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Monthly Archives: April 2013
Museo dell’Arte Sanitaria
Del Museo Storico Nazionale dell’Arte Sanitaria avevamo già parlato molto brevemente nella nostra vecchia serie di articoli sui musei anatomici italiani; torniamo ad occuparcene, un po’ più approfonditamente, perché si tratta a nostro avviso di una piccola perla nascosta e in parte dimenticata, inspiegabilmente più famosa all’estero che da noi – tanto che la maggior parte dei visitatori sono stranieri.
Il museo, fondato nel 1933, si trova in un’ala dell’Ospedale Santo Spirito in Sassia, a Roma, e si propone di illustrare la lunga strada che la medicina, la farmacologia e la chirurgia hanno percorso dall’antichità ad oggi, tramite reperti e ricostruzioni straordinarie.
Entrando nella Sala Alessandrina, si possono ammirare le tavole anatomiche colorate di Paolo Mascagni, incluse alcune a grandezza naturale che mostrano i vari sistemi (linfatico, muscolare, circolatorio, osseo). Si salgono le scale, e ci si ritrova immediatamente in quella che è forse la stanza più spettacolare dell’intero museo, la sala Flajani.
Qui sono esposti alcuni impressionanti preparati anatomici, a secco e in formalina, di diverse malformazioni natali: dalle lesioni ossee provocate dalla sifilide, al fenomeno dei gemelli siamesi, dalla macrocefalia alla bicefalia, e via dicendo.
Scheletri fetali, feti mummificati o sotto liquido, sono presentati assieme a una magnifica collezione di cere anatomiche, tra la quali spiccano la serie di studi ostetrici sulle varie fasi dello sviluppo prenatale (anomalie incluse) e alcuni busti a grandezza naturale di rara bellezza.
La sala ospita anche una collezione di preparati anatomici più antichi, realizzati con tecniche desuete e dall’effetto finale curioso e straniante. In queste teche spiccano alcuni feti siamesi mummificati.
Nella sala sono anche presenti un antico mortaio per la preparazione del chinino (che sconfisse la malaria nel ‘700, importato dalle Americhe dai padri gesuiti), e una collezione di calcoli estratti chirurgicamente nell’800 all’Ospedale del Santo Spirito.
Dopo questa prima sala, comincia il vero e proprio viaggio nella storia della medicina; dai primi rimedi misteriosi, come il bezoario (palla calcarea che si forma nell’intestino dei ruminanti e al quale venivano attribuite virtù terapeutiche) o il corno dell’unicorno (che nella realtà era un raro dente di narvalo), agli ex voto romani ed etruschi, risulta evidente come la medicina degli albori fosse inscindibile dall’universo magico.
Il museo ospita anche una ricostruzione accurata di come si doveva presentare il laboratorio di un alchimista, sei o sette secoli fa: gli alambicchi, le storte, il forno, i matracci, le bocce, i mortai sono esposti in maniera estremamente scenografica. La sapienza alchemica univa il potere del simbolo alla conoscenza pratica delle virtù taumaturgiche degli elementi; una volta epurata dal mito, questa antica arte darà origine alla scienza farmacologica.
A fianco, ecco la ricostruzione di una farmacia del 1600, con il banco dello speziale che assomiglia a un imponente trono, e gli scaffali ricolmi di vasi che contenevano le differenti spezie che soltanto il farmacista sapeva dosare e mischiare efficacemente.
Le varie teche contenengono poi le collezioni di strumenti chirurgici o diagnostici: antichi trapani per craniotomie, lancette per i salassi, seghe da amputazione, forcipi, specula, e via dicendo; uno degli oggetti più curiosi è la “siringa battesimale”, che veniva riempita di acqua santa ed utilizzata per battezzare in utero quei feti che rischiavano di essere abortiti.
In quest’ultima sala, oltre a rarità come ad esempio un’antica poltrona per partorienti, o una “venere anatomica”, troviamo altri tre reperti eccezionali: due preparati a secco del sistema nervoso centrale e periferico a grandezza naturale, e la mano di una bambina “metallizzata” da Angelo Motta di Cremona nel 1881, con un procedimento tuttora segreto.
Ecco il sito ufficiale del Museo Storico dell’Arte Sanitaria.
L’enigmatica Offerta
Al di là della bellezza sublime dell’ascolto, la musica di Johann Sebastian Bach non cessa di stupire ed intrigare gli studiosi di ogni tipo: oltre ai teorici della musica, essa ha affascinato fisici, matematici e logici. La complessità dei contrappunti di Bach è strettamente legata a formule e modelli di tipo matematico, e nasconde molti altri enigmi.
La sua opera più misteriosa rimane l’Offerta Musicale. La genesi di questo lavoro è leggendaria: il 7 maggio 1747 Bach fece visita a Federico il Grande, re di Prussia, alla cui corte lavorava suo figlio. Il re, che era un musicista, voleva mostrare a Bach uno strumento di nuova invenzione di cui possedeva alcuni esemplari sperimentali, il pianoforte. Eppure, forse, aveva in mente qualcos’altro. Durante il loro incontro, il re consegnò a Bach, che era famoso per le sue abilità di improvvisazione, un tema musicale scritto di suo pugno, e gli chiese di improvvisare su quella base una fuga a tre voci. Bach lo fece, e il re rincarò la dose, sfidandolo a improvvisarne un’altra, stavolta a sei voci. Com’era evidente a tutti i presenti, si trattava di un capriccio per umiliare il compositore, che però non batté ciglio e rispose che avrebbe lavorato al tema per poi spedirlo al re in breve tempo.
Il risultato è l’Offerta Musicale, una variazione sullo stesso tema talmente difficile che il re, che secondo alcune fonti era un flautista non particolarmente virtuoso, forse non sarebbe mai stato in grado di suonare.
Costituita da due ricercare, dieci canoni e una sonata, l’Offerta Musicale è un capolavoro assoluto, ma è anche una sorta di enorme rebus, un continuo indovinello musicale che rimanda di volta in volta alla matematica, alla conoscenza del latino e delle sacre scritture. Bach infatti era un appassionato di enigmi logici, ossessionato dalle forme simmetriche.
L’Offerta, sul frontespizio, reca un’iscrizione: Regis Iussu Cantio Et Reliqua Canonica Arte Resoluta (“il tema del re, con aggiunte, risolto nel modo canonico”). Eppure, le iniziali di questa frase compongono la parola RICERCAR, che se da una parte rimanda a una forma musicale in voga al tempo, dall’altra è un invito a cercare fra le note le piccole “magie matematiche” che Bach vi ha nascosto. Ad esempio, vi si trova uno straordinario canone ascendente per toni: si tratta di un motivo musicale che si muove di modulazione in modulazione, fino a terminare un intero tono più in alto della partenza. L’effetto è quello di una melodia che continua a salire, per poi magicamente tornare al punto di partenza, senza quasi che l’ascoltatore se ne renda conto, ripartendo nuovamente dall’inizio, teoricamente all’infinito. Il canone è accompagnato dal commento Ascendenteque Modulationis ascendat Gloria Regis, un modo per dire al re che, come questa modulazione, anche la sua gloria sarebbe ascesa all’infinito.
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Un altro canone porta l’iscrizione Notulis crescentibus crescat Fortuna Regis, “possa la fortuna del Re crescere come queste note”: si tratta, infatti, di un canone per augmentationem, vale a dire che le note si fanno progressivamente più lunghe.
Molti dei canoni presenti nell’Offerta Musicale sono poi degli enigmi veri e propri: Bach li ha lasciati inconclusi, con una criptica frase latina sopra al pentagramma, in modo che l’esecutore stesso dovesse comprendere, sulla base delle precedenti note (che hanno un valore matematico e una loro progressione), come completarla. Alcune di queste composizioni-rebus possono avere più di una soluzione, ma per praticità gli studiosi si sono accordati per condividere una sola “risposta” all’indovinello – in modo da poter stampare e ristampare il canone completo, senza che i musicisti di oggi si debbano scervellare ogni volta che devono suonarlo.
Infine, uno dei canoni dell’Offerta è chiamato “cancrizzante” (da cancer, “granchio, gambero”). È un virtuosismo contrappuntistico ma soprattutto matematico: il video qui sotto spiega in maniera intuitiva e illuminante la teoria che sta alla base di questo incredibile pezzo.
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La difficoltà e complessità della musica di Bach ne limitarono il successo: quando era in vita, egli venne reputato principalmente come esecutore e per le sue qualità di improvvisazione. Riscoperto nell’800, oggi gli è finalmente riconosciuto il posto che gli spetta – quello di uno dei più grandi geni che la musica occidentale abbia mai avuto.
Le nozze dei nani
Pietro il Grande, Zar e Imperatore di Russia, era un personaggio enigmatico e anticonvenzionale, ed aveva una passione per tutto ciò che era deforme. Fin da quando aveva ammirato, nel 1697, le famose collezioni anatomiche di Frederik Ruysch (su questo anatomista c’è un nostro articolo qui) aveva deciso di costruire una propria camera delle meraviglie che avrebbe ospitato le forme più curiose e impensabili partorite dalla Natura: una sorta di grandioso museo sulla conoscenza del mondo.
La sua Kunstkamera, enorme wunderkammer che conteneva collezioni acquistate da Ruysch stesso, da Albertus Seba e da numerosi altri naturalisti e anatomisti, fu completata nel 1727. Vi trovavano posto innumerevoli esemplari di feti deformi, umani e animali, e tutto un campionario variegato di preparazioni anatomiche, minerali, e dei più disparati e rari reperti naturali. Ad un certo punto Pietro il Grande promulgò addirittura un editto, richiedendo alla popolazione di spedire al museo ogni feto malformato, da qualsiasi parte della Russia, affinché entrasse a far parte della sua collezione.
Ma la sua passione per le curiosità umane era particolarmente accesa nei confronti delle persone affette da nanismo. All’epoca i nani erano presenti in tutte le corti europee, e venivano impiegati come giullari o come semplici oggetti di dileggio e divertimento vario. Dovevano stupire gli ospiti saltando fuori dalle torte appena portate in tavola, spesso nudi, o danzare sui deschi, cavalcare minuscoli pony, e via dicendo. Ai nostri occhi moderni tutto questo appare senza dubbio crudele, ma come al solito dovremmo cercare di calarci nel contesto dell’epoca: forse una vita simile, per quanto avvilente, era preferibile a quella, infinitamente più impietosa e feroce, che avrebbe atteso un nano al di fuori delle mura di corte.
C’è da dire poi che alcuni dei “padroni” dei nani divenivano, com’è naturale, i più sinceri amici dei loro piccoli protetti: sembra per esempio che il famoso astronomo Tycho Brahe non si separasse mai dal suo nano di fiducia, divenuto una sorta di consigliere. Anche Pietro il Grande (che, detto per inciso, misurava più o meno due metri d’altezza) aveva il suo nano favorito e servitore fedele, Iakim Volkov, e per celebrare le sue nozze decise di mettere in scena uno dei matrimoni più indimenticabili della storia.
Lo Zar diede istruzioni al suo assistente Fyodor Romodanovsky di raccogliere tutti i nani residenti a Mosca e mandarli a San Pietroburgo. I “possessori” dei nani avrebbero dovuto vestirli a festa, con capi pregiati alla moda occidentale, riempiendoli di ninnoli e gioielli d’oro e parrucche da gran signori. Molte di queste piccole persone erano in realtà contadini e semplici paesani, dalle maniere tutt’altro che signorili.
Il giorno del sontuoso matrimonio, il corteo nuziale era formato da una settantina di nani in abiti e paramenti nobiliari, arrivati a San Pietroburgo su una carovana di pony: la cerimonia fu seguita da tutte le persone di normale statura fra risatine strozzate, colpi di gomito e sguardi increduli. Ma un serissimo Zar in persona celebrò le nozze, e pose delicatamente sul capo della piccola sposa la corona di fiori. Una volta giunti al banchetto, nel palazzo Menshikov, i nani vennero fatti accomodare ad alcuni tavoli in miniatura al centro della stanza, mentre tutte le altre tavolate erano disposte a cerchio intorno ad essi. Secondo i resoconti dell’epoca, le risate accompagnarono l’intera cena, mentre i nani si ubriacavano, cominciavano delle piccole risse, e i più vecchi e brutti ballavano sgraziatamente a causa delle gambe corte e storte.
C’è qualcosa, però, di un po’ sospetto. Ricordiamo che Pietro il Grande aveva viaggiato nelle più raffinate corti d’Europa, e aveva cercato di modernizzare il suo Impero per renderlo più vicino e più conforme (almeno nelle sue intenzioni) alla progredita civilizzazione occidentale. E personalmente, attraverso il suo museo delle meraviglie, si era sempre adoperato per combattere l’idea antiquata che le anomalie fisiche fossero mostruose e spaventose: si trattava ai suoi occhi di sfortunati accidenti della natura, che uno spirito illuminato doveva riconoscere in quanto tali, senza per forza riderne o esserne terrorizzato. Allora, perché organizzare un matrimonio simile?
Al di là del puro intrattenimento che certamente avrà avuto la sua parte, secondo alcuni storici questa cerimonia, come tutti gli altri spettacoli farseschi che Pietro amava organizzare, mostrava un sostrato simbolico che forse non tutti erano in grado di cogliere. Era uno sberleffo in piena regola, ma non tanto rivolto contro i nani – quanto piuttosto contro la sua stessa corte di nobili. Pietro voleva mettere in scena una specie di specchio deformante, una caricatura vivente dei suoi ospiti di statura “normale”. Guardatevi!, sembrava dire quel grottesco matrimonio, siete dei lord e delle dame in miniatura, imbellettati e avvolti in raffinati abiti che però vi sono poco familiari. Siete ancora dei piccoli zotici che giocano a fare i “grandi”, gli “adulti”, e non vi accorgete che l’Europa ride di voi.
Che questa lettura dell’evento sia plausibile oppure no, il matrimonio suscitò comunque un certo scalpore, anche in tempi in cui di “politicamente scorretto” non si era ancora sentito parlare.
Il Voodoo e Maya Deren
(Articolo a cura del nostro guestblogger Morfeo)
Questa è la storia di un inaspettato amore fra due mondi distanti.
Immaginate una folla radunata, in cerchio, che danza.
Immaginate il suono dei tamburi, i ritmi tribali che si insinuano nella testa e rapiscono gli ascoltatori, parlando una lingua antica, forse primitiva ma potente e capace di prendere possesso dell’inconscio rievocando immagini di luoghi lontani, quelli che una volta erano la casa degli antenati.
Ed ecco che nel mezzo della cerimonia finalmente arriva l’ospite tanto atteso, il Loa, che veste i panni di un mortale, si muove in modo convulso, gli occhi rigirati e la forza dei pazzi, eppure le persone non ne hanno paura anzi, danzano con lui, lo sorreggono e lo avvicinano, per nulla intimoriti.
I Loa (parola dal significato incerto ma che potrebbe voler dire “Invisibili” o “Misteri”) sono forse uno degli elementi più interessanti del voodoo, soprattutto considerando la diversa concezione che si ha della possessione: se in occidente la possessione è frutto del potere del maligno, per gli adepti del voodoo è qualcosa che rientra perfettamente nell’ordine naturale delle cose.
È forse proprio nei Loa che il sincretismo ha fatto miracoli, generando figure a metà tra i santi del mondo cristiano e gli antichi spiriti guardiani delle antiche tribù africane, evocabili tramite i vevè, veri e propri sigilli che chiunque abbia un minimo di familiarità con la demonologia non faticherà ad associare a quelli usati, secondo la tradizione esoterica occidentale, per evocare i demoni.
Papa Legba, Baron Samedi, Kalfou, Marinette-Bois Sèch, sono solo alcuni dei nomi di questi spiriti, in alcuni casi benigni in altri malvagi, che popolano i sogni esotici dei praticanti del voodoo.
Tale è la presa del voodoo nel cuore dei suoi fedeli che “Papa Doc”, così era chiamato François Duvalier, il dittatore che governò su Haiti dalla fine degli anni Cinquanta fino all’inizio degli anni Settanta, per consolidare il suo potere si spacciava per reincarnazione di Baron Samedi, arrivando a vestire e comportarsi secondo l’iconografia del celebre Loa.
Il filo sottile che lega le persone ad eventi, posti e culture, portò la giovane regista Maya Deren, autrice dello splendido Meshes of the Afternoon (1943), a giungere ad Haiti nel 1946. Difficile pensare a una persona dalla cultura più distante dai riti haitiani, essendo la Deren nata a Kiev ed emigrata a quattordici anni negli Stati Uniti; eppure era un’artista d’avanguardia, dotata del raro talento di trasportare su pellicola atmosfere oniriche e surreali. Il già citato Meshes of the Afternoon è un ottimo esempio di come il suo talento trovò sfogo in una storia in cui la curatissima estetica si fonde ad un immaginario surreale, ispirato dalla lettura del Libro dei Morti tibetano, a tratti inquietante.
Non deve quindi stupire che una persona con una così grande sensibilità, unita ad una grande apertura mentale verso culture lontane, sia stata letteralmente rapita dal voodoo e dai suoi antichi rituali e abbia dedicato buona parte del suo lavoro a questo sistema religioso e magico.
Dopo aver vinto una borsa di studio nel 1946, la Deren decise di recarsi ad Haiti dove entrò in contatto per la prima volta con questa antica realtà. Il suo interesse principale, in quanto coreografa, erano le danze di possessione e quel che avviene durante gli stati di trance; era convinta che i danzatori posseduti dagli spiriti sperimentassero uno stato particolare di depersonalizzazione, che invece di decostruire l’individuo ne allargava le potenzialità, rendendolo veicolo di qualcosa di più grande.
Munita di una macchina per le riprese, Maya Deren filmò nel suo viaggio e in quelli successivi il materiale che, una volta montato, avrebbe dato forma al suo film intitolato Divine Horsemen: The Living Gods of Haiti.
Per la prima volta su pellicola si affacciavano gli spiriti del voodoo: Baron Samedi faceva capolino negli occhi sbarrati di un danzatore mentre Agaou poteva scuotere a morte un posseduto.
Soltanto Loko non si sarebbe presentato agli occhi del mondo, troppo importante per mischiarsi a dei comuni mortali, cavalli troppo poco pregiati per i divini cavalieri del vudù.
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Divine Horsemen è un lavoro unico soprattutto perché la giovane regista non si accontentò dello sguardo distaccato dell’etnografo, ma decise di partecipare attivamente alle cerimonie, e di cercare nella poesia il giusto ponte per comprendere la gente che stava riprendendo, e le loro tradizioni. La Deren si addentrò talmente tanto nel voodoo che gli oungan le assegnarono anche uno spirito guida, Erzulie, dea dell’amore e del sesso; provò a portare in America le danze di possessione, esibendosi di persona, e scrisse uno dei saggi fondamentali al riguardo con l’aiuto dell’antropologo di fama mondiale Joseph Campbell.
Purtroppo Maya Deren non poté vedere ultimato il suo film, perché un’emorragia cerebrale la stroncò all’età di 44 anni. Uscito postumo, Divine Horsemen resta un documento straordinario per la freschezza e l’autenticità nel cogliere la magia delle danze sacre.
Di Maya Deren resta un grande testamento artistico, e soprattutto l’affascinante racconto di una passione: quella di una poetessa delle immagini che un giorno si innamorò di una lontana cultura, ancora oggi in buona parte avvolta nel mistero.
Winny Puhh
I Winny Puhh sono una band proveniente dall’Estonia, il cui genere potrebbe essere definito come un misto di punk, heavy metal e follia pura. Nei loro show, sempre altamente teatrali, fanno uso di strumenti atipici (balalaika, banjo), di effetti speciali, make-up e costumi elaborati e assolutamente weird.
Pur essendo attivi dai primi anni ’90, soltanto oggi, grazie a YouTube, il mondo si è accorto di loro. Per farvi capire la portata spettacolare delle loro esibizioni, eccoli alle semifinali estone per la qualificazione all’Eurovision Song Contest 2013, con il loro pezzo Meiecundimees üks Korsakov läks eile Lätti.
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Purtroppo i Winny Puhh non si sono qualificati. Eppure è strano, visto che hanno scelto il loro nome (che significa, pensate un po’, Winnie The Pooh) proprio per piacere a grandi e piccini.