La bambina nella scatola

Dietro ogni cosa bella
c’è stato qualche tipo di dolore.
(Bob Dylan, Not Dark Yet)

La storia di Irina Ionesco e di sua figlia Eva suscita scandalo da quarant’anni, ed è certamente un caso unico nel panorama dell’arte contemporanea per le implicazioni etiche e morali che lo accompagnano.

Irina Ionesco, nata a Parigi da padre violinista e madre trapezista, viene abbandonata all’età di quattro anni. Spedita in Romania, paese da cui provenivano i genitori, Irina viene cresciuta dalla nonna e dagli zii nell’ambiente del circo. Nonostante sognasse di diventare ballerina, a causa del suo fisico asciutto ed elastico verrà indirizzata verso l’antica arte del contorsionismo. Dai 15 ai 22 anni gira l’Europa, l’Africa e il Medio Oriente con il circo; durante il suo spettacolo si esibisce con due serpenti boa, e più tardi dichiarerà: “ero diventata schiava di quei serpenti, e alla fine ne ho avuto abbastanza”.

Durante una convalescenza a causa di un incidente di danza a Damasco, Irina comincia a disegnare e a dipingere; abbandonato il circo, viaggia per qualche anno con un ricco giocatore d’azzardo iraniano che la copre di gioielli e abiti lussuosi, prima di studiare arte a Parigi. Poi, ecco da una parte l’incontro fortuito con la fotografia (l’artista belga Corneille le regala una reflex nel 1964), e con gli scritti sulfurei e trasgressivi di Georges Bataille dall’altra.

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Le sue fotografie, che inizialmente ritraggono amiche e amici agghindati con gli abiti che Irina aveva nel suo stesso guardaroba e fotografati al lume di candela, conoscono un immediato successo fin dalla prima esposizione. Già da questi primi scatti sono evidenti quegli elementi che attraverseranno tutta l’opera della fotografa: l’erotismo feticistico, i costumi di scena ricercati e barocchi, le pose teatrali, le collane di perle, e i dettagli gotici (teschi, corredi funebri, composizioni floreali).

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Ma le fotografie davvero controverse di Irina Ionesco non sono queste. Dal 1969 in poi, Irina decide di fotografare sua figlia Eva, di appena 4 anni, nei medesimi contesti in cui fotografa le modelle adulte. Cioè nuda, in pose da femme fatale, e agghindata soltanto con quegli accessori che avrebbero dovuto renderla un’icona dell’erotismo.

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Siamo negli anni ’70, un’epoca in cui i tabù sessuali sembrano cadere ad uno ad uno, e chiaramente il lavoro di Irina si iscrive in questo contesto storico specifico; ciononostante le foto creano un grosso scandalo – che ovviamente porta fama e successo alla fotografa. La critica discute animatamente se si tratti di arte o di pornografia, e anzi per qualcuno le fotografie proiettano un’ombra ancora più inquietante, quella dell’istigazione alla pedofilia.

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ion2Ma in tutto questo, cosa prova la piccola Eva Ionesco? È in grado, data la sua tenera età, di comprendere appieno ciò che le sta accadendo?

Mia madre mi ha fatto posare per foto al limite della pornografia fin dall’età di 4 anni. Tre volte a settimana, per dieci anni. Ed era un ricatto: se non posavo, non avevo diritto ad avere dei bei vestiti nuovi. E soprattutto non potevo vedere mia mamma. Mia madre non mi ha mai allevata; il nostro unico rapporto, erano le foto.

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Eva Ionesco diviene ben presto una piccola star: nell’ottobre del 1976, all’età di 11 anni, viene pubblicato un servizio su di lei sul numero italiano di Playboy. È la più giovane modella mai apparsa nuda sulle pagine della rivista. Seguono alcuni ingaggi come attrice (il primo nell’Inquilino del Terzo Piano di Polanski), fra i quali spicca il suo ruolo nel film “maledetto” di Pier Giuseppe Murgia, Maladolescenza, del 1977. Il film racconta la scoperta, da parte di tre adolescenti, della sessualità e degli istinti crudeli ad essa collegati, in un ambiente naturale e privo di sovrastrutture (in un chiaro riferimento al Signore delle Mosche); le due attrici protagoniste di 11 anni e il loro compagno di 17, nel film sono impegnati in scene di sesso simulato e mostrati mentre si dedicano a torture reciproche e contro gli animali. Il film non manca di una sua poesia, per quanto efferata e disturbante, ma nei decenni successivi viene ritirato, censurato, rieditato e infine condannato definitivamente per pedopornografia nel 2010 da una corte olandese.

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Da tutta questa serie di attività di modella a sfondo erotico, decise e volute dalla madre, Eva riuscirà a liberarsi proprio nel 1977, quando Irina perde l’affidamento della figlia. Eppure l’ombra di quelle fotografie perseguita Eva ancora oggi. E se madre e figlia non hanno mai avuto un vero rapporto, per anni si sono parlate soltanto per interposti avvocati.

Non vuole rendermi le stampe e i negativi. Continua a vendere un numero enorme di quelle fotografie. In Giappone si trova ancora un sacco di roba, libri, CD erotici. La gente crede che Irina Ionesco significhi soltanto foto vintage con una piccola principessa che viene spogliata. Ma io me ne frego dei reggicalze! Bisogna dire le cose come stanno: voglio far proibire le foto in cui mi si vedono il sesso e l’ano.

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I processi giudiziari, per mezzo dei quali Eva ha cercato di riappropriarsi dei propri diritti e di farsi riconsegnare dalla madre gli scatti più espliciti, hanno avuto un amaro epilogo nel 2012: il tribunale le ha riconosciuto soltanto parte delle richieste, e ha condannato Irina a versare 10.000 euro di danni e interessi per sfruttamento dell’immagine e della vita privata della figlia. Ma le foto sono ancora di proprietà della madre.

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Nel 2010 Eva ha cercato di liberarsi dei fantasmi della sua infanzia curando la regia di My Little Princess, un film in parte autobiografico in cui il personaggio della madre è affidato all’interpretazione di Isabelle Huppert e quello della bambina a una sorprendente Anamaria Vartolomei. Nel film, l’arte fotografica è vista come un’attività senza dubbio pericolosa:

Isabelle Huppert carica la macchina fotografica come un’arma. L’immagine rinchiude, rende il personaggio muto. Fotografarmi, significava mettermi in una scatola: dirmi “sii bella e stai zitta”.

E in un’altra intervista, Eva rincara la dose:

Spogliare qualcuno, fotografarlo, rispogliarlo, rifotografarlo, non è violenza? Accompagnata da parole gentili, naturalmente: sei magnifica, sublime, meravigliosa, ti adoro. […] Volevo raccontare una persona senza coscienza né barriere, dispotica e narcisa. Una persona che non vede. Fotografa, ma non vede.

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Il valore artistico dell’opera di Irina Ionesco non è mai stato messo in discussione, nemmeno dalla figlia, che le riconosce un’incontestabile qualità di stile; sono le implicazioni etiche che fanno ancora discutere a distanza di decenni. Le fotografie della Ionesco ci interrogano sui rapporti fra l’arte e la vita in modo estremo e viscerale. Esistono infatti innumerevoli esempi di opere sublimi, la cui realizzazione da parte dell’artista ha comportato o implicato la sofferenza altrui; ma fino a dove è lecito spingersi?

Forse oggi ciò che rimane è una dicotomia fra due poli contrapposti: da una parte le splendide immagini, provocanti e sensuali proprio per il fatto che ci mettono a disagio, come dovrebbe sempre fare l’erotismo vero – un mondo immaginario, quello di Irina Ionesco, che secondo Mandiargues “appartiene a un ambito che non possiamo conoscere, se non attraverso la nostra fede in fragili ricordi”.
Dall’altra, la ben più prosaica e triste vicenda umana di una madre fredda, chiusa nel suo narcisismo, che rende sua figlia una bambina-manichino, oggetto di sofisticate fantasie barocche in un’età in cui forse la piccola avrebbe preferito giocare con i compagni (cosa che Irina le ha sempre proibito).

L’innegabile fascino delle fotografie della Ionesco sarà quindi per sempre incrinato da questo conflitto insanabile – la consapevolezza che dietro quegli scatti si nascondesse un abuso; eppure questo stesso conflitto le rende particolarmente inquietanti e ambigue, addirittura al di là delle intenzioni originali dell’autrice, in quanto stimolano nello spettatore emozioni contrastanti che poche altre opere erotiche sono in grado di veicolare.

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Irina compirà 78 anni a settembre, e continua ad esporre e a lavorare. Eva Ionesco oggi ha 48 anni, e un figlio: non è davvero sorprendente che non gli abbia mai scattato una foto.

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Le interviste a cui fa riferimento l’articolo sono consultabili qui e qui.

Andy Paiko

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Andy Paiko è un artista nato nel 1977 in California, anche se oggi il suo laboratorio si trova a Portland, nell’Oregon. Il materiale con cui lavora è il vetro; ma probabilmente, di fronte alle sue opere, perfino il più esperto maestro vetraio di Murano non potrebbe impedirsi di rimanere meravigliato.

Per lui, quand’era un giovane studente d’arte, l’incontro con il vetro avvenne quasi per caso; dopo aver raggiunto una discreta esperienza, mostrò con orgoglio i recipienti e i bicchieri che aveva prodotto al suo insegnante, che però invece di lodare la sua tecnica gli rivolse una semplice domanda: “Credi davvero che il mondo abbia bisogno di altri vasi?”.

Fu così che Paiko cominciò a cercare una propria voce, un modo esclusivamente suo di utilizzare questo materiale duttile e affascinante. Il vetro sarebbe diventato il mezzo per esprimere il suo mondo interiore.

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Appassionato di storia della scienza e della tecnica, Andy oggi persegue un inedito connubio fra queste materie e la ialurgia: un suo celebre pezzo è un sismografo funzionante, quasi interamente costituito di vetro. Per costruire un arcolaio, composto da centinaia di parti singole, Paiko ne ha studiato per mesi i componenti e la struttura. Fra i suoi prossimi progetti, la costruzione di una bicicletta in vetro su cui si possa pedalare davvero.

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Un altro interesse di Paiko è la tassonomia, e diverse opere testimoniano il suo amore per la catalogazione; eppure, vedendo il risultato dei suoi lavori che includono parti organiche, non si può non pensare che si tratti anche di un elaborato omaggio ai resti animali e vegetali esposti, una sorta di etereo mausoleo che ne valorizza e sottolinea, con la sua bellezza raffinata, le forme naturali.

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Le conchiglie sembrano integrarsi come una viva escrescenza nella struttura in vetro; le spine dorsali di coyote o di cervo, talvolta placcate in oro, continuano e prolungano la fantasia delle spire trasparenti che le salvaguardano come fossero preziose reliquie.

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Con il tempo l’artista ha saputo creare uno stile immediatamente riconoscibile, un gusto e un’abilità sorprendenti nello sfruttare i giochi della luce, che si insinua e si rifrange nelle sue composizioni. Infatti Andy Paiko non soffia semplicemente il vetro, ma utilizza tecniche miste. Lo sagoma, lo stampa, lo taglia, lo manipola alla fiamma, lo colora, in una continua ricerca per nuove sfumature d’espressione. Lavorare il vetro, in fondo, è una sorta di alchimia che unisce la terra, il fuoco, l’acqua e la luce in una sola opera. A questi, Paiko è capace di aggiungere altri due elementi: l’ammirazione per la vita naturale e per l’ingegno umano.

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Ecco il sito ufficiale dell’artista.

La biblioteca delle meraviglie – X

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Evertrip
TEGUMENTA
(2013, Edizioni Esperidi – www.tegumenta.it)

Oggi tutti leggono libri. Si legge tantissimo, spesso tomi di centinaia e centinaia di pagine, basta guardarsi in giro in spiaggia. Non è della quantità che dovremmo preoccuparci, ma della qualità. E se il panorama editoriale mainstream, in Italia, è avvilente, spesso anche quello underground non è migliore: i piccoli editori, che non se la passano benissimo, sono disposti a pubblicare qualsiasi cosa a pagamento. Quindi, oggi tutti scrivono libri.

Il problema di chi si immagina di saper scrivere, come risulta spesso evidente fin dalle righe iniziali, è che l’autore non è mai stato innanzitutto un vero lettore – dettaglio che l’avrebbe forse portato a cimentarsi con timore ed umiltà maggiori nell’arte letteraria, per amore e rispetto dei maestri che venera. Il difetto che maggiormente opprime questi “nuovi autori” è l’assoluta mancanza di una forma: talvolta un embrione di idea può anche far capolino fra le pagine, ma l’amore per la ricerca espressiva è un sentimento che davvero pochi sembrano conoscere o coltivare.

Per questo motivo salutiamo come un’insperata sorpresa il libriccino di Evertrip, al secolo Paolo Ferrante, classe 1984. Un libro che ricorda i surrealisti, a tratti le poesie di Arrabal, le sperimentazioni di Burroughs o del Ballard degli anni ’70. Il suo “dizionario emozionale” è un brillante tentativo di far respirare assieme parole e immagini (illustrazioni di cui l’autore stesso è responsabile), cercando costantemente la forma più inaspettata per setacciare le dialettiche interne di un rapporto sentimentale.

Ed è proprio la forma a farsi contenuto, perché Tegumenta si presenta a una prima occhiata come un dizionario minimo, in cui ogni lettera contiene soltanto uno o due vocaboli o locuzioni; all’asetticità del glossario si somma la propensione scientifico-clinica del linguaggio, che si propone di descrivere con piglio analitico le correlazioni fra sentimenti e anatomia.

Ma, ed è questo lo scarto poetico più interessante, ecco che di colpo l’oggettività delle “definizioni” subisce una deviazione improvvisa: passa, imprevedibile, dalla terza alla seconda persona singolare, rivolgendosi direttamente all’oggetto/soggetto del desiderio; fino a che, tra etimi implausibili (intriganti per lo sfaglio di senso che operano), distorsioni della realtà e sottili invenzioni iconografiche, tra involuzioni e rivoluzioni, è il linguaggio stesso ad implodere.

Ad esempio ecco che la definizione di bezoario diviene d’un tratto il simbolo per esprimere la vertigine sentimentale:

BEZOAR: 1. s.n. agglomerato di fibre vegetali (fibrobezoari) o di peli animali (tricobezoari) che si forma nello stomaco dell’uomo a seguito dell’ingestione abnorme di tali componenti. Nello stomaco genera uno stato di infiammazione cronico, seguito da lesioni sanguinanti della mucosa.
2. ti sento vera come il panico, infatti scivolo, scivolo nello stagno, ho le stoppie in gola, scivolo e non sono ancora pazzo, l’acqua è fredda e sembra un suicidio […]

Alla voce “epidermide” leggiamo:

EPIDERMIDE: s.f. lo strato morbido che ti separa dalle mie mani, situato fra la mia lingua e il tuo sangue.

In Tegumenta si percepisce la presenza di una “voce narrante”: è quella di un personaggio (mai esplicitato, visto che forse si confonde in parte con l’Autore) che potremmo definire il Catalogatore Psichico, ossessionato da un’impresa impossibile: quella di costruire un manuale per orientarsi fra gli strazi fisici, i dolori dell’anima e le convulsioni emotive che accompagnano ogni passione erotica. E se qua e là, in virtù degli slanci poetici e dei non detti, si riesce ad intravvedere il bagliore di un’illuminazione, ciò che rimane di tutto questo tortuoso classificare ogni piccolo moto dello spirito è il sentimento di impotenza al cospetto di misteri più grandi dell’umana comprensione: il corpo, la carne e le sue inconcepibili escrescenze, e l’amore che ne emerge come il più inspiegabile e irrazionale dei fenomeni.

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D. von Schaewen, J. Maizels, A. Taschen
FANTASY WORLDS
(1999, Taschen)

Fra gli splendidi volumi illustrati della Taschen, questo è uno fra i più preziosi. Un viaggio attraverso i cinque continenti, alla scoperta dei luoghi più affascinanti  e “incantati”: opere d’arte multiformi, barocche, oppure infantili, ma sempre sorprendenti. Il libro ci guida fra palazzi di conchiglie, bestiari fantastici scolpiti nelle falesie, parchi delle meraviglie, strane abitazioni dall’aspetto alieno, e si sofferma sui più interessanti esempi di outsider art. Molto spesso, infatti, dietro queste bizzarrie architettoniche si cela la mente di una sola persona, assillata dal “progetto di una vita”, e che partendo da materiali riciclati e umili ha saputo costruire qualcosa di unico. Sia che cerchiate qualche meta turistica fuori dalle classiche mappe, o che preferiate starvene sprofondati nel divano a fantasticare, questo libro è un compagno perfetto.

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Il filmmaker olandese Jeroen Wolf ha avuto un’idea semplicissima: riassumere in 150 secondi 100 anni di vita. Ma, e qui sta l’originalità dell’idea, ogni anno è “rappresentato” da una persona differente. Così, oltre che una meditazione sul tempo, il suo video diviene anche il racconto di come l’età sia evidentemente relativa, ponendoci di fronte a diversi modi di crescere, vivere ed invecchiare.

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Bloody Murders

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Quando state entrando ad un concerto, o a uno spettacolo teatrale, vi viene consegnato il programma della serata. Una cosa simile accadeva, in Inghilterra, anche per un tipo particolare di spettacolo pubblico: le esecuzioni capitali.

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Nel XVIII e XIX Secolo, infatti, alcune stamperie e case editrici inglesi si erano specializzate in un particolare prodotto letterario. Venivano generalmente chiamati Last Dying Speeches (“ultime parole in punto di morte”) o Bloody Murders (“sanguinosi omicidi”), ed erano dei fogli stampati su un verso solo, di circa 50×36 cm di grandezza. Venivano venduti per strada, per un penny o anche meno, nei giorni precedenti un’esecuzione annunciata; quando arrivava il gran giorno, veniva preparata spesso un’edizione speciale per le folle che si assiepavano attorno al patibolo.

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Sull’unica facciata stampata si potevano trovare tutti i dettagli più scabrosi del crimine commesso, magari un resoconto del processo, e anche delle accattivanti illustrazioni (un ritratto del condannato, o del suo misfatto, ecc.). Usualmente il testo si concludeva con un piccolo brano in versi, spacciato per “le ultime parole” del condannato, che ammoniva i lettori a non seguire questo funesto esempio se volevano evitare una fine simile.

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La vita di questi foglietti non si esauriva nemmeno con la morte del condannato, perché nei giorni successivi all’esecuzione ne veniva stampata spesso anche una versione aggiornata con le ultime parole pronunciate dal condannato – vere, stavolta -, il racconto del suo dying behaviour (“comportamento durante la morte”) o altre succulente novità del genere.

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I Bloody Murders erano un ottimo business, appannaggio di poche stamperie di Londra e delle maggiori città inglesi: costavano poco, erano semplici e veloci da preparare, e alcune incisioni (ad esempio la figura di un impiccato in controluce) potevano essere riutilizzate di volta in volta. Il successo però dipendeva dalla tempestività con cui questi volantini venivano fatti circolare.

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Questi foglietti erano pensati per un target preciso, le classi medie e basse, e facevano leva sulla curiosità morbosa e sui toni iperbolici per attirare i loro lettori. Era un tipo di letteratura che anche le famiglie più povere potevano permettersi; e possiamo immaginarle, raccolte attorno al tavolo dopo cena, mentre chi tra loro sapeva leggere raccontava ad alta voce, per il brivido e il diletto di tutti, quelle violente e torbide vicende.

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La Harvard Law School Library è riuscita a collezionare più di 500 di questi rarissimi manifesti, li ha digitalizzati e messi online. Consultabili gratuitamente, possono essere ricercati secondo diversi parametri (per crimine, anno, città, parole chiave, ecc.) sul sito del Crime Broadsides Project.

Pietre semoventi

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Nella suggestiva cornice di un lago prosciugato per la maggior parte dell’anno, sul lato a nordovest della famosissima Death Valley in California, le pietre mobili della Racetrack Playa hanno intrigato geologi e fisici per decenni. In questa conca riempita di sabbia sedimentaria, durante il periodo di intensa pioggia, l’acqua si riversa trasformando il terreno in un denso pantano; in seguito, seccandosi al caldo del sole, il fango si restringe ricoprendosi di mille crepe e formando i caratteristici poligoni che ricoprono l’intera superficie della Playa. E in questo strano posto, le rocce si muovono da sole.

Le pietre semoventi sono tutte diverse fra di loro: ce ne sono di smussate e di aguzze, di piccole e grandi dimensioni; quanto a categoria litologica, alcune sono sieniti, altre dolomiti; alcune si muovono per pochi metri, altre per qualche decina. Durante i loro spostamenti, le rocce possono addirittura girare su se stesse, e finire per appoggiare a terra una diversa “faccia” rispetto alla loro posizione di partenza. Se due rocce partono contemporaneamente, possono continuare a muoversi in parallelo, oppure una delle due può improvvisamente fare una virata in un’altra direzione. Spesso le rocce procedono a zig-zag, lasciando delle tracce larghe in media una ventina di centimetri, ma profonde meno di tre centimetri.

Perché gli scienziati ci stanno mettendo tanto a capire cosa fa muovere questi sassi? Il problema è che nessuno le ha mai viste mentre si spostano. Si è potuta misurare approssimativamente la loro velocità, la lunghezza del percorso, ma qualsiasi monitoraggio è stato effettuato soltanto prima e dopo lo spostamento. Questo perché per fare pochi metri le pietre ci mettono anche 4 anni; e intendiamoci, non è che si muovano lentamente ma costantemente: le tracce indicano anzi dei movimenti piuttosto repentini (il fango viene spinto sui lati della scia). Ma quale geologo può perdere quattro anni ad aspettare il momento giusto, in cui un sasso faccia un piccolo passo in avanti?

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Fin dal 1915, quando avvenne il primo “avvistamento” di cui ci resti traccia scritta, sono state avanzate molte teorie: la maggior parte di esse concordano sull’ipotesi di base, che vede il fondo della Playa trasformato dalle piogge in un fango denso d’acqua ma non completamente alluvionato, e la presenza di fortissimi venti (da quelle parti durante l’inverno soffiano fino a 145 km/h) che metterebbero in moto le pietre. Nel 1952 avvenne addirittura un esperimento piuttosto eccentrico: un geologo, convinto proprio di questa teoria, decise di alluvionare con l’acqua un’area specifica della Playa, e utilizzò il motore di un aereo per creare il più forte vento artificiale disponibile all’epoca. Potete immaginare i risultati – le pietre rimasero pacifiche e serene nella loro posizione, senza spostarsi di un centimetro.


Altre ipotesi indicano come possibile causa i cosiddetti diavoli di sabbia, piccoli vortici d’aria, non rari nella zona, oppure l’abbassarsi delle temperature che, ghiacciando leggermente la superficie del lago prosciugato, diminuirebbero l’attrito. Alcuni hanno pensato a glaciazioni più importanti, dei veri e propri lastroni di ghiaccio nei quali le pietre rimarrebbero prigioniere, e che scivolerebbero lentamente in avanti. Ma negli anni ’70 alcuni ricercatori provarono a piantare dei pali vicino ad alcune pietre – l’idea era che se si fosse formata una lastra di ghiaccio, avrebbe inglobato sia la pietra che i pali, ma a causa di questi ultimi non si sarebbe potuta muovere. Eppure alcune pietre “scapparono” da questa trappola senza problemi.

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Negli anni, quindi, il fenomeno venne annoverato fra i misteri insoluti dalla scienza, guadagnandosi il consueto corredo di spiegazioni soprannaturali, ufologiche, magnetico-astrali, magiche, e via dicendo. Con l’arrivo dei turisti, le pietre cominciarono di tanto in tanto a sparire, perché, diciamocelo chiaramente: chi non vorrebbe portarsi a casa un sasso che, visto che si muove da solo, deve per forza avere un “campo energetico” davvero unico, e delle virtù taumaturgiche miracolose? Peccato che, una volta al di fuori della Racetrack Playa, le pietre rimanessero inspiegabilmente ferme.

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Arriviamo quindi ad anni più recenti, e al contributo di Ralph Lorenz, fisico planetario che lavora nel campo delle esplorazioni spaziali ma anche della geologia dei pianeti. Nel 2006 Lorenz stava disponendo alcune centrali meteorologiche miniaturizzate proprio nella Racetrack Playa per un progetto NASA – nella Death Valley le condizioni climatiche durante l’estate sono talmente estreme da poter servire da modello per gli studi su Marte. E lì Lorenz rimase affascinato dal fenomeno delle pietre semoventi. Decise che, visto che le sue stazioni meteorologiche non venivano utilizzate durante l’inverno, le avrebbe impiegate per far luce sul mistero. Studiando la letteratura scientifica, scoprì che nelle zone artiche il ghiaccio imprigiona spesso dei massi, facendoli galleggiare fino a riva, dove creano addirittura delle barricate. Ma Lorenz non era convinto che sulla Playa si formassero dei lastroni di ghiaccio enormi. Osservando meglio le tracce delle rocce, si accorse di un dettaglio singolare: alcune rocce sembravano andare a sbattere l’una contro l’altra, rimbalzando e cambiando poi direzione; la cosa strana però è che la scia non andava completamente fino alla roccia colpita, ma si fermava a qualche decina di centimetri, come se fosse stata respinta prima dell’impatto. Lorenz si convinse che attorno alla roccia doveva esserci stato una sorta di “collare” di ghiaccio, un anello che la circondava. L’idea combaciava con i risultati provenienti dai suoi sensori meteorologici, che indicavano una parziale glaciazione della zona durante l’inverno, associata ai copiosi rovesci di pioggia.

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Ciò che separa le teorie di Ralph Lorenz da quelle di tutte gli altri scienziati è che Lorenz riuscì a replicare il fenomeno in laboratorio – o, meglio, a casa sua: creò cioè una vera e propria roccia semovente nella sua cucina. Mise un sasso in un recipiente di plastica, che riempì d’acqua in modo che la punta della roccia rimanesse scoperta; poi infilò il tutto nel freezer. Ora aveva un disco di ghiaccio con una roccia incastonata al suo interno; lo capovolse, e lo fece galleggiare in una vasca il cui fondo era riempito di sabbia. Soffiando dolcemente sul sasso, ecco che questo si mosse attraverso la vasca, lasciando una scia sul terriccio sottostante.

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Nel 2011 Lorenz e il suo team di esperti avevano raccolto abbastanza dati da proporre il loro studio alla comunità scientifica. Quello che succede nella Racetrack Playa, fatte le dovute proporzioni, è simile all’esperimento casalingo di Lorenz: 1) un anello di ghiaccio si forma attorno alla roccia; 2) il cambiamento nel livello delle piogge fa venire a galla il tutto, spesso capovolgendo o inclinando la roccia in posizioni inedite; 3) a questo punto non servono nemmeno i violentissimi venti teorizzati dalle precedenti ricerche, perché l’anello che sostiene il sasso è praticamente senza attrito sull’acqua, e una leggera brezza può bastare per farlo muovere.

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Nonostante il fenomeno abbia ormai trovato una spiegazione esauriente, corroborata da studi geo-meteorologici ed efficacemente replicata in condizioni controllate, le pietre mobili della Playa sono ancora vendute come “mistero inspiegabile” da molte trasmissioni televisive, che non rinunciano facilmente a una simile gallina dalle uova d’oro. D’altronde gli stessi Ranger della zona lo sanno bene: i turisti si chiedono meravigliati come possano muoversi le pietre, ma se si prova a spiegare loro il vero motivo, spesso si infastidiscono e non vogliono ascoltare. Sono venuti lì per il mistero, non per avere risposte.

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Eppure forse la bellezza di queste pietre che per millenni sono state, e continueranno ad essere, trasportate dal ghiaccio, incidendo enigmatiche geometrie a zig-zag nella sabbia di un lago prosciugato e inospitale, non ha alcun bisogno del mistero per essere commovente: si tratta di un’altra delle infinite, strane meraviglie di questo piccolo pianeta perduto nel nero.

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Le meravigliose locandine

L’epica del cinema mobile ghanese

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Il Cinema, pensatelo che arriva da voi a bordo di un fuoristrada ammaccato e impolverato; dopo una giornata di sudore e fatica, immaginate che il Film vi attenda nel fresco della notte, quando le ombre sono calate, per raccontarvi storie di eroi e terribili pericoli.

Negli anni ’80, in Ghana, non era facile andare al cinema. La corrente elettrica era ancora poco diffusa, e per questo motivo le sale di proiezione si trovavano soltanto nei grossi centri. Per chi viveva nei villaggi, muoversi per raggiungere il cinema avrebbe comportato una spesa impossibile.
Ma con l’arrivo del videoregistratore, le cose cambiarono. I proprietari dei cinema decisero di portare i film in giro per il paese, per massimizzare i profitti. Nelle piccole comunità rurali cominciarono ad arrivare, dalla capitale Accra, i cosiddetti “cinema mobili”: si trattava in realtà molto spesso di un semplice televisore, a cui era collegato un videoregistratore; il tutto era supportato da un vecchio e rumoroso generatore. In altri casi i cinema mobili erano organizzati un po’ meglio, con un videoproiettore e un minischermo che veniva drizzato sulla stessa automobile scassata su cui viaggiavano i  proiezionisti.

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Tutta la gente del paese, dopo una dura giornata di lavoro nei campi, poteva finalmente raggrupparsi e passare un paio d’ore di divertimento assistendo a spettacoli provenienti da Hollywood, ma non solo. Venivano proposti anche film di kung fu e arti marziali, così come gli ultimi successi di Nollywood (l’industria cinematografica nigeriana).

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I proprietari dei cinema artigianali che attraversavano il Ghana in lungo e in largo avevano però un problema: l’autopromozione. Ovviamente, non facendo parte di un circuito di distribuzione ufficiale, non avevano a disposizione alcuna locandina con cui pubblicizzare i loro film. Così i “boss” del cinema mobile ghanese cominciarono ad appoggiarsi ad artisti locali, per prodursi da soli i loro poster.

Si trattava di locandine realizzate a mano – spesso su ritagli di tela provenienti dai sacchi di farina: opere uniche, che venivano religiosamente avvolte e riutilizzate infinite volte, in ogni paesino, villaggio o centro abitato per promuovere la proiezione del film, finché non erano completamente distrutte.

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Gli artisti che dipingevano queste locandine non sempre avevano visto il film in questione. Si basavano quindi sul titolo e sulle immagini che suggeriva, tiravano insomma a indovinare cosa potesse succedere nella pellicola; oppure cercavano di ricopiare le locandine occidentali inserendovi però elementi che avessero un certo appeal per il pubblico ghanese. Questo risulta in un effetto spiazzante, per chi conosce i film in questione, perché nelle locandine si riconoscono inesattezze, dettagli inventati e situazioni che non c’entrano assolutamente nulla con la vera trama.

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Un’altra caratteristica peculiare di questi poster cinematografici è la mescolanza di alcuni tratti palesemente africani con molte altre influenze, come ad esempio alcuni accenni cubisti o surrealisti. Alcuni di questi pittori, infatti, provenivano da scuole d’arte in cui avevano ricevuto un’educazione più o meno formale e, nonostante sbarcassero il lunario in questo modo, provavano ad inserire elementi più “raffinati” per far mostra del loro stile. Laddove i poster hollywoodiani, per risaltare nell’abbondanza dell’offerta, miravano alla sinteticità e al design accattivante che sottolineasse i volti delle star, i pittori ghanesi si concentravano invece sulla spettacolarità della scena epica, sullo shock della crudeltà, sul dettaglio macabro in grado di impressionare grandi e piccini.

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Alla fine degli anni ’90 le televisioni e i videoregistratori calarono di prezzo, e sempre più famiglie ghanesi furono in grado di acquistare la propria postazione TV; così i cinema mobili sparirono a poco a poco, e con loro questi manifesti folkloristici che perfino Walter Hill dichiarò “spesso più interessanti dei film stessi”. Oggi le locandine ghanesi sono molto ricercate dai collezionisti d’arte popolare africana – tanto che alcuni artisti continuano a produrle anche per i film più moderni.

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Quello che affascina in questi poster è innanzitutto il loro gusto kitsch e infantile, che di primo acchito ci sorprende e ci diverte, particolarmente oggi che siamo consumatori smaliziati ed iperimbottiti di blockbuster ed effetti speciali roboanti. Ma ad un secondo livello è impossibile non avvertire, di fronte a queste locandine, una piccola punta di nostalgia: sembrano parlarci di un’innocenza ormai perduta, quell’incanto primitivo delle immagini in movimento, il terrore e la meraviglia che ci si aspetta da un film d’avventura.

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Lo confessiamo. Anche a noi è capitato, tanti anni fa – in ragione della nostra allora giovane età? o perché erano diversi “i tempi”? – di provare un lungo brivido di trepidazione di fronte a una locandina che prometteva emozioni forti. Forse quello che ci commuove in questi poster è proprio il riconoscere quel tipo di ingenuità che ci permetteva (e permette ancora, di tanto in tanto) di vivere il cinema come un viaggio immaginario, una favola, un sogno costellato di suggestive emozioni.

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Le gemelle silenziose

Sappiamo che le affinità fra gemelli omozigoti sono molte: condividono in fondo lo stesso identico patrimonio genetico, e se crescono assieme spesso si influenzano vicendevolmente per quanto riguarda il comportamento. In alcuni casi hanno dei gusti marcatamente differenti; quasi sempre però mostrano una comprensione reciproca che, vista dall’esterno, può apparire straordinaria. Ma la storia delle gemelle Gibbons contiene un elemento più viscerale, inspiegabile, come se questa sintonia fosse arrivata ad un livello superiore e ancora oggi impossibile da spiegare.

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June e Jennifer Gibbons erano nate nell’isola Barbados l’11 aprile del 1963. I genitori si trasferirono ad Haverfordwest, nel Galles (il padre era luogotenente nella RAF) poco dopo la nascita delle gemelline. Si trattava dell’unica famiglia di colore della città, e certamente il problema dell’integrazione deve aver pesato sullo sviluppo delle piccole gemelle. Divenne presto evidente che le bambine avevano alcune difficoltà di linguaggio, tanto che soltanto la mamma Gloria era in grado di capire quello che farfugliavano, e in alcuni casi nemmeno lei. A causa di questi disordini linguistici, June e Jennifer crebbero senza legare con gli altri bambini, sempre sole e chiuse nel loro mondo.

La scuola, come è comprensibile, fu per loro un trauma severo: rifiutavano di parlare, scrivere o leggere, e gli insegnanti cominciarono a mandarle a casa prima della fine dell’orario per dare loro qualche minuto di vantaggio sui bulli che le molestavano in continuazione. Fu in quel periodo che cominciarono ad essere chiamate the silent twins.

Se avevano eretto un muro impenetrabile per il mondo, all’interno del loro “spazio protetto” vivevano però una realtà differente.
Le gemelle avevano sviluppato un loro linguaggio, incomprensibile agli estranei (criptofasia), e dei giochi segreti particolari e complicati. Giocavano a “specchiarsi” l’una nell’altra, imitando a vicenda le azioni compiute; la sera decidevano chi delle due, al risveglio mattutino, avrebbe respirato per prima, e finché questo respiro non veniva avvertito l’altra sorella doveva giacere immobile, come morta. Mentre in classe non c’era verso di costringerle a leggere, nella serenità della loro cameretta erano avide divoratrici di libri, e riempivano i loro quaderni di racconti, disegni e romanzi scritti a quattro mani. Le pagine erano riempite di caratteri minuscoli, tanto che fra una riga blu e l’altra dei fogli dei loro diari trovavano spazio quattro righe di testo.

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All’età di 14 anni, avevano ormai escluso dalla loro vita praticamente chiunque: compagni, conoscenti, mamma, papà, e i due fratelli. Soltanto alla piccola Rosie, la sorella minore, era consentito entrare sporadicamente nel loro universo. Ormai il silenzio era divenuto un voto vero e proprio, e il linguaggio segreto utilizzato fra di loro era sempre più impenetrabile. Si muovevano con gesti lenti, all’unisono, senza dubbio rispettando le regole di un oscuro gioco. I diversi psicologi e terapeuti non riuscirono a fare nulla per renderle più sociali, e le ragazze sprofondarono inesorabilmente nel loro rapporto esclusivo.

Le gemelle, a onor del vero, provarono ad uscire dall’isolamento attraverso la scrittura. Due dei loro romanzi, Pepsi-Cola Addict e Discomania, firmati rispettivamente da June e Jennifer, vennero pubblicati a loro spese, senza però attrarre l’attenzione sperata. Qualche breve flirt con dei ragazzi americani non portò ugualmente a nulla di importante. Il problema vero sorse quando le due cominciarono ad avere dei comportamenti delinquenziali: piccoli crimini, che culminarono però in due episodi di incendi dolosi, appiccati dalle gemelle alle scuole speciali che frequentavano. Il loro rapporto di amore si mischiava inoltre ad accessi di odio violento, visto che un giorno Jennifer aveva tentato di strangolare June con un cavo della radio, e una settimana dopo June aveva spinto Jennifer giù da un ponte nel fiume sottostante.

La risposta del sistema giudiziario fu particolarmente dura: reputate pericolose, le due ragazze vennero rinchiuse nel Broadmoor Hospital, un ospedale di massima sicurezza per malati mentali. Lì, insieme a maniaci, psicopatici e schizofrenici, passarono 14 anni della loro vita, incontrandosi soltanto in orari precisi.

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Le gemelle avevano fin dall’inizio pattuito che se una di loro fosse morta, l’altra avrebbe rotto il patto del silenzio, avrebbe cominciato a parlare, e vissuto una vita normale. Nel corso degli anni di reclusione forzata, erano arrivate alla drammatica conclusione che fosse necessario che una delle due morisse: non sarebbero mai state libere, se non tramite il sacrificio.
La loro biografa ed amica, Marjorie Wallace, raccontò il momento in cui le rivelarono il loro piano:

Portai mia figlia – credo avesse circa otto anni – a prendere il tè con le gemelle. Dovevamo passare per tutte queste porte chiuse a chiave, fino alla grande sala. Jennifer e June erano là, sempre piuttosto allegre, e ci portavano il tè su un vassoio con piccoli biscotti. Ci sedemmo e cominciammo a chiacchierare. Di colpo, nel bel mezzo della conversazione, Jennifer disse: ” Marjorie-Marjorie-Marjorie, io morirò”. Io dissi: “Non essere stupida, Jennifer. Sei in buona salute”. Mi guardò e mi disse: “Abbiamo deciso, io morirò”. […] Poi June disse: “Sì, abbiamo deciso”. Mi passarono dei biglietti, e c’era scritto che la decisione era che Jennifer sarebbe dovuta morire per liberare June. June era nata per prima, June aveva più talento, June era più estroversa. Aveva il diritto di vivere. June poteva vivere per entrambe, e Jennifer no.

Il 9 marzo 1993 le due sorelle (che allora avevano 29 anni) vennero spostate da Broadmoor alla Caswell Clinic a Bridgend, dove sarebbero state sottoposte finalmente a un regime più libero. Nel minibus che le trasportava, però, Jennifer di colpo poggiò la testa sulla spalla della sorella. June dichiarerà in seguito: “Pensavo fosse stanca. Sembrava che dormisse, ma i suoi occhi erano aperti e sbarrati”. Quando il bus arrivò alla clinica, non si riuscì a svegliare Jennifer. Portata all’ospedale, vi morì poche ore dopo.

L’autopsia rivelò che Jennifer era morta di miocardite acuta, un’infiammazione del muscolo cardiaco. Secondo gli anatomopatologi, potevano esserci circa 40 motivi diversi per una tale infiammazione; eppure il Dr. Knight, patologo, disse di non avere mai visto un cuore così severamente infiammato senza alcuna ragione evidente.

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Rimasta sola, June fu effettivamente in grado di conquistarsi una vita più comune, senza farmaci o cliniche. Ancora oggi rifugge dai riflettori dei media; conduce una vita serena e anonima aiutando di tanto in tanto i vecchi genitori, accettata finalmente dalla comunità, senza grossi problemi, e tenta di lasciarsi il passato dietro le spalle.

La morte di Jennifer resta un mistero per la medicina.