Gli schiavi dimenticati

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Persa nell’Oceano Indiano, ad est del Madagascar, l’isola di Tromelin è tra gli ultimi posti che vorreste visitare: un basso banco di sabbia e terriccio di appena 1 km², a forma di goccia, dove non cresce altro che una rada sterpaglia e praticamente privo di vita animale, se si esclude qualche tartaruga marina e qualche uccello che vi fa scalo durante la migrazione o per nidificare.

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Nel 1761 una nave della Compagnia francese delle Indie Orientali, chiamata Utile, partì dal Madagascar alla volta delle Mauritius. Nascondeva a bordo un carico “pericoloso”: più di 150 schiavi acquistati illegalmente (all’epoca la tratta dei neri era proibita nell’Oceano indiano), che sarebbero stati venduti una volta arrivati a destinazione.

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Ma l’Utile si incagliò nella barriera corallina che circonda l’isola di Tromelin, e si inabissò velocemente nelle fredde acque dell’oceano. Circa 100 fra prigionieri (chiusi nella stiva) e marinai annegarono nel naufragio, ma qualche componente dell’equipaggio e una sessantina di schiavi riuscirono a raggiungere a nuoto l’inospitale isolotto.

I marinai e gli schiavi, costretti a collaborare alla pari per sopravvivere, cominciarono a darsi da fare per cercare cibo, acqua e un modo per accendere il fuoco; nel giro di un mese, riuscirono a costruire una scialuppa che, con un po’ di fortuna, avrebbe permesso loro di raggiungere nuovamente la costa del Madagascar. L’unico problema era che sulla barca c’era posto soltanto per poche persone. Così furono gli schiavi ad essere abbandonati sull’isola, mentre i marinai prendevano il largo, dopo aver promesso che avrebbero mandato dei soccorsi appena possibile. Promessa che, purtroppo, non fu mai mantenuta.

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I sessanta schiavi inizialmente attesero fiduciosi; ma il tempo passava, e la nave che li avrebbe tratti in salvo non appariva all’orizzonte. Forse qualcuno di loro continuò ad aggrapparsi alla speranza di un salvataggio, altri invece compresero che non sarebbe arrivato mai nessuno. Ormai senza padroni, si trovavano nella beffarda situazione di essere finalmente uomini liberi e allo stesso tempo imprigionati su un lembo di terra perduto in mezzo ai flutti, battuto dai cicloni; inoltre molti di loro avevano sempre vissuto negli altipiani, lontani dal mare, e non avevano alcuna esperienza di pesca o di caccia.

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Passò il tempo, e con esso anche la memoria del naufragio, e dei superstiti abbandonati.

Nel 1775 una piccola nave che si trovava a passare vicino all’isola vi avvistò delle persone. Una scialuppa con due marinai venne calata in mare, ma si infranse sulla barriera corallina prima di raggiungere la riva: uno dei due marinai riuscì a tornare a nuoto alla nave, l’altro si ritrovò sulla spiaggia, assieme ai naufraghi superstiti. La nave fu costretta a fare ritorno al porto. Restato sull’isola, e timoroso di venire anch’egli abbandonato, il marinaio costruì una zattera e convinse tre uomini e tre donne fra gli schiavi ad accompagnarlo nell’impresa. Morirono tutti dispersi nel mare.

Finalmente, nel 1776, ben 15 anni dopo il naufragio dell’Utile, la nave da guerra bretone La Dauphine, guidata dal capitano Bernard Boudin de Tromelin (che avrebbe dato il suo nome al luogo, fino ad allora chiamato semplicemente l’Île des Sables) riuscì a sbarcare sull’isola. Vi trovò, incredibilmente, ancora qualche sopravvissuto: sette donne e un bambino di otto mesi. Durante l’interminabile attesa, gli schiavi avevano costruito dei ripari, aggiustato oggetti in rame recuperati dal naufragio, nutrendosi dei pochi animali che erano riusciti a cacciare e lottando con tutte le loro forze per continuare a vivere.

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L’incredibile storia degli schiavi di Tromelin sarebbe potuta rimanere sepolta per sempre. Ma un ex-ufficiale di Marina francese, Max Guérout, ne resta affascinato ed ossessionato dopo che un amico metereologo gli racconta di aver trovato un’ancora antica sull’isola. Guérout, appassionato di storia di naufragi, setaccia gli archivi della Compagnia delle Indie e riporta alla luce la drammatica vicenda storica: nel 2006 presenta quindi un progetto di campagna archeologica sull’isola Tromelin al comitato scientifico dell’UNESCO (di cui egli stesso fa parte), proprio nell’anno in cui si commemora l’abolizione dello schiavismo. La sua proposta ottiene il suffragio di tutto il comitato, e da quel momento verranno eseguite delle spedizioni scientifiche nel 2006, 2008, 2010 e 2013.

L’obbiettivo è cercare di comprendere come i naufraghi abbiano potuto sopravvivere così a lungo, e che tipo di micro-società si sia venuta a creare fra di loro. Gli alisei e i cicloni hanno sepolto sotto progressivi strati di sabbia i resti degli accampamenti, dei rifugi e degli utensili, preservandoli in maniera eccezionale: il team di ricerca è riuscito a disseppellire una quantità notevole di manufatti, resti di mura e abitazioni, utensili e perfino alcuni scheletri umani.

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Dal 2010 si aggiunge al team anche Bako Rasoarifetra, archeologa malgascia, il cui contributo è fondamentale per comprendere appieno la filosofia di vita e la cultura a cui quegli antichi schiavi appartenevano. Quando ad esempio viene scoperto fra le sabbie un pointe-déméloir, uno spillone per capelli tradizionale, l’archeologa si commuove:

Noi donne malgasce abbiamo l’abitudine di separarci i capelli con questo strumento che ci viene offerto dagli uomini. Le donne schiave avevano il cranio rasato; una volta divenute libere, hanno dunque lasciato ricrescere i capelli e i maschi hanno confezionato loro questo pointe-déméloir. Ai miei occhi, questo è un simbolo definitivo di libertà su questa isola lontano da tutto.

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Proprio grazie a lei, gli studiosi hanno perfino tenuto una piccola cerimonia funebre per gli schiavi morti, i cui scheletri sono tornati alla luce.

Non abbiamo trovato le sepolture vere e proprie, ma è importante procedere alle seconde esequie, perché così si perpetua il ricordo, si risveglia la memoria; coloro che muoiono sono i nostri antenati e continuano a proteggerci, dobbiamo onorarli.

L’isola nasconde ancora molti segreti e interrogativi, a cui Max Guérout e la sua équipe di antropologi, archeologi, genetisti e altri scienziati sperano di dare una risposta: quale fu la principale causa di decesso? Vi furono delle lotte intestine fra i sopravvissuti?

Dopo 250 anni di silenzio, gli scavi potranno finalmente raccontarci i dettagli del tragico destino di questo gruppo di uomini e donne: ridotti in schiavitù, sopravvissuti ad un naufragio, e infine abbandonati a morire su un’isola deserta, tutto questo senza mai darsi per vinti.

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Ecco la pagina (in francese) che contiene i diari giornalieri delle varie spedizioni sull’isola di Tromelin. Sempre se conoscete il francese, non perdetevi questo affascinante e dettagliato documentario, che racconta le scoperte di Max Guérot negli archivi della Marina e durante il suo lavoro sul campo.

(Grazie, Carlo!)

Le fate crudeli

Dite addio a Campanellino, e alle graziose fate delle fiabe della vostra infanzia. Ecco che arrivano le aggressive, violente, rissose fate di Tessa Farmer.

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Tessa Farmer è nata a Birmingham, nel Regno Unito, nel 1978. Diplomatasi alla Ruskin School of Drawing & Fine Art di Oxford, le sue incredibili opere le hanno già fruttato numerosi premi e riconoscimenti. Si tratta di installazioni del tutto particolari, in quanto realizzate unicamente con materiale biologico: insetti, piccoli animali, foglie, rametti, ecc.; ma la peculiarità delle sculture è di essere talmente minuscole che per apprezzarne appieno i dettagli è necessaria una lente d’ingrandimento. Il lungo e laborioso lavoro di assemblaggio dà vita a degli impressionanti diorami le cui protagoniste assolute sono proprio le fate, create con ali di insetto e un intreccio di microscopiche radici.

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Ma le fate di Tessa Farmer sono, come dicevamo, molto distanti dalla raffigurazione iconografica tradizionale e folkloristica: si tratta di piccole creature scheletriche, orribili, dall’espressione e dai modi truci.

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Ogni diorama raffigura un differente massacro ad opera dell’armata dei bellicosi esserini alati. L’opera intitolata The Resurrection Of The Rat (2008), viene presentata ufficialmente così:

Le fate hanno catturato, ucciso e mangiato la carne del ratto, prima di rilavorare la sua struttura ossea al fine di creare un’architettura multifunzionale. C’è una sezione adibita a gabbia, un nido di vespe e diverse aree per esperimenti e torture.

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Ancora più fantastica e terribile la descrizione dell’installazione chiamata The Desecration Of The Swallow, del 2007:

Le mosche stavano deponendo le uova sulla rondine, e le loro larve stavano consumandola, finché le fate gliela sottrassero, e la fecero volare nuovamente imbrigliando insetti alati al suo corpo. Ora è divenuta una nave nella loro flotta, oltre che un pasto.

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Le opere di Tessa Farmer, fantasie macabre e dalla crudele ironia, colpiscono lo spettatore non soltanto per la complessità della loro realizzazione ma soprattutto per il modo in cui giocano con il nostro immaginario, capovolgendo le connotazioni classiche associate alla figura delle fate. Da sempre simbolo della Natura incontaminata e magica (benefica), esse sono qui proposte come esponenti della parte più inquietante del regno animale: quella dell’aggressione parassitaria, dello sfruttamento al di là dei fini alimentari, del sadismo, della carneficina.

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Ma le apocalissi in miniatura della Farmer suggeriscono anche un secondo livello di lettura. Forse, ciò che rende questi esserini talmente odiosi è la loro sospetta, inquietante somiglianza con la specie umana.

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Ecco il sito ufficiale di Tessa Farmer.

Puntaspilli e fontane… umani

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Human pincushion. Puntaspilli umani. Questo è il nome che veniva dato a quegli artisti che, all’interno dei sideshow, si conficcavano spilli e lame nella carne. Si trattava di un tipo di spettacolo estremo, affine a quello dei fachiri mediorientali, che come spesso accadeva nell’ambito circense faceva bella mostra dei limiti insospettabili del corpo umano.

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Esattamente come succedeva per i mangiatori di spade, anche qui non si trattava di un trucco: i performer si bucavano veramente la pelle, avendo scoperto i punti che in misura minore rispondevano alla violenza degli spilloni, e si procuravano delle ferite superficiali non molto distanti dagli odierni piercing. Ma all’epoca un simile spettacolo causava spesso malori nel pubblico, se non (a detta degli organizzatori) dei veri e propri infarti.

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Ma, tra tutte le decine di “puntaspilli umani” che calcavano i palcoscenici di mezzo mondo, ce n’erano un paio di davvero incredibili. Erano le “fontane umane”, come ad esempio il misterioso Mortado.

La vita di Mortado rimane in gran parte sconosciuta: secondo la biografia che veniva raccontata nel sideshow, egli era nato a Berlino ed aveva combattuto durante la Prima Guerra Mondiale; si era esibito per la prima volta nel gennaio del 1929 prima di incontrare un agente di New York che gli aveva fatto firmare un contratto con il Dreamland Circus per la stagione estiva del 1930. Ma è difficile prendere per oro colato queste informazioni, visto che la stessa biografia sosteneva che le sue ferite fossero il risultato delle torture di fantomatici “selvaggi nativi”.

Fatto sta che Mortado aveva dei buchi nei palmi delle mani e dei piedi: quando non stava recitando sul palco, manteneva queste ferite aperte inserendovi dei tappi di sughero. Una volta iniziato lo spettacolo, si sedeva su un trono speciale dotato di tubi di rame che, inseriti nelle ferite aperte, lo trasformavano in una vera e propria fontana umana.

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Mortado, di tanto in tanto, proponeva una crocifissione biblica in diretta. Piazzava delle piccole sacche di liquido rosso nelle sue ferite, e lasciava che un assistente gli piantasse dei chiodi nelle mani e nei piedi: i sacchetti si rompevano, il sangue finto scorreva, e diverse persone nel pubblico svenivano.

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Mentre la fama di Mortado diminuiva, fino a farlo scomparire nell’oblio, un altro uomo diveniva celebre per le sue doti sovrannaturali: l’olandese Mirin Dajo.

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Il suo nome d’arte, in esperanto, significa “il meraviglioso”. Era nato nel 1912 a Rotterdam, con il nome di Arnold Gerrit Henskes. Mirin Dajo portò l’arte del puntaspilli umano a vette inarrivabili, eppure nascondeva un segreto molto più interessante.

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Il suo spettacolo era davvero estremo: Mirin Dajo, con l’aiuto di un assistente, si faceva trapassare da una vera spada. La lama attraversava diversi organi vitali, senza sortire effetti nefasti. Le ferite, che avrebbero portato alla morte certa qualsiasi altro essere umano, sembravano non preoccupare Dajo che riusciva a camminare e muoversi perfino quando la spada aveva infilzato reni, fegato, polmoni o (secondo alcuni testimoni) addirittura il cuore. Senza la minima traccia di sangue.

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In diverse occasioni alle lame vennero sostituiti dei tubi che, un po’ come faceva Mortado, pompavano acqua rendendo il corpo di Dajo una spettacolare fontana.

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Tra i fachiri orientali non è inusuale un tipo di impresa simile: ma normalmente essi si trapassano gli strati grassi e “sicuri” del corpo, là dove una spada risulta, se non innocua, perlomeno non fatale. Mirin Dajo, invece, si bucava proprio nei punti più pericolosi. Come faceva? questione di fortuna, di fede, o di un apparato biologico unico?
Venne sottoposto a diversi test medici, a Basilea, per cercare di comprendere quale fosse il segreto della sua peculiare abilità. I dottori dell’epoca, nonostante le radiografie e le analisi, non riuscirono a capire come potesse Dajo sopravvivere a simili ferite traumatiche.

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Ma Mirin Dajo aveva uno scopo ben più nobile. Era estremamente religioso, e convinto di essere in contatto con tre angeli custodi con i quali comunicava telepaticamente: si era risoluto ad entrare nel mondo dello spettacolo non perché lo amasse, ma semplicemente perché gli sembrava il modo più facile e veloce per diffondere il messaggio che sentiva di dover consegnare all’umanità. Un messaggio di pace, di amore e di abbandono del materialismo. Dopo ogni performance, cercava di impartire un breve e ispirato discorso al suo pubblico. Era sicuro che, di fronte al suo corpo indistruttibile, la gente avrebbe cominciato a credere a una forza che andava al di là della pura materia. Che il suo esempio sarebbe stato un simbolo dell’uomo che resiste alla morte, e avrebbe reso futili le guerre, l’odio, la violenza.

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Purtroppo si trovò ben presto frustrato dallo show business, che non sapeva che farsene delle sue prediche misticheggianti; la sua carriera durò soltanto tre anni (come quella di Cristo, noteranno i più cinici), prima che Mirin Dajo morisse il 26 maggio del 1948, a causa di una perforazione dell’arteria aortica, forse proprio in seguito a uno dei suoi spettacoli “sovrumani” in cui aveva ingerito un chiodo che gli risultò fatale.

Le esequie dei Toraja

Sulawesi è un’isola della Repubblica Indonesiana, situata ad est del Borneo e a sud delle Filippine. Nella provincia meridionale dell’isola, sulle montagne, vivono i Toraja, etnia indigena di circa 650.000 persone. I Toraja sono famosi per le loro abitazioni tradizionali a forma di palafitta e dal tetto allungato, chiamate tongkonan, e per le colorate fantasie geometriche con cui intagliano e decorano il legno.

Ma i Toraja sono noti anche per i loro complessi ed elaborati rituali funebri. Essi risalgono ad un’epoca remota, quando i Toraja seguivano ancora la loro religione politeistica tradizionale, chiamata aluk (“la Via”, un sistema di legge, fede e consuetudine); quest’ultima, con il tempo e a causa della lunga guerra contro i musulmani, è oggi divenuta un miscuglio di cristianesimo ed animismo.
Sebbene molti dei rituali “della vita”, cioè quelli propiziatori e purificatori, siano man mano stati abbandonati, le cerimonie “della morte” sono rimaste pressoché invariate.

Per i Toraja, la morte di un membro della famiglia è un evento di fondamentale importanza, e le celebrazioni funebri sono lunghe, complesse ed estremamente dispendiose, tanto da essere probabilmente il principale momento di aggregazione sociale per l’intera popolazione. Più il morto era potente o ricco, più le cerimonie sono fastose: se si tratta di un nobile, il funerale può contare migliaia di partecipanti. A spese della famiglia, in un campo prescelto per i rituali vengono costruite delle tettoie e dei gazebo per ospitare il pubblico, dei depositi per il riso, e altre strutture apposite; per diversi giorni ai pianti e alle lamentazioni si alternano la musica dei flauti e la recitazione di poemi e canzoni in onore del defunto.

Il momento culminante è il sacrificio degli animali – maiali, bufali, polli: ancora una volta, il numero varia a seconda dell’influenza sociale del morto. La lama del machete può abbattersi anche su un centinaio di animali. Particolarmente importanti sono però i bufali d’acqua: oltre ad essere le bestie più costose, sono quelle che assicureranno al morto l’arrivo più celere al Puya, la terra delle anime. Le loro carcasse vengono lasciate in fila sul prato, in attesa che il loro “proprietario” sia partito per il suo viaggio, alla conclusione dei funerali. In seguito, la loro carne verrà spartita fra gli ospiti, mangiata o venduta al mercato.

Viste le enormi spese da sostenere, la famiglia impiega spesso anche anni a cercare i fondi necessari per la cerimonia. Di conseguenza, i funerali si svolgono molto tempo dopo il decesso; in questo periodo di attesa, l’anima del morto è considerata ancora presente a tutti gli effetti e si aggira per il villaggio. Quando finalmente i funerali si sono compiuti, il suo corpo viene seppellito in un cimitero scavato all’interno di una parete di roccia, e un’effigie con le sue fattezze (chiamata tau tau) viene posta a guardia della tomba.

Se invece il morto era meno abbiente, la bara viene fissata proprio sul ciglio della parete, o in alcuni casi sospesa tramite delle funi. I sarcofagi rimarranno appesi fino a quando i sostegni non marciranno, facendoli crollare.

Anche i bambini vengono tumulati in questo modo, ma talvolta è riservato loro un posto in particolari loculi scavati all’interno di grandi tronchi d’albero.

Con questa prima sepoltura, però, il rapporto dei Toraja con i loro morti non è affatto finito. Ogni anno, in agosto, si svolge la cerimonia chiamata Ma’Nene, durante la quale i cadaveri dei defunti vengono riesumati.

I corpi mummificati vengono lavati, pettinati e vestiti in abiti nuovi dai familiari; nel caso fossero rimaste soltanto le ossa, invece, queste vengono comunque lavate e avvolte in stoffe pregiate.

Una volta che i rituali di cosmesi sul cadavere sono completati, i morti vengono fatti “camminare”, tenendoli ritti, e portati in giro per il villaggio. Questa parata, al di là delle valenze religiose, si colora del vero e proprio orgoglio di esibire i propri antenati: la gente li ammira, li tocca, e si scatta delle fotografie assieme a loro. Il Ma’Nene è il segno dell’amore dei parenti per il morto che, in effetti, non potrebbe essere più “vivo” di così.

Alla fine di questa processione d’onore, la salma viene seppellita per la seconda volta, nel suo luogo di ultimo riposo. Completato finalmente il passaggio del morto nell’aldilà, viene così sancita la sua appartenenza agli antenati, ogni sua ira è scongiurata, ed egli diviene una figura esclusivamente positiva, alla quale i discendenti potranno permettersi di chiedere protezione e consiglio.

Il rito del Ma’Nene può sembrare inusuale ed esotico ai nostri occhi odierni, abituati all’occultamento della morte e della salma, ma non è esattamente così: anche in Italia la riesumazione e l’affettuosa pulitura del cadavere fa parte della cultura tradizionale, come abbiamo spiegato in questo articolo.

Molte delle foto che trovate in questo post sono state scattate dall’amico Paul Koudounaris, il cui spettacolare libro fotografico Memento Mori dà conto dei suoi viaggi nei cinque continenti alla ricerca dei costumi funerari più particolari.

(Grazie, Gianluca!)

Il palo del barbiere

Il palo del barbiere è un’insegna antichissima, che distingue questa attività sin dal Medioevo. Si tratta di un’asta più o meno lunga, con un pomo di bronzo all’estremità, e una spirale di strisce bianche e rosse che ne percorre la lunghezza (nella versione americana, compare anche il colore blu). Ma che significato ha?

Nell’antica Roma, farsi radere la barba era un implicito dovere di ogni adulto che non volesse sfigurare in società: se un uomo non era rasato, o era un filosofo o era un soldato, oppure… un barbone, appunto. Di conseguenza i tonsor erano fra i professionisti più pagati fra tutti, tanto che poeti satirici come Marziale o Giovenale non perdono occasione di ironizzare sugli ex-barbieri divenuti nobili cavalieri, che devono il loro successo alla forfex più che alla spada.


Nel Medioevo, però, i barbieri assunsero anche un’altra funzione. Fra il 1123, anno del primo Concilio Lateranense, e il 1215, anno del quarto Concilio Lateranense, ai sacerdoti cattolici e ai diaconi venne proibito di praticare la medicina a discapito della loro funzione ecclesiastica. Fino ad allora, infatti (ne avevamo già parlato in questo articolo) erano proprio i religiosi che, edotti di anatomia, curavano i malati e spesso eseguivano piccole operazioni. Quando la Chiesa cominciò ad esigere il distacco da queste pratiche, furono i barbieri ad occupare la “nicchia” di lavoro appena liberatasi.

Nella bottega del barbiere quindi non ci si recava solo per tagliarsi i capelli o regolare la barba: in condizioni igieniche a dir poco aberranti, venivano svolti anche servizi quali l’incisione di ascessi, la ricomposizione delle fratture, l’estrazione di denti marci e la rimozione (lenta e paziente) di pidocchi, pulci e zecche.


Ma nessuno di questi compiti era importante quanto la vera specialità dei barbieri: il salasso. Il prelievo di sangue (flebotomia) è un rimedio antico come il mondo, praticato già nell’antica Mesopotamia e in Egitto; la terapia, oggi ovviamente abbandonata, si basava sull’idea che il cibo si trasformasse in sangue all’interno del fegato, e venisse poi consumato con l’esercizio fisico: ma se questo sistema non funzionava correttamente, il sangue poteva ristagnare nel corpo, causando diversi disturbi, come mal di testa, febbre, fino addirittura all’infarto. Il controllo e il bilanciamento degli umori avveniva tramite l’incisione delle vene (o l’applicazione di sanguisughe, vedi questo post) in combinazione con farmaci emetici, per indurre il vomito, o diuretici.


I chirurghi veri e propri ritenevano l’arte del salasso una pratica minore, ben al di sotto del loro status, e spedivano dal barbiere tutti i pazienti a loro parere curabili con un semplice prelievo di sangue.

Come altri artigiani, i barbieri si ingegnarono presto per trovare un modo di pubblicizzare la propria attività: ma all’inizio non ci andarono tanto per il sottile. Nella Londra medievale, ogni bottega esponeva alla finestra dei grandi boccali ripieni del sangue dei clienti, in modo che anche il più distratto dei passanti li notasse.

Nel 1307, la gente di Londra decise che ne aveva abbastanza di questi vasi ripieni di sangue putrido e coagulato, e venne emanata una legge che ordinava: “nessun barbiere sarà così temerario o ardito da mettere sangue nelle finestre”. La stessa legge imponeva ai barbieri di disfarsi dei liquidi corporali portandoli fino al Tamigi, e lanciandoli nel fiume.

Così la gilda dei barbieri si organizzò per trovare un simbolo meno cruento che pubblicizzasse i servizi offerti: ecco che comparve il palo. L’asta rimandava al palo che veniva dato da stringere al paziente durante il salasso, in modo che il braccio restasse orizzontale e le vene risultassero ben visibili a causa dello sforzo. Il pomo in bronzo all’estremità simboleggiava invece il vaso in cui il sangue si raccoglieva.


Le strisce bianche e rosse all’inizio non erano affatto pitturate: si trattava delle bende insanguinate che venivano appese al palo ad asciugare, come prova dell’operazione avvenuta con successo; le bende, nel vento, si attorcigliavano all’asta. Con il tempo, si prese a dipingere direttamente il palo con la spirale bianca e rossa.

Nel XVIII secolo le gilde di chirurghi e barbieri vennero distinte e regolate per legge, e i barbieri furono relegati alla sola tosatura dei capelli, prima in Inghilterra e poi nel resto dell’Europa. Questa perdita di prestigio dei barbieri coincide con la nascita della cosiddetta medicina moderna, intorno alla metà del 1700; ma l’insegna con il palo è rimasta fino ai giorni nostri. Ne esistono diverse varianti, spesso luminose e motorizzate: in America, viene usata anche una striscia blu, oltre a quelle rosse e bianche, forse a distinguere il sangue venoso da quello arterioso – o, molto più probabilmente, per richiamare i colori della bandiera. Anche in Italia può capitare di vedere ancora qualche esercizio che espone il palo multicolore, anche se fortunatamente il salasso non è più annoverato fra i servizi offerti dai moderni saloni di barbiere.

La morte e la fanciulla

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Nella cultura occidentale, Eros e Thanatos sono interconnessi da sempre: il desiderio sessuale, che è esuberanza di vita, si rispecchia nel suo opposto, certo, ma talvolta vi coincide, trasfigurandosi. L’espressione francese la petite mort, usata per riferirsi all’orgasmo, fiorisce dall’idea che l’unione fisica sia una vera e propria fusione dei sensi – quindi annullamento dell’io e abbandono dell’identità singola. L’erotismo, scrive Bataille, “apre la strada alla morte. La morte apre la strada alla negazione delle nostre vite individuali”: per Foucault implica “l’esperienza della finitezza dell’essere, del limite e della trasgressione”, e nell’erotismo moderno le uniche forme di trasgressione ancora possibili sono quelle che vanno dal naturale al contro-naturale – verso la macchina, la bestia e il cadavere.

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La vicinanza di amore e morte è talmente presente nell’arte e nella letteratura (soprattutto nell’ 800, si pensi al topos della “bella morta” che attraversa le opere dei preraffaelliti come di Poe, Baudelaire e dei romantici) che sorprende quanto invece le indagini psichiatriche sulla necrofilia siano, in confronto, rare e sporadiche.

Pur accettandone le versioni artistiche e in qualche modo mascherate dal simbolo, sembra quasi che il desiderio necrofilo fosse per gli studiosi il più orrendo e abominevole dei tabù: perfino Freud si rifiuta di parlarne approfonditamente e, dopo averlo menzionato in una sola frase, esclama: “Ma basta con questo tipo di orrore!” (La vita sessuale). Bisognerà aspettare il 1989 per il primo vero studio sull’argomento, ad opera di Rosman & Resnick, che analizzarono 122 casi e suddivisero questa parafilia in tre tipi: omicidio necrofilo, necrofilia regolare e fantasia necrofila – distinguendoli ulteriormente dalla cosiddetta pseudonecrofilia (quando cioè l’atto necrofilo è opportunista o incidentale). Nel 2011 Aggrawal pubblica l’unica ricerca interdisciplinare davvero approfondita, Necrophilia: Forensic and Medicolegal Aspects, che suggerisce nuove e più dettagliate classificazioni.

Escludendo le derive più estreme (assassinio, mutilazioni, cannibalismo), nella maggioranza dei casi il necrofilo è una persona dalla bassa autostima, che ha provato il sesso tradizionale e ne è rimasto insoddisfatto o umiliato: la motivazione più comune che spinge il necrofilo a desiderare il contatto con i morti è il bisogno di un partner che non opponga resistenza e che non possa rifiutarlo. In altri casi, essendo stato esposto in giovane età al contatto con un morto, il terrore provato è stato trasformato in pulsione sessuale, come spesso accade nei feticismi. Seguendo la sua fissazione, il necrofilo ricerca occupazione in luoghi di lavoro che consentano un accesso più facile ai cadaveri, come ospedali o agenzie funebri. Non è raro che la necrofilia si sviluppi in direzione “romantica”, acquisendo cioè una componente di affetto reverenziale per la salma, che non viene semplicemente violata ma spesso accarezzata, confortata, come se fosse possibile donarle ancora gioia o piacere. Alcuni necrofili hanno espresso il loro disgusto per gli operatori funebri che mostrano poco rispetto per i morti: paradossalmente, nella loro fantasia, il cadavere non è un morto, e deve essere nuovamente umanizzato, “riportato in vita”, cioè considerato come una persona vera e propria.

Nella nostra immaginazione la figura del necrofilo è sempre maschile, e la sua “preda” una giovane e bella donna. Ma cosa accade quando la parte attiva è una donna, e il partner inerme e indifeso un uomo?

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Come nota Lisa Downing nel suo saggio sulla necrofilia nella letteratura francese dell’ 800, Desiring The Dead, il ripetuto focalizzarsi sulla penetrazione del cadavere negli scritti medici ha implicitamente relegato la necrofilia al regno della perversione maschile; pur essendo questa parafilia piuttosto rara (almeno stando alle statistiche forensi), la percentuale femminile si aggira attorno al 10-15% dei casi di cui siamo a conoscenza.

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Nel 1979 in California, all’età di 23 anni, Karen Greenlee era alla guida di un carro funebre: doveva consegnare una salma di un uomo di 33 anni al cimitero per il funerale. Decise invece di scappare con il morto, e venne trovata due giorni dopo, ancora in compagnia del cadavere. All’epoca non c’erano leggi in California contro la necrofilia, quindi la Greenlee venne denunciata per furto di autoveicolo e per disturbo di cerimonia funebre. Ma nella bara venne trovata una lettera in cui Karen dettagliava i suoi incontri erotici con altri 40 cadaveri maschili, e la donna fu bandita dalla professione. In seguito, la madre del morto che Karen aveva sequestrato la citò per danni morali ed emotivi, e la Greenlee venne condannata a un periodo di carcere, una multa e un forzato trattamento psichiatrico.

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Nel 1985, poco prima di ritirarsi a vita privata sotto nuovo nome, Karen Greenlee accettò di essere intervistata dal giornalista Jim Morton, in un articolo che diverrà noto con il titolo The Unrepentant Necrophile (“la necrofila impenitente”). Si tratta di un documento straordinario, per più di un motivo. Se inizialmente provava vergogna per i suoi desideri, all’epoca dell’intervista Karen sembra aver ormai accettato la sua condizione, e non è certo timida nel descrivere ciò che le piace:

il freddo, l’aura di morte, l’odore della morte, l’ambiente funerario… trovo l’odore della morte molto erotico. C’è odore e odore. Se prendi un corpo che ha galleggiato nella baia per due settimane, o una vittima di incendio, ecco, quello non mi attrae molto, ma un corpo imbalsamato di fresco è tutta un’altra cosa. C‘è anche questa attrazione per il sangue. Quando stai sopra a un corpo, tende a espellere sangue dalla bocca, mentre fai l’amore appassionatamente…

Nelle sue parole, il cadavere è oggetto d’amore e regala un’euforia particolare, quasi estatica; racconta inoltre di come si è introdotta di notte in obitori e tombe, e dice di essere stata sorpresa nell’atto più di una volta, senza conseguenze troppo gravi. Ma forse il momento più interessante è quando afferma che la domanda più comune che la riguarda è sempre la stessa: “come fa esattamente?”.

Per me non è un problema dire come lo faccio, ma chiunque abbia un po’ di esperienza sessuale non dovrebbe avere bisogno di chiederlo. La gente ha questo pregiudizio che ci debba per forza essere la penetrazione per la gratificazione sessuale, che è una stupidaggine! La parte più sensibile di una donna è comunque la parte frontale, e quella va stimolata. A parte questo, ci sono differenti aspetti dell’espressione sessuale: il contatto fisico, il 69, anche semplicemente tenersi per mano.

Il fatto che Karen Greenlee denunci la nozione fallocentrica e l’eccessiva importanza data alla penetrazione, è assolutamente in linea con la sua figura trasgressiva: questa donna infrange il tabù del sesso con i morti, e al tempo stesso inverte le gerarchie e i ruoli tradizionalmente femminili. Se n’è accorta Lena Wånggren, che nel suo saggio Death And Desire parla della necrofilia femminile come tragressione di genere: qui è la donna a “cacciare” e possedere, e il maschio diviene inerme e inanimato – l’esatto opposto della consueta figurazione che vede il maschio attivo e la femmina come passivo ricettacolo per la procreazione. La Greenlee non soltanto riduce il maschio a un oggetto, ma lo priva anche del mito del pene e della penetrazione.

In effetti, sembra che a suscitare scandalo sia proprio questo aspetto, ancor più che la necrofilia in sé: la Greenlee ricorda un fidanzato che, quando scoprì i suoi desideri, la schiaffeggiò e le disse che “non ero nemmeno una donna, e potevo andare a scoparmi i miei morti”. Ricorda anche uomini convinti di riuscire a “curarla”:

I ragazzi pensavano sempre che andassi alla ricerca di corpi morti perché mi mancava qualcosa, e che se fossi stata con loro mi avrebbero cambiato, e che loro erano quelli in grado di soddifarmi così tanto che non avrei più avuto bisogno dei cadaveri.

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La storia di Karen Greenlee ha ispirato nel 1992 il racconto We So Seldom Look On Love di Barbara Gowdy, da cui è stato in seguito tratto il film Kissed (1996) di Lynne Stopkewich. Entrambe le opere seguono piuttosto fedelmente la vicenda della Greenlee, e ne approfondiscono ulteriormente gli aspetti legati alla trasgressione dei comportamenti sessuali di genere.