La Svizzera, si sa, è un posto tranquillo e la capitale elvetica, Berna, accoglie il visitatore con il distillato delle migliori attrattive nazionali: aria fresca, cucina prelibata, pulizia, precisione e ordine. Il centro storico della città è perfettamente conservato, e sorge sulla penisola all’interno di un’ansa del fiume Aare. Proprio nel cuore di questo gioiello di architettura medievale, quasi a contrastare con l’operosa ma placida atmosfera della Kornhausplatz, si erge un simbolo tutt’altro che mite e sereno. Si tratta del Kindlifresser, il Mangiatore di Bambini.
Alla base della colonna decorata, il fregio mostra degli orsi bruni (simbolo della città), armati di tutto punto, che partono per la guerra suonando strumenti militari come una cornamusa e un tamburo. In alto, invece, ecco il vero protagonista della composizione: un orco, appollaiato su un capitello corinzio, si infila in gola un bambino nudo, mentre altri neonati spuntano da un sacco per le provviste.
La Kindlifresserbrunnen, costruita nel 1546, è una delle fontane più antiche della città, ed è anche un esempio di come la storia e la cultura possano talvolta “perdersi” e venire dimenticate: oggi, infatti, nessuno sa perché quella statua stia lì, e quale fosse il suo significato originario.
Quello che si sa di certo è che l’autore della scultura è Hans Gieng, a cui secondo gli studiosi si devono quasi tutte le splendide fontane cinquecentesche che adornano la Città Vecchia, come ad esempio il bellissimo Sansone che uccide il leone (Simsonbrunnen). Ma, a differenza delle altre, l’orco che divora i bambini non è una rappresentazione classica facilmente comprensibile, e non essendo rimasto negli archivi nessun accenno al suo senso allegorico originale, per gli storici il Kindlifresser rimane un mistero.
Le teorie sono diverse. Secondo alcuni, potrebbe trattarsi di una raffigurazione di Crono, il Titano della mitologia Greca che, per non essere spodestato dai propri figli, li divorò ad uno ad uno mentre erano ancora in fasce (unico sopravvissuto: Zeus).
Un’altra teoria vede nella grottesca figura una sorta di monito per la comunità ebraica della città. In effetti pare che il vestito del Kindlifresser fosse originariamente pitturato in giallo, colore dei Giudei; anche il copricapo che indossa ricorda effettivamente il cappello conico imposto in Germania agli ebrei askenaziti, assieme alla rotella cucita sulle vesti o sul mantello. Se questo fosse vero, la statua avrebbe avuto allora un intento denigratorio collegato alla cosiddetta “accusa del sangue“, cioè alla diceria che gli israeliti praticassero sacrifici e omicidi rituali.
Ma le ipotesi non si fermano qui. C’è chi suppone che il Kindlifresser sia il fratello maggiore del Duca Berchtold V. von Zähringen, fondatore di Berna, che in un accesso di follia avrebbe mangiato i bambini della città; secondo altri, il personaggio misterioso sarebbe il Cardinale Matthäus Schiner, comandante militare in diverse battaglie nel Nord Italia; secondo altri studi potrebbe trattarsi di uno spauracchio pensato perché i bambini stessero alla larga dalla celebre fossa degli orsi che si apriva lì vicino; infine, l’inquietante figura potrebbe semplicemente essere una maschera collegata alla Fastnacht, il Carnevale nato proprio nelle prime decadi del 1500 e ancora oggi celebrato in Svizzera.
La ridda di congetture non intacca la foga con cui il Kindlifresser, da 500 anni, consuma il suo crudele pasto; spaventando i bambini bernesi, attirando frotte di turisti e ispirando artisti e scrittori.
Castrillo de Murcia è un piccolo borgo di 500 anime nella provincia di Burgos, nella Spagna del Nord. Il paesino è sonnacchioso, e non vi succede nulla di eclatante; ma per un giorno all’anno, Castrillo si guadagna l’attenzione dei media e di un manipolo di turisti incuriositi dalla strana tradizione che vi si svolge da quasi 400 anni.
Nata nel 1620, la festa di El Colacho si svolge nel giorno del Corpus Domini (in Maggio o in Giugno), ed è curata dalla Confraternita del Santísimo Sacramento de Minerva. Un prescelto si veste con un abito tradizionale dai colori sgargianti che ricordano le fiamme dell’Inferno: si tratta infatti di una vera e propria personificazione del Diavolo, che indossa una minacciosa maschera di sapore carnevalesco. El Colacho si aggira per le vie paesane, accompagnato in processione dai membri della Confraternita, e rincorre di tanto in tanto i passanti e i bambini, frustandoli giocosamente con una sorta di gatto a nove code.
Ma è la seconda parte della processione che è la più impressionante. Giunto nella piazza cittadina, El Colacho si appresta al rituale tradizionale che ha reso celebre la festività. Vengono preparati dei materassi, su cui sono adagiati dei bambini, tutti rigorosamente nati nei dodici mesi precedenti: alcuni degli infanti piangono, altri ridono, altri ancora dormono di gusto.
Ed ecco che, una volta pronti questi affollati lettini, El Colacho prende la rincorsa e comincia a saltarli, uno dopo l’altro, atterrando a pochi centimetri di distanza dalle testoline dei piccoli. Un passo falso potrebbe essere davvero pericoloso: ma, a quanto si dice, fino ad ora non si è mai verificato alcun incidente.
Perché una madre dovrebbe voler posizionare il proprio figlioletto di pochi mesi sul materassino, affinché un uomo vestito da diavolo vi salti sopra, di fronte a una folla plaudente? Il rito, secondo la credenza popolare, è salvifico e benefico: il passaggio di El Colacho rimuove il Peccato Originale, e porta con sé ogni male, proteggendo i neonati dalle malattie.
Ovviamente, la Chiesa non si limita a storcere il naso di fronte a questo tipo di tradizioni, ma le condanna apertamente, poiché secondo la dottrina ufficiale soltanto il sacramento del battesimo può sollevare il peso del Peccato Originale. Ma gli abitanti di Castrillo de Murcia, per quanto devoti, non rinuncerebbero per niente al mondo alla loro tradizione: si è sempre fatto così, e tutti coloro che battezzano i propri figli in questo strano modo sono stati a loro tempo sottoposti al salto del Colacho.
Se il salto del Colacho può sembrare estremo e pericoloso, non è nulla in confronto al battesimo che si celebra in alcune parti dell’India, in particolare negli stati di Karnataka e Maharashtra; si tratta di un rito praticato indistintamente da musulmani ed induisti.
Un uomo scala con una corda le mura del tempio, mentre sulla sua schiena penzola un secchio. Una volta arrivato in cima, il devoto mostra a tutti il contenuto del secchio – un bambino (di massimo due anni): dal tetto, alto una decina di metri, esibisce il neonato alla folla sottostante, tenendolo per le braccia e i piedini. Dopo aver invocato la protezione divina, di colpo lo lancia nel vuoto.
Nella piazza, una quindicina di uomini stanno aspettando l’atterraggio del bambino, tendendo una coperta per salvarlo. Il piccolo rimbalza sul telone, viene acchiappato al volo, rapidamente fatto passare di mano in mano e riconsegnato alla madre o al padre. Il tutto dura pochi secondi, anche se ci vogliono svariati minuti perché il bambino si riprenda dallo shock.
Il salto, ancora una volta, ha lo scopo di portare fortuna e salute al neonato; per la sua pericolosità, si tratta comunque di un rituale controverso, e diverse associazioni per i diritti umani hanno cercato di proibirlo. Nel 2011 queste proteste sono state ufficialmente ascoltate, ma la legge che mette al bando tale pratica è regolarmente ignorata dai fedeli, e perfino la polizia preferisce non interferire con i riti.
Visto anche il carattere sensibile della questione, è facile immaginare lo scandalo e la rabbia di chi è estraneo a questo tipo di tradizioni, e certamente si può (e si deve) discutere sull’opportunità che certi rituali rischiosi continuino ad essere riproposti al giorno d’oggi. Ma, per quanto il rito in questione sia stato tacciato di essere barbarico, “assurdo”, “senza logica né ragione”, per chi ha un minimo di dimestichezza con l’antropologia il suo senso è cristallino – in verità, esso mostra molte caratteristiche classiche di qualsiasi rito di passaggio.
Il bambino viene innanzitutto separato dai genitori; la guida lo conduce fino al confine, fino alla prova – eminentemente fisica – che egli dovrà affrontare da solo (il salto); infine, una volta completata l’essenziale fase di “transizione”, cioè il superamento della difficoltà, avviene la reintegrazione del bambino con il nucleo familiare e, più genericamente, con la società. Il bambino, com’è ovvio, è ora un individuo nuovo, e gode dei benefici del nuovo status (immunità dalle malattie).
Il salto del Colacho, così come il lancio dei bambini dalla moschea, sono “battesimi del fuoco” portatori di un senso profondo: i riti di passaggio sono talmente fondamentali per l’uomo da sopravvivere anche nelle nostre società industrializzate, cibernetiche e all’avanguardia. Non è tanto il valore di queste tradizioni che andrebbe messo in discussione, quindi, quanto piuttosto la modalità d’esecuzione. Forse, piuttosto che bandire e proibire, sarebbe più produttivo incentivare l’elaborazione di varianti ritualistiche meno cruente, come si è provveduto a fare in molti altri casi nel mondo.
Fra tutti i sogni umani, quello del volo è stato per millenni il più grandioso e irraggiungibile. E affinché riuscissimo a staccarci dal suolo, e librarci al di sopra della terra a cui sembravamo condannati, sono stati necessari incalcolabili sacrifici, innumerevoli vite perdute nel tentativo testardo di liberarsi dalla forza di gravità. Questi individui coraggiosi e spavaldi, entusiasticamente proiettati verso il futuro, sperimentarono per primi macchine volanti non perfezionate, spesso con risultati catastrofici: uomini pronti a rischiare la pelle perché la posta in gioco travalicava i confini della loro singola esistenza. L’attrattiva di “scrivere la storia”, di cambiare l’uomo e allargare l’orizzonte delle sue possibilità è il motore stesso dell’esistenza, per gli appartenenti alla stirpe di Icaro.
Allo stesso tempo, c’era chi si industriava per rendere questi tentativi di volo più sicuri, progettando i primi sistemi di salvataggio. Nel 1910, a sette anni dal primo volo dei fratelli Wright, i pionieri ai comandi dei velivoli a motore rischiavano ancora grosso. In caso di incidente, non esisteva nessun tipo di paracadute perfettamente funzionante: era morte pressoché sicura.
Certo, l’idea esisteva già dalla fine del XVIII secolo, da quando Louis-Sébastien Lenormand (fisico e inventore) si era gettato con successo dalla torre dell’osservatorio di Montpellier utilizzando una specie di ombrellone costituito da un telaio in legno su cui era tesa della stoffa. Nel 1907 Charles Broadwick, esperto pilota di mongolfiere, mise a punto un prototipo del paracadute come lo conosciamo oggi: ripiegato in uno zaino, con tanto di corda statica per la sua apertura. Il 18 febbraio 1911, dalla Torre Eiffel venne lanciato un manichino che, grazie al paracadute di Broadwick, atterrò senza problemi.
E qui entra in scena Franz Reichelt, il nostroeroe, viennese trapiantato in Francia. Reichelt non era né uno scienziato, né un provetto aviatore: era un semplice sarto. La sua boutique di abiti femminili al numero 8 di Rue Gaillon era piuttosto popolare fra le signore austriache che visitavano Parigi, ma a partire dal luglio del 1910 giacche e vestiti avevano lasciato il posto a un’altra, ben più nobile ossessione. Reichelt aveva deciso di iscrivere il suo nome negli annali del volo, sviluppando una tuta-paracadute, cioè un vestito che avrebbe contenuto già al suo interno il sistema di salvataggio.
I primi tentativi furono incoraggianti: Reichelt gettò ripetutamente dal suo balcone al quinto piano dei manichini che indossavano la sua tuta, ed ecco che, spiegando le ali, atterravano dolcemente al suolo. Ma quando fu il momento di convertire questo prototipo in una versione praticabile per l’uomo, il sarto incontrò diverse difficoltà. La tuta pesava ben 70 chili: forse proprio a causa di questo peso eccessivo, l’Aéro-Club di Francia giudicò la vela (cioè la calotta frenante) non abbastanza resistente, e si rifiutò di testare il suo progetto. I tecnici che lo valutarono provarono anche a dissuadere Reichelt dal proseguire le sue ricerche, ma il sarto non voleva sentire ragione.
Il 1911 fu un anno denso di frustrazioni: nonostante Reichelt continuasse a modificare il design della sua tuta, i manichini su cui conduceva i suoi lanci di prova finivano invariabilmente per fracassarsi al suolo. In un paio di occasioni il sarto provò in prima persona il suo paracadute, saltando da un’altezza di 8-10 metri: la prima volta lo salvò un covone di fieno, la seconda si ruppe una gamba.
La tuta, dopo costanti perfezionamenti, pesava ora 25 chili e la vela era stata ampliata da 6 m² a 12 m². Perché diamine, allora, continuava a non funzionare? Per Reichelt, le sue abilità di designer non erano in discussione: l’insuccesso doveva – per forza – essere imputabile alla scarsa altezza da cui erano stati eseguiti i test. A suo dire, cadendo da soli 10 metri, il vestito non aveva nemmeno il tempo di prendere contatto con l’aria; ci voleva un salto molto più vertiginoso.
A forza di solleciti e domande ufficiali, Reichelt riuscì infine ad ottenere l’autorizzazione di sperimentare il suo paracadute lanciando un manichino dalla prima piattaforma della Torre Eiffel. Ma il suo piano segreto era ben più spettacolare.
Nonostante l’esaltato e pomposo annuncio che Reichelt aveva fatto alla stampa qualche giorno prima, la mattina del 4 febbraio 1912 soltanto una trentina di persone si presentarono all’appuntamento. Di fronte a qualche personalità dell’aeronautica interessata alle questioni della sicurezza e agli scarsi giornalisti radunati sotto la Torre, Reichelt scese dalla macchina impettito, con addosso la sua tuta. La mostrò orgoglioso agli astanti: ormai era arrivato a diminuirne il peso fino a 9 chilogrammi, e l’apertura della vela era di ben 30 m². Tutti pensarono che l’inventore indossasse la sua creazione soltanto per illustrarne al meglio le caratteristiche; si accorsero però ben presto che Reichelt non aveva alcuna intenzione di utilizzare dei manichini, ma che voleva saltare lui stesso dalla piattaforma. Riporterà il quotidiano Le Gaulois: “Ci si stupì un po’ di non vedere il manichino annunciato […]. D’altronde, in materia di aviazione, non si è forse abituati a tutte le prodezze, a tutte le sorprese?”
Gli amici presenti cercarono di dissuaderlo, ma senza alcuna fortuna. “Voglio tentare io stesso l’esperimento, senza trucchi, per provare il valore della mia invenzione”, ripeteva. Di fronte alle pressanti obiezioni tecniche di un aeronauta esperto di sicurezza, Reichelt tagliò corto sorridendo: “Vedrete come i miei 62 chili e il mio paracadute daranno alle vostre critiche la più decisa delle smentite”. La fede dell’austriaco nella sua creazione era totale, incrollabile: con calma assoluta e buon umore, diede ordine affinché venisse delimitata e barricata, fra i quattro pilastri della torre, una zona sufficiente al suo atterraggio. Infine salì le scale fino alla piattaforma. Fotografi e operatori erano pronti a immortalare l’impresa eroica.
Alle 8:22 Reichelt montò su uno sgabello posto in cima ad un tavolo del ristorante; controllò l’equipaggiamento, lanciò in aria un pezzetto di carta per misurare la forza del vento. Fu preda allora di un inaspettato momento di esitazione. Rimase apparentemente indeciso per una quarantina di secondi: a cosa stava pensando?
Infine, con un ultimo sorriso, mise un piede sul parapetto e si gettò nel vuoto, a 57 metri dal suolo.
Il paracadute si attorcigliò immediatamente attorno al suo corpo, mentre precipitava, e la sua caduta libera durò una manciata di secondi. Reichelt si schiantò sul lastricato ghiacciato. Questa la descrizione del Figaro:
L’urto fu terribile; un colpo sordo, di una brutalità furiosa. All’impatto, il corpo rimbalzò e ricadde. Ci si precipitò a soccorrerlo. La fronte insanguinata, gli occhi aperti, dilatati dal terrore, le membra spezzate. François Reichelt non dava più segni di vita. Qualcuno si sporse, cercò di sentire il cuore. Era fermo. Il temerario inventore era morto. Allora la vittima, frantumata e disarticolata, venne sollevata; fu caricata su un autotaxi e il povero corpo fu trasportato a Laënnec.
La tragedia venne filmata da alcune cineprese. Ecco le immagini originali.
Oltre al danno, però, per Reichelt rimaneva ancora la beffa, ancorché postuma.
A sua insaputa, infatti, qualche mese prima era già andato a buon fine, oltreoceano, un salto da un aereo statunitense con paracadute senza telaio fisso; come non bastasse, in Russia Gleb Kotelnikov si era da poco assicurato il brevetto per il suo paracadute richiudibile, e il mese successivo l’avrebbe ottenuto anche per la Francia.
Mentre precipitava verso il selciato, il “sarto volante” non poteva sapere che la sua invenzione era già stata superata; dunque, se non altro, perì nella convinzione di aver tentato un’impresa inaudita.
E qui esce di scena Franz Reichelt, il nostro eroe, un po’ folle ma impavido e temerario – o almeno così sarebbe stato ricordato, se soltanto il suo congegno avesse funzionato. Il lancio di Reichelt produsse, all’impatto, un avvallamento di 15 centimetri d’altezza nell’asfalto; non lasciò purtroppo alcun segno nella storia dell’aviazione.
Quello che vedete qui sopra è l’incipit di Tristano e Isotta di Richard Wagner, rappresentato per la prima volta nel 1865 a Monaco. Si tratta del cosiddetto “accordo di Tristano”, che secondo alcuni teorici avrebbe sancito la fine dell’evoluzione musicale occidentale. Perché?
Sentito oggi, questo dramma musicale dall’enigmatica atmosfera suona certamente molto moderno, ma non tanto sconvolgente quanto venne avvertito all’epoca della sua prima esecuzione. Eppure è forse la prima opera che fa coscientemente a meno di quasi tutti i “pilastri” della struttura musicale classica, prediligendo l’armonia alla melodia, il cromatismo alle scale tonali, e via dicendo: il preludio si apre su questi grovigli di note discordanti che sembrano stranamente completarsi fra loro, senza però un vero e proprio motivo che le accompagni, inframezzate da lunghe e misteriose pause. Questo tipo di linguaggio ormai suona familiare alle nostre orecchie anche perché il cinema ne ha fatto un uso pressoché sistematico nella composizione di colonne originali, ma all’epoca ci si aspettava di regola che la musica si reggesse su una melodia – un’aria distintiva, riconoscibile, memorabile.
Per questo, dicevamo, l’accordo di Tristano è visto come un punto di non ritorno: è come se quel pugno di note mandasse in pensione la melodia occidentale una volta per tutte, e per tutti i tradizionalisti si tratta di un vero e proprio funerale. Quindi, dove dirigersi?
Intrigato dalla questione, il cantautore e polistrumentista Angelo Branduardi a metà degli anni ’70 decise che per affrontare il futuro avrebbe guardato al passato remoto, e iniziò uno studio rigoroso della musica antica (cantigas, madrigali, musica popolare, barocca, etnica) per riproporla in chiave moderna: iniziò così una carriera dai risultati non sempre costanti, ma sicuramente coerente e omogenea. Il suo brano che vi proponiamo è il Ballo in Fa Diesis minore.
Il testo della canzone sembra rifarsi ad una celebre danza macabra raffigurata sull’esterno della chiesa di San Vigilio a Pinzolo, piccolo paesino nel Trentino: l’affresco, realizzato da Simone Baschenis di Averara nel 1539, è accompagnato da un poema che viene “recitato” dagli scheletri danzanti:
Io sont la morte che porto corona Sonte signora de ognia persona Et cossi son fiera forte et dura Che trapaso le porte et ultra le mura Et son quela che fa tremare el mondo Revolgendo mia falze atondo atondo O vero l’archo col mio strale Sapienza beleza forteza niente vale Non e Signor madona ne vassallo Bisogna che lor entri in questo ballo Mia figura o peccator contemplerai Simile a mi tu vegnirai No offendere a Dio per tal sorte Che al transire no temi la morte Che più oltre no me impazo in be ne male Che l’anima lasso al judicio eternale E come tu averai lavorato Cossi bene sarai pagato …..
Com’è noto, la danza macabra è una grottesca messa in scena della Morte che non fa distinzioni fra principi e villani, fra vescovi e pezzenti, ma li prende tutti per mano in una infinita teoria-girotondo che si avvia verso il camposanto e il Giudizio Universale. Il poema rafforza quest’idea della Morte personificata, armata di falce, che nessun muro può contenere e contro la quale nessuna virtù è utile (“Sapienza beleza forteza niente vale“).
Il testo di Branduardi, però, opera una modifica interessante e innovativa rispetto al poema originale. Se le prime due strofe, che danno voce al personaggio della Morte, sono fedeli all’idea antica, è la terza strofa che introduce la variazione: qui prendono la parola gli Uomini, e rispondono alla Morte invitandola al ballo che hanno organizzato appositamente in suo onore.
È un capovolgimento vero e proprio. Questa volta è la Morte ad essere chiamata ad una danza – che non è più macabra né funebre, ma al contrario vitale – tanto che, prendendo parte alla festa, ella posa per un attimo la falce per ballare “tondo a tondo” (ricordiamo che nel poema originale era proprio questo utensile a venire roteato minacciosamente “atondo atondo“). Trasportata dalla musica e dal ritmo del ballo, la Morte di colpo non è più “signora e padrona” del tempo.
A prima vista potrebbe sembrare un’astuzia simile a quelle con cui, nelle storie popolari medievali, veniva imbrogliato il Diavolo stesso. Ma in realtà l’allegoria che costruisce Branduardi è molto più delicata e sottile: siamo davvero impotenti di fronte alla Morte, spesso “crudele”, “forte” e “dura”; soltanto la musica (con la sua qualità estatica, trascendentale) può farci uscire dal tempo e, dunque, sottrarci al suo dominio. E qui la danza macabra si scopre essere non soltanto un tragico simbolo del problema esistenziale, ma anche una possibile soluzione al problema stesso. Certo, la morte ci costringe a volteggiare con lei, e questo ci spaventa: ma quando infine siamo noi a prendere l’iniziativa, e volontariamente la invitiamo a ballare, ecco che il suo potere tutto d’un tratto svanisce.
L’unico modo che abbiamo per liberarci dalla paura, sembra quindi suggerire la canzone, è vivere con piede leggero, in una continua, gioiosa danza.
Era il 15 gennaio 1919. Il cielo mattutino era sereno sopra al North End, il quartiere italiano di Boston: dopo alcuni giorni di freddo davvero polare, l’aria si era improvvisamente riscaldata, e il mercurio del termometro si era spinto fino a qualche grado sopra lo zero. A mezzogiorno, lo scalo portuale di Commercial Street era già un brulichio di casse, scaricatori, cavalli, carri, camioncini a motore che andavano e venivano fra un molo e un magazzino, fra una nave cargo e l’altra.
Le massaie stendevano il bucato al pallido ma confortevole sole mattutino, i mocciosi correvano qua e là alla ricerca di uno spicciolo da guadagnare, e al suono della sirena gli impiegati della North End Paving Yard uscivano dagli uffici per passare la pausa pranzo all’aperto.
Ad un tratto, però, si udì un forte brontolio, e la terra tremò come se stesse passando un treno. Un altro rumore, che ricordava quello di una mitraglia, riecheggiò nell’aria. E di colpo il giorno sprofondò nelle tenebre.
Un’onda scura e viscosa, alta 8 metri, sommerse l’area come un enorme tsunami, polverizzando con il suo incredibile peso l’intero fronte del porto e quasi un kilometro di strada all’interno del quartiere. Radendo al suolo le case e gli edifici, spazzando via persone e veicoli, la marea nera lasciò dietro di sé un’area completamente devastata. Incredibile a dirsi: quell’inaspettata, letale onda distruttrice era costituita da 9 milioni di litri di melassa.
La melassa viene ottenuta dallo zucchero per centrifugazione: è un liquido scuro e denso, appiccicaticcio e dolcissimo. All’epoca, era il dolcificante più comunemente usato in tutti gli Stati Uniti, ma veniva anche fermentata per produrre etanolo e rum – e impiegata perfino nell’industria bellica. Il muro di melassa che si era abbattuto sul North End proveniva dalla fabbrica della Purity Distilling Company, e più precisamente dal suo enorme serbatoio in acciaio (fra i più grandi mai costruiti in superficie), alto 15 metri per 27 di diametro e contenente 8.700 m3 di materia prima. Il serbatoio era tutt’altro che “a norma”: era stato innalzato in fretta e furia per approfittare di un imponente carico di melassa proveniente dai Caraibi, senza un vero e proprio permesso e senza che fosse stato eseguito alcun test strutturale. Tutto il quartiere sapeva che la cisterna perdeva da anni, tanto che alcuni fra gli abitanti più poveri della zona raccoglievano la melassa che sgocciolava dalle giunture per usarla in cucina; dopo diverse lamentele del vicinato, i proprietari della distilleria avevano ridipinto l’acciaio del serbatoio di colore marrone, in modo da nascondere i rigagnoli di prodotto che ne fuoriuscivano. Ma quel giorno di gennaio, non si era trattato di una semplice perdita: il gigantesco serbatoio era letteralmente esploso, forse perché il rapido innalzarsi delle temperature nei giorni precedenti aveva dato avvio a una forte fermentazione all’interno. Fatto sta che la cisterna si disintegrò di colpo, in una nuvola di frammenti di metallo sparati in ogni direzione come letali proiettili, ed il muro di melassa che si riversò nelle strade viaggiava a quasi 60 km/h – talmente impetuoso da piegare persino le fondamenta della ferrovia sopraelevata.
La scena che accolse i primi soccorritori è quasi indescrivibile a parole. Melassa, alta fino al petto, copriva la strada vorticando ed emettendo bolle attorno alle macerie. Qua e là si poteva vedere una forma indistinta che lottava – se fosse un animale o un essere umano, era impossibile a dirsi. Soltanto un guizzo, un dimenarsi nella massa viscosa mostrava talvolta che tipo di forma di vita fosse… i cavalli morivano come le mosche sulla carta moschicida. Più si dibattevano, più venivano inghiottiti nella poltiglia. Gli esseri umani – uomini e donne – soffrivano la stessa sorte.
Il bilancio finale delle vittime fu di 21 morti, annegati e schiacciati dall’inondazione, e 150 feriti. Per ripulire il quartiere (edifici, selciati, automezzi, ecc.) dalla melassa ci vollero circa due settimane e più di 300 persone; l’area del porto restò colorata di marrone fino all’estate.
Oggi una targa, posta all’ingresso di un parco, ricorda il disastro. Il folklore locale vuole che durante le estati più torride si possa ancora sentire il dolciastro aroma della melassa spandersi nell’aria – come se la tragedia avesse per sempre impregnato le fondamenta delle case e delle strade, attorno al luogo dell’incidente.