Abe Sada

Il 25 Novembre del 1936, alle cinque di mattina, mentre Tokyo si risvegliava e per le strade incominciava il quotidiano e indaffarato viavai, un’enorme folla si era già radunata fuori dal tribunale: la gente era lì da ore, in attesa di poter vedere, anche soltanto di sfuggita, la donna di cui tutto il Giappone parlava – Abe Sada.

Ed eccola arrivare, infine, scortata dagli agenti giudiziari, con in testa un curioso cappello a cono che le nascondeva il volto fino a quando non fu all’interno dell’edificio. La folla gridava e gemeva, le donne urlavano, gli agenti cercavano di mantenere l’ordine: il processo che iniziava quella mattina sarebbe stato uno dei più famosi della recente storia giapponese.

Abe Sada (o Sada Abe, a seconda della tradizione di nomenclatura) era nata nel 1905 da una famiglia benestante. Fin da quando era piccola, la madre l’aveva esortata ad essere indipendente e di spirito libero, nonostante le rigide norme che la società nipponica imponeva al tempo alle donne. All’età di quindici anni, però, Sada venne violentata da un conoscente; nonostante il supporto dei genitori, la ragazzina non fu più la stessa. Diventata sempre più incontrollabile, venne venduta da suo padre ad una casa delle geisha di Yokohama – non si seppe mai con certezza se per punizione, o per volontà della stessa Sada. All’epoca, diventare una geisha significava acquistare il prestigio invidiabile di donna emancipata e libera.

Purtroppo la vita nell’okiya era più dura del previsto. Sada finì per assecondare le richieste sessuali di un cliente (cosa che le geisha non erano assolutamente tenute a fare, in contrasto con l’immagine di “cortigiane di lusso” che se ne aveva in Occidente), e si ammalò di sifilide. Si diede quindi alla prostituzione vera e propria, prima con regolare licenza e in seguito in case di tolleranza illegali. Con la morte dei genitori, la sua vita andò totalmente allo sbando: dopo anni di retate della polizia, tentativi falliti di sedurre uomini di potere, e le immancabili violenze e i soprusi con cui dovevano fare i conti tutte le prostitute senza licenza, Sada decise che era giunto il momento di abbandonare il mondo del malaffare. Nel 1936 lasciò finalmente il bordello e si impiegò come apprendista cuoca in un ristorante nel quartiere di Yoshidaya, con la speranza di ripartire da zero.
Proprio in quel ristorante Sada, che non aveva mai conosciuto il vero amore, avrebbe incontrato l’uomo della sua vita.

Il proprietario del locale era infatti Kichizo Ishida, un aitante quarantaduenne che ben presto posò i suoi occhi sulla giovane apprendista; di nascosto da sua moglie, cominciò a proporsi in avances sessuali. Sada dal canto suo aveva mai “conosciuto un uomo così sexy“, come dichiarerà in seguito. La scintilla della passione non tardò a scoccare, e i due iniziarono una torrida relazione clandestina: ritiratisi in un hotel nel quartiere di Shibuya, per quella che doveva essere una fugace scappatella, vi rimasero per quattro giorni. Spostatisi in altri quartieri e in altri hotel, per ben due settimane gli amanti si diedero all’alcol e al sesso, che non si interrompeva nemmeno quando qualche geisha entrava nella loro stanza per servire da bere.

Che l’appetito sessuale di Sada fosse difficilmente saziabile, lo confermò in seguito anche un suo precedente amante, Kinnosuke Kasahara, che l’aveva lasciata proprio a causa della sua incontenibile iperattività: “era davvero forte, davvero potente. Se pure io sono piuttosto debole, lei d’altra parte mi stupiva sempre. Non era soddisfatta se non lo facevamo almeno due, tre, o quattro volte ogni notte. Per lei, era inaccettabile che io non tenessi la mia mano sulle sue parti intime per tutta la notte… All’inizio era fantastico, ma dopo un paio di settimane ero esausto“.

Ishida, la sua nuova fiamma, era invece di tutt’altra pasta, capace di resistere per giorni e giorni di sesso scatenato. Ma non era soltanto la sua prestanza fisica ad affascinare Sada: “è difficile dire esattamente cos’aveva Ishida di così bello. Ma era impossibile trovare qualcosa di negativo nel suo aspetto, il suo atteggiamento, la sua abilità come amante, il modo in cui esprimeva i suoi sentimenti“.
Dopo queste due settimane di follia senza freni, come tornare alla routine del ristorante? Ma, soprattutto, come sopravvivere al pensiero che Ishida avrebbe nuovamente condiviso il letto con sua moglie?

Sada si innamorò perdutamente, e con il sentimento sentì farsi strada in lei una gelosia cieca e totalizzante. Essere l’amante di Ishida non era sufficiente, doveva essere sua moglie, l’unica donna a possederlo; ben presto la sua divenne un’ossessione vera e propria.

Una sera, Sada assistette a una rappresentazione teatrale nella quale una geisha attaccava il suo amante con un pugnale, e decise che avrebbe fatto lo stesso con Ishida. Incontratolo al ristorante, estrasse un grosso coltello da cucina che aveva comprato il giorno prima, e lo minacciò di morte; Ishida, seppure inizialmente allarmato, si mostrò infine divertito e lusingato dalla scenata di gelosia della donna. La portò dunque ad una taverna nel distretto a luci rosse di Ogu, per una nuova maratona di sesso.

Ancora due notti e due giorni di passione, l’uno nelle braccia dell’altra; mentre facevano l’amore, Sada teneva talvolta il coltello alla base del pene di Ishida – “non avrai nessun’altra donna oltre a me” gli diceva, e l’uomo rideva.

Un nuovo gioco che i due amanti cominciarono a provare era l’asfissia erotica. Sada usava l’obi del suo kimono per soffocare Ishida al momento dell’orgasmo, rilasciando in seguito la presa e intensificando così il piacere. Ishida fece lo stesso con lei, e i due cominciarono a strangolarsi regolarmente durante gli accoppiamenti, ancora scherzando sulla gelosia della donna: “Metterai la corda intorno al mio collo e la stringerai ancora mentre sto dormendo, non è vero? – le diceva Ishida – Se cominci a strangolarmi, non fermarti…

Il 18 maggio 1936, alle due del mattino, Ishida dormiva. Sada, in silenzio, passò due volte la corda attorno al suo collo, e strinse per qualche minuto finché l’uomo non morì soffocato. Restò sdraiata accanto al corpo per diverse ore, poi prese il coltello da cucina e tagliò i genitali di Ishida; li avvolse in alcune pagine di giornale. Con il sangue scrisse sulla gamba sinistra del cadavere le parole Sada, Kichi Futari-kiri (“Sada e Kichi insieme”), poi ripeté la scritta sulle lenzuola prima di incidere con la lama il suo nome nel braccio sinistro del morto. Abe Sada si rivestì, uscì dalla stanza e disse ai gestori dell’hotel di non disturbare Ishida. Infine lasciò l’albergo con il suo prezioso pacchetto nascosto nelle pieghe del vestito: “perché non potevo portare con me la sua testa o il suo corpo. Volevo prendere la parte di lui che mi avrebbe riportato le memorie più intense.

Poco dopo la scoperta del cadavere mutilato di Ishida, la notizia della latitanza di Sada fece il giro del paese; i giornali immediatamente dettagliarono l’oscena vicenda, e il panico si diffuse ovunque, tra falsi avvistamenti e personaggi politici la cui carriera crollava nel giro di un giorno non appena il loro nome veniva collegato alla prostituta castratrice. Sada, dal canto suo, non aveva mai lasciato Tokyo: alloggiava in un hotel a Shinagawa sotto falso nome, ancora ossessionata dall’uomo che aveva ucciso e dal feticcio prelevato dal suo corpo. “Mi sentivo attaccata al pene di Ishida e pensai che soltanto dopo essermi accomiatata tranquillamente da esso, avrei potuto morire. Scartai le pagine che li avvolgevano, e guardai il suo pene e il suo scroto. Misi il suo pene in bocca, e provai perfino ad inserirlo dentro di me… non funzionò, anche se continuavo a provare e provare. Quindi, decisi che sarei scappata a Osaka, restando con il pene di Ishida per tutto il tempo. Alla fine, sarei saltata da un dirupo sul Monte Ikoma, stringendo il suo pene nella mano.

Alle 4 di pomeriggio del 20 maggio, soltanto due giorni dopo l’omicidio, Abe Sada venne arrestata: per settimane radio e giornali non parlarono d’altro.
Il processo durò soltanto un mese perché la donna si dichiarò subito colpevole e venne condannata, per omicidio non premeditato e mutilazione di cadavere, a scontare sei anni di reclusione. Gli anni passati in carcere saranno i più tranquilli e regolari della sua vita.

Quello che avrebbe potuto restare un semplice episodio di cronaca nera, divenne presto un simbolo fondamentale delle contraddizioni del Giappone pre-bellico.
La controversa figura di Abe Sada si ritagliò infatti un posto tutto particolare nell’immaginario giapponese: per alcuni incarnava lo stereotipo della dokufu, donna criminale spietata e sanguinaria, ma per altri la portata rivoluzionaria della storia era ben altra.
Durante tutti gli interrogatori (le cui trascrizioni divennero un best-seller), la donna aveva sottolineato sempre e soltanto l’accecante amore che nutriva per Ishida, il senso di esclusività che avvertiva nei suoi confronti, l’impossibilità di dividerlo con altre donne. Questa non era una semplice assassina: Sada parlava liberamente e sfacciatamente d’amore, di sesso e di romanticismo in un’epoca in cui la morigeratezza era un imperativo sociale. Senza mezzi termini, accusava i maschi che non soddisfacevano il piacere sessuale femminile, ed esaltava l’uomo che sapeva interpretare i desideri della propria compagna: “a letto, le dimensioni non fanno l’uomo. Quello che amavo di Ishida erano la tecnica e il suo desiderio di darmi piacere“.

Dopo aver scontato la pena, Sada provò a dileguarsi, accettando diversi lavori che generalmente finivano non appena i datori scoprivano chi fosse veramente. A partire dagli anni ’50 Sada lavorò in un pub chiamato Hoshikikusui nel quartiere di Inari-cho. Ogni sera faceva la sua entrata, scendendo una lunga scalinata mentre gli avventori ululavano, proteggendosi le parti intime con le mani. “Nascondete i coltelli! Non andate a fare pipì!“, gridava qualcuno, ma Sada zittiva tutti con uno sguardo furioso. Soltanto quando era calato un pesante silenzio, ricominciava ad avanzare e, finalmente arrivata fra la gente, passava versando da bere ai tavoli.

Abe Sada, photographed July 26, 1951-5

Per tutta la vita, lo stigma e la curiosità del pubblico non la abbandonarono mai. Sada riuscì a sparire del tutto solo dopo il 1970, data della sua ultima fotografia conosciuta, che la ritrae seduta al fianco di un attore; nulla si seppe più di lei, nonostante le voci che di volta in volta la volevano morta suicida oppure rinchiusa in convento. Ma, anche se svanita dall’occhio pubblico, Sada assurse nel tempo al grado di icona letteraria e cinematografica, ispirando artisti, filosofi e scrittori. Dei tre film a lei dedicati, il più celebre è il capolavoro di Nagisa Oshima, Ecco l’impero dei sensi (1976), censurato in molti paesi e presentato con enorme successo a Cannes.

Con il passare del tempo Abe Sada è stata definita in mille modi, spesso diametralmente opposti, come se non ci potessero essere vie di mezzo nel suo caso: “pervertita sessuale” e simbolo di femminismo; mostro necrofilo e “tenera, calda figura di salvezza per le future generazioni“. Una cosa è certa: Abe Sada e la sua passione omicida, violenta e struggente al tempo stesso, sono entrate indelebilmente nell’immaginario collettivo giapponese.
Ciò che invece venne dimenticato (in quella che potremmo leggere come una seconda, metaforica e definitiva castrazione), fu proprio il pene mozzato di Ishida: conservato al Museo di Patologia dell’Università di Tokyo, e ancora visibile in esposizione poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, oggi se n’è persa ogni traccia.

22 comments to Abe Sada

  1. Ambra says:

    Abe Sada, una donna incredibilmente moderna. Violenta sì, passionale, ma moderna. Non ho visto i film su di lei, ma è una figura che mi piace, almeno da quanto tu scrivi, per quel suo “coraggio”, definiamolo così, di porre fine alla sua passione pur di avere la certezza esclusiva di possedere il corpo che le aveva risvegliato una passione così violenta.
    Per contro, una donna dalla concezione di possesso di taglio più maschile che femminile.

    • bizzarrobazar says:

      Riguardo all’ultima tua frase, non saprei: l’idea di possesso mi sembra femminile tanto quanto maschile. Sono l’aggressività e l’omicidio passionale ad essere, statisticamente, comportamenti più maschili.
      Peraltro sono d’accordo con te sul fascino di questa figura particolarmente emancipata e lucida nella sua (comprensibile, anche se non perdonabile) follia.

    • Federica says:

      Ti piace.Un uomo che uccide la propria amante e magari ne amputa i seni portandoseli con sè sarebbe visto come l’abisso della mostruosità, un’assassina che uccide un uomo innocente per possessività amputandone i genitali suscita financo ammirazione; donna moderna e coraggiosa. Ti rendi conto di quale sia la tua forma mentis ?

      • bizzarrobazar says:

        Normalmente non propongo su queste pagine storie di assassini o serial killer, nonostante possano provocare un facile brivido. La storia di Abe Sada è invece interessante proprio perché nasconde un altro livello, quello della mitizzazione, appunto, e della lettura peculiare che è stata data alla vicenda, nel tempo.
        Sempre di omicidio si tratta, lo sappiamo tutti: eppure a mio parere è innegabile che vi si possa intravvedere una sfumatura di disperata poesia.
        Tanto è vero che Sada ha ispirato pagine e pagine di inchiostro, e qualche chilometro di pellicola. 🙂

  2. Ulissenano says:

    L’impero dei sensi e’ una pellicola/vertigine, corpo filmico mistico: secreta et excreta…

  3. esse says:

    i giapponesi sono stati per secoli una cultura “impermeabile”, tanto da svilupparsi in modo quasi alieno rispetto alla nostra, a quella occidentale in generale.
    Come sanno celebrare e integrare nella quotidianità quelle che noi chiameremmo parafilie, ossessioni, devianze e disturbi patologici della personalità, pochi altri al mondo credo… ^^’

  4. Johnny Paranoid says:

    Pene d’amore

  5. Wonder says:

    Una Lorena Bobbitt del sol levante. Solo che il poveretto è rimasto steso e non ha fatto in tempo a girare filmacci.
    Resta una domanda: ma ai tempi la scienza chirurgica avrebbe permesso di riattaccare il moncherino?

  6. NikoDesi says:

    Io studio criminologia, e mi è piaciuto molto il taglio non stigmatizzante bensì comprensivo di questa vicenda: una delle prime concezioni che si devono abbandonare è proprio quella di vedere la persona che commette il reato come pazza/malata di mente. Il più delle volte chi commette un omicidio aveva delle intenzioni che al momento gli sembravano le più giuste da perseguire e per di più anche se pentito si porterá quello stigma sociale per il resto dei suoi giorni (e ci tengo a precisare che il recidivismo capita più per reati economici e furti che per omicidi). Va compresa? Certo. Bisogna prendere esempio? No.
    In ogni caso una figura particolare, mi chiedo quanto la prima violenza abbia influito sulla sua identitá futura. Chissá.
    Ottimo articolo come sempre!

    • bizzarrobazar says:

      È rassicurante vedere l’omicida come un pazzo, perché ci permette di rinchiuderlo in una categoria ben distante da noi, “perfettamente sani”. E quando si prendono in esame certi territori liminali o tabù, dovremmo diffidare di tutto ciò che è rassicurante…

  7. Daimon says:

    Solo 6 anni?? pensavo che almeno nel Giappone di quei tempi le pene fossero giuste.

  8. andrea c says:

    Io non capisco come mai ha scontato solo 6 anni. Uno sconto di pena dovuto all’attenuante del delitto passionale? oppure a quei tempi era la pena standard per tutti gli assassini?

    • bizzarrobazar says:

      La pena chiesta dall’accusa era di 10 anni. Sada, durante il processo, aveva chiesto per sé addirittura la pena di morte.
      In realtà dei 6 anni previsti la donna ne scontò soltanto 5, per un’intervenuta grazia relativa all’anniversario della fondazione del Giappone.

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