripercorre i metodi di punizione e di tortura in uso dal Medioevo fino al XIX secolo, è ovviamente la più impressionante. Dalle asce per decapitazione cinquecentesche, alle gogne, ai banchi di fustigazione, alle mordacchie, agli strumenti di tortura dell’Inquisizione, tutto ci parla di un’epoca in cui la crudeltà delle pene eguagliava, se non addirittura superava, quella del crimine stesso. Fra gli oggetti esposti segnaliamo la tonaca del celebre boia pontificio Mastro Titta, la spada che decapitò Beatrice Cenci, una forca e tre ghigliottine (fra cui quella in uso a Piazza del Popolo fino al 1869).

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Nella seconda sezione, dedicata all’Ottocento, troviamo traccia della nascita dell’antropologia criminale, e dell’evoluzione del sistema carcerario. Possiamo vedere il calco del cranio del brigante Giuseppe Villella (su cui Lombroso scoprì nel 1872 la “prova” della delinquenza atavica: la “fossetta occipitale mediana”); lo spazio dedicato agli attentati politici espone, tra l’altro, il cranio, il cervello e gli scritti dell’anarchico lucano Giovanni Passannante, che attentò alla vita del re Umberto I a Napoli, nel 1878. Ugualmente impressionanti il letto di contenzione e le camicie di forza che testimoniano la nascita dei manicomi criminali.

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Ma forse la parte più sorprendente è quella delle cosiddette “malizie carcerarie”, ovvero i sotterfugi con cui i detenuti comunicavano tra di loro, occultavano armi o inventavano sistemi per evadere o compiere atti di autolesionismo. Un’estrema inventiva che si tinge di toni tristi e spesso macabri.

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L’ultima sezione, quella dedicata ai grandi episodi di cronaca nera del Novecento, è una vera e propria wunderkammer del crimine, dove decine e decine di oggetti e reperti sono esposti in un percorso eterogeneo che spazia dagli anni ’30 agli anni ’90. Una stanza ospita armi e indizi trovati sulla scena dei delitti italiani fra i più celebri, come ad esempio quelli perpetrati da Leonarda Cianciulli, la “saponificatrice di Correggio”; tra gli altri, sono esibiti gli oggetti personali di Antonietta Longo, la “decapitata di Castelgandolfo”, le armi della banda Casaroli, la pistola con cui la contessa Bellentani uccise il suo amante durante una sfarzosa serata di gala. Vi si trovano anche materiali pornografici sequestrati (quando erano ancora illegali), ed esempi di merce di contrabbando, inclusi numerosi quadri ed opere d’arte.

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Altre vetrine interessanti ripercorrono le testimonianze relative alla criminalità organizzata, al banditismo (con oggetti appartenuti a Salvatore Giuliano), al terrorismo, e a tutte le declinazioni possibili del crimine (furti, falsi, giochi d’azzardo, ecc.). Nella sezione dedicata allo spionaggio si può ammirare uno splendido e curioso baule dentro il quale fu rinvenuto, dopo un rocambolesco inseguimento, un piccolo ometto seduto su un seggiolino, legato con le cinghie e avvolto da coperte e cuscini. Si trattava di una spia che cercava di imbarcarsi clandestinamente all’aeroporto di Fiumicino.

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Il Museo Criminologico si trova in Via del Gonfalone 29 (una laterale di Via Giulia), ed è aperto dal martedì al sabato dalle ore 9 alle 13; martedì e giovedì dalle 14.30 alle 18.30. Ecco il sito ufficiale del MUCRI.

AGGIORNAMENTO: dal 01 giugno 2016 il MUCRI è chiuso, e non è stata comunicata una data di riapertura.

Lenore, la piccola e carina bambina morta

Articolo a cura della nostra guestblogger Veronica Pagnani

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Lenore è una piccola e tenera bambina morta di polmonite, all’età di 10 anni, all’inizio del XX secolo.

Lenore, non si sa bene come, è anche riuscita a tornare nel mondo dei vivi dopo un giretto all’inferno.

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Lenore ora vive felicemente in una villa (ovviamente bellissima e tetra, giusto per restare in tema), nella città di Nevermore, coi suoi amici. Anche loro per la maggior parte morti.

Ragamuffin, ad esempio, è un vampiro trasformato in pupazzo da una strega cattiva, che passa le sue giornate perdendo bottoni e filo; Mr. Gosh invece, è il corteggiatore romantico e dal volto decomposto (che copre decorosamente con una busta di carta), e che Lenore regolarmente percuote ed offende.

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In realtà Lenore non è nient’altro che un fumetto, scritto da Roman Dirge, e pubblicato nel 1992 per la prima volta nella rivista americana indipendente Xenophobe. Il successo dei primi piccoli sketch è stato tale da portare, in seguito, anche alla creazione di cortometraggi animati per la Sony’s ScreenBlast.

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Ma come è riuscito Lenore, fumetto goth tra i tanti, a rimanere così impresso nei cuori di innumerevoli appassionati? Sicuramente la crudeltà mai gratuita, il velo d’ingenuità di cui si copre ogni assassinio della nostra eroina che, non dimentichiamoci, alla fine rimane pur sempre una bambina curiosa come tante altre.

O quasi.

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Anche le religioni muoiono. Un tempo il mazdeismo o zoroastrismo, fondato sugli insegnamenti di Zarathustra, il profeta che nacque ridendo, era la religione più diffusa al mondo, la principale nell’area mediorientale prima che vi si affermasse l’Islam. Oggi invece i seguaci sono meno di 200.000, e il numero continua a diminuire anche a causa della chiusura dell’ortodossia verso i non-credenti, tanto che nei prossimi decenni questa fede potrebbe addirittura scomparire. Attualmente sono i Parsi, emigrati secoli fa dall’Iran  verso l’India, a mantenerne vivi i precetti.

Religione eminentemente monoteistica, il mazdeismo fa del dualismo fra bene e male la sua principale caratteristica: all’uomo è chiesto di scegliere fra la via della Verità e quella della Menzogna, tra la giustizia e l’ingiustizia, tra la luce e le tenebre, tra l’ordine e il disordine. Il puro, dunque, dovrà essere attento a non essere contaminato in nulla da azioni, oggetti o pensieri malvagi. Proprio per questo gli zoroastriani hanno elaborato un particolare rito funebre, volto a limitare e tenere distanti gli effetti nefasti della morte sui viventi.

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Il cadavere è, infatti, impuro, perché appena dopo la morte viene invaso da demoni e spiriti che rischiano di contaminare non soltanto gli uomini retti, ma anche gli elementi. Non è possibile dunque cremare il corpo di un defunto, perché il fuoco – che è elemento sacro – ne sarebbe infettato; sotterrarlo, d’altra parte, porterebbe a un inquinamento della terra.

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Così gli zoroastriani costruiscono da secoli un tipo speciale di struttura, chiamata dakhma, o “torre del silenzio”. Si tratta di una impalcatura di legno e argilla, talvolta simile a una vera e propria torretta, alta fino a 10 metri circa. La piattaforma superiore, dalla circonferenza rialzata e inclinata verso l’interno, è suddivisa in tre cerchi concentrici, talvolta suddivisi in celle, e ha al suo centro un’apertura o un pozzo.

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Qui i cadaveri vengono disposti da speciali addetti, i Nâsâsâlar (letteralmente, “coloro che si prendono cura di ciò che è impuro”), gli unici che hanno la facoltà di toccare i morti: gli uomini vengono sistemati nel cerchio esterno, le donne in quello mediano e i bambini in quello più interno.

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Lì vengono lasciati in pasto agli avvoltoi e ai corvi (che normalmente li divorano nel giro di tre o quattro ore) e rimangono sulla dakhma anche per un anno, finché le loro ossa non siano state completamente ripulite e sbiancate dagli uccelli, dal sole e dalla pioggia. Le ossa vengono infine gettate nel pozzo centrale, dove la pioggia e il fango le disintegreranno a poco a poco, facendo filtrare attraverso strati di carbone e sabbia quello che resta del corpo, prima di restituirlo alla terra e, ove possibile, al mare, tramite un acquedotto sotterraneo.

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Il rituale delle torri del silenzio è oggi sempre più a rischio a causa di due enormi problemi: la sovrappopolazione e la scarsità di avvoltoi. Il numero sempre maggiore di cadaveri costringe a gettare nel pozzo centrale anche i corpi non ancora interamente decomposti, causando un intasamento che comporta evidenti problemi igienici, soprattutto se si pensa che a Mumbai il parco funebre sta sulla collina residenziale di Malabar Hill, a meno di trecento metri dai primi caseggiati. Nonostante la comunità Parsi abbia stanziato 200.000 euro l’anno per l’acquisto e l’allevamento di avvoltoi specificamente addestrati, sono sempre più numerosi i fedeli che optano per il cimitero o la cremazione.

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Attualmente esistono all’incirca sessanta dakhma attive, a Mumbai, Pune, Calcutta, Bangalore e nello stato del Gujarat. Ma questa antica tradizione potrebbe presto scomparire: troppo lunga e troppo poco pratica.

(Grazie, Francesco!)

Very Heavy Metal

Compressorhead

Ecco a voi la band di heavy metal più pesante del mondo: i Compressorhead, che tutti assieme vengono stimati attorno alle 6 tonnellate.

Stickboy, il batterista, ha calcato le scene per la prima volta nel 2007. Come recita il sito ufficiale, “ha 4 braccia, 2 gambe, 1 testa e nessun cervello”. Nel 2009 ha conosciuto Fingers, il chitarrista, che con le sue 78 dita meccaniche è in grado di suonare qualsiasi nota sul manico della sua chitarra elettrica. Ma la band l’anno scorso si è arricchita di un altro elemento fondamentale, Bones – il bassista più preciso del pianeta. Eccoli nella loro sala prove, durante la preparazione di un nuovo pezzo.

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I Compressorhead sono essenzialmente una cover band, e ripropongono brani celebri dell’hard rock e dell’heavy metal, riarrangiati secondo le loro strabilianti doti di esecuzione e, soprattutto, di spettacolarità sul palco. Ecco Stickboy e Fingers (Bones non era ancora nato!) durante una loro esibizione televisiva.

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I Compressorhead, che nel 2013 saranno in tour in Australia, sono stati realizzati dalla casa tedesca Robocross. Ecco il sito ufficiale della band.

Bruno di mummia

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Il bruno di mummia era un colore marrone ambrato tendente all’ocra, che ricordava per l’appunto la pelle o i bendaggi delle mummie egiziane: pigmento ricco e bituminoso, prodotto fin dal XV e XVI secolo, era tra i colori preferiti della Confraternita dei Preraffaelliti, la corrente pittorica ottocentesca simbolista e decadente.

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Il colore non era scevro da qualche difetto. La sua composizione e qualità variava considerevolmente di partita in partita ed inoltre, poiché era piuttosto grasso, poteva intaccare i colori circostanti. Nonostante questi piccoli inconvenienti, la fortuna del bruno di mummia però sembrava destinata a proseguire a lungo.

Finché proprio alcuni pittori preraffaelliti non si accorsero con orrore di come il pigmento veniva preparato.

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Il nome “bruno di mummia” nascondeva molto più che un’allusione all’Egitto antico: l’ingrediente di base del colore erano proprio delle autentiche mummie, umane e feline, fatte a pezzi e macinate diligentemente dai produttori di tinture; la polvere veniva poi unita a pece bianca (una resina d’abete utilizzata nella preparazione di vernici) e mirra. Nonostante l’alto prezzo della “materia prima”, che andava disseppellita dai profanatori di tombe e importata in Europa, l’affare era vantaggioso: un produttore londinese dichiarò di poter soddisfare le richieste dei suoi clienti per ben vent’anni a partire da una singola mummia.

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Il commercio delle mummie dall’Egitto – per scopi medicinali, magici o altro – era florido da secoli; ma scoprire di aver dipinto per anni, a loro insaputa, con un “estratto” di antichi cadaveri disgustò e sconvolse, comprensibilmente, le anime sensibili dei pittori ottocenteschi. Quando nel 1881 Lawrence Alma-Tadema (famoso per le sue scene romantiche e decadenti ambientate a Pompei e, guarda caso, nell’antico Egitto) vide il suo preparatore di vernici macinare davanti ai suoi occhi un pezzo di mummia, allertò di corsa il suo collega, Edward Burne-Jones. I due, presi dal rimorso, organizzarono assieme ad alcuni membri delle loro famiglie un simbolico funerale, durante il quale diedero finalmente degna sepoltura… a un tubetto di bruno di mummia.

Nella prima metà del XX secolo la scorta di mummie comunque venne ad esaurirsi, così si cercò di sostituire l’ingrediente segreto con qualcosa di più economico – e soprattutto, meno controverso. Oggi il colore esiste ancora, ma la caratteristica tonalità ambrata gli viene donata dall’ematite. Nel 1964 Time Magazine riportava  le parole, nostalgiche e rassegnate, di Geoffrey Roberson-Park, direttore dell’antica ditta di colori Roberson di Londra: “Può essere che abbiamo ancora qualche arto, magari spaiato, che giace da qualche parte. Ma non è abbastanza per produrre ancora del colore. L’ultima nostra mummia intera, l’abbiamo venduta…”

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(Scoperto via The Oddment Emporium.)

Special: Photographing Death – III

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Joel-Peter Witkin is considered one of the greatest and most original living photographers, who has risen over the years to become a true legend of modern photography. He was born in Brooklyn in 1939, to a Jewish father and a Catholic mother, who separated because of the irreconcilability of their religious positions. From a young age, therefore, Witkin knew the profound influence of the dilemmas of faith. As he repeatedly recounted, another pivotal episode was witnessing a car accident as a child going to mass one day with his mother and brother; in the confusion of sheet metal and shouting, little Joel suddenly found himself alone and saw something rolling toward him. It was the head of a young girl. Joel bent down to caress her face, talk to her and soothe her, but before he could reach out a hand, someone took him away. This seminal anecdote already contains some of what would become true thematic obsessions for Witkin: spirit, compassion for suffering, and the search for purity through overcoming what frightens us.

After graduating with a degree in the arts, and beginning his career as a war photographer in Vietnam, in 1982 Witkin obtained permission to take some photographs of anatomical preparations, and was loaned a longitudinally dissected human head for 24 hours. Witkin decides to place the twin halves in the act of kissing: the effect is destabilizing and moving, as if the moment of death were an extreme reconciliation with the self, a recognition of one’s divine part and finally loving it without reservation.

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The Kiss is the shot that makes the photographer suddenly famous, for better or worse: while some critics immediately understand the powerful emotional charge of the photograph, many cry scandal, and the University itself, upon discovering his use of the preparation, decides that Witkin is persona non grata. He therefore moves to New Mexico, where he can at any time cross the border and thus circumvent the stringent American laws on the use of corpses. From that moment on, Witkin’s work focuses precisely on death, and on the “different.”

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Working with corpses or body parts, with models who are transsexual, mutilated, dwarfed, or suffering from various deformities, Witkin creates baroque compositions with a clear pictorial matrix (prepared with maniacal precision from sketches and sketches), often reinterpreting great works by Renaissance masters or important religious episodes.

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Witkin Archive Shot rigorously in the studio, where every minute detail can be controlled at the artist’s leisure, the photographs are then further worked on in the development stage, in which Witkin intervenes by scratching the surface of the photos, drawing on them, ruining them with acids, cutting and reworking them according to a variety of techniques to achieve his unmistakable “antiqued” black and white in the manner of an old daguerreotype.

Despite the rough and extreme subjects, Witkin’s gaze is always compassionate and “in love” with the sacredness of life. Even the confidence that his subjects accord him, in being photographed, is precisely to be attributed to the sincerity with which he searches for signs of the divine even in the unfortunate or different physiques: Witkin has the rare gift of bringing out an almost supernatural sensuality and purity from the strangest and most twisted bodies, capturing the light that seems to emanate precisely from the suffering they have experienced. What is even more extraordinary, he does not need the body to be alive to see, and photograph, its blinding beauty.

Here are our five questions to Joel-Peter Witkin.

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1. Why did you decide it was important for you to depict death in your photographic work?

Death is a part of everyone’s life. Death is also the great divider of human belief to secular’s — it is the timeless nod, to the religious, it is eternal life with God.

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2. What would you say is the purpose, if any, of your post-mortem photography work? Are you just photographing the bodies, or do you seek something more?

To photograph death and human remains is “holy work”.  What and whom I photograph is truly ourselves. I see beauty in the specimens I photograph.

joel-peter-witkin-1996 3. As with all things that challenge our denial of death, the macabre and unsettling tone of your pictures could be regarded by some as obscene and disrespectful. Were you interested in a particular shock value, and how do you feel towards the taboo nature of your subject?

The great paintings and sculpture of the past have always dealt with death. I like to say that “Death is like lunch—it’s coming!”. Before, people were born and died in their homes. Now we are born and die in institutions. We wear numbers on our wrists. We die alone.
So, of course, people now are shocked at seeing, in a sense, themselves. I believe nothing should be taboo. In fact when I am privileged to photograph death, I am usually very touched by the spirit still present in people.

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4. Was it difficult to approach the corpses, on a personal level? Are there any particular and interesting anecdotes regarding the circumstances of some of your photographs?

When I photographed Man Without a Head  (a dead man sitting in a chair at a morgue whose head had been removed for research), he was wearing black socks. That made it a little more personal. The doctor, his assistant and I lifted this dead man from the dissecting table and placed the body on the steel chair. I had to work with the dead man, in that I had to balance his arms so that he didn’t fall onto the floor. The floor in the photograph was covered with the blood that streamed out of his neck where the head had been removed  I was grateful to him for working with me.

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5. Would you like a post-mortem picture be taken of you after you die? How would you like to imagine that photo?

I have already made arrangements to have my organs removed after my death in order to help the living. Whatever remains will be buried at a military cemetery since I am an army veteran. Therefore, I will miss the opportunity you have asked about!

P.S. [Referencing this blog’s motto] I don’t want to “keep the world weird” —I want to make it more loving!

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Buon 2013!

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Ecco che si conclude un altro giro del nostro piccolo pianeta attorno alla sua stella, il Sole, e ne comincia uno nuovo, pieno di speranze, bellezza e strane meraviglie. Si vuotino gli otri, s’alzino i boccali e si dia inizio ai baccanali!

A chi, come noi, ha fatto della curiosità sacerdozio e dello stupore una filosofia di vita, dedichiamo questo video in cui Richard Feynman (fisico premio Nobel, bonghista, scassinatore di serrature, scrittore e cantastorie… nonché uno dei nostri eroi) ci spiega come lo stesso calice di vino con cui brindiamo l’anno nuovo sia ricolmo di misteri e appassionanti domande.

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E, visto che parliamo di spunti di ispirazione, ecco la risposta di Bertrand Russell a chi gli chiedeva quali concetti valesse la pena tramandare alle generazioni future. Il pensatore, logico e matematico gallese distilla qui, con la gentilezza che lo contraddistingue, tutto il suo straordinario percorso filosofico in due concisi, semplici consigli: sarebbe bello se l’umanità intera, ad ogni capodanno, li includesse nella lista di buoni propositi per l’anno a venire. (Nota: attivate i sottotitoli nel video se non li vedete automaticamente)

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Auguri a tutti da Bizzarro Bazar!