Ogni capodanno, il solito vecchio gioco ricomincia. C’è chi si sente in dovere di stilare il bilancio dell’anno appena trascorso, chinandosi sul passato per studiarselo ben bene, e chi invece preferisce sorvolare e dedicarsi ad assaporare nuove speranze. C’è chi magari scopre un vago sentimento d’inquietudine per tutte le sfide senza volto che il destino gli riserva.
E c’è chi diffida del passato e, a dirla tutta, non stravede per il futuro – si abbandona quindi al presente, come se esistesse soltanto quello… e allora sì, che si brinda per davvero!
Poi ci sono quelli fissati con i “buoni propositi” per l’anno che arriva.
Sapete quale, secondo noi, potrebbe essere un ottimo proposito per il futuro?
Riprometterci di fare come Mae West, che dichiarava: “tra i due mali, sceglierò sempre quello che non ho ancora provato“.
Oppure ancora ricordare, nel decennale della morte, le parole del nostro amato Hunter S. Thompson:
La vita non dovrebbe essere un viaggio verso la tomba con l’intenzione di arrivarci senza rischi, in un corpo bello e ben preservato, ma piuttosto sbandare in derapata in una nuvola di fumo, completamente esausti, totalmente consumati, gridando forte: “WOW! Che corsa è stata!”
Per concludere, quindi, il buon proposito di Bizzarro Bazar è di impegnarsi affinché il 2015 sia ancora più strano e folle dell’anno che lo ha preceduto!
Auguri a tutti, e… Keep the world weird!
Quante volte, infervorati di fronte a una birra, abbiamo discusso appassionatamente sull’annoso quesito: meglio i Beatles o i Rolling Stones?
Sono le classiche domande che non possono avere risposta, buone però per confrontarsi e scandagliare pregi e difetti degli artisti che più ci entusiasmano.
Ora, trasportate questa conversazione all’interno di un circolo di Magia. Possiamo immaginare gli aspiranti novelli Houdini confrontarsi, con la stessa passione, sull’equivalente disputa relativa alla loro professione – in un’infinita, giocosa battaglia di opinioni su chi sia stato “l’illusionista più grande di tutti i tempi”.
Nel caso specifico, non saremo certo noi profani ad azzardare una presa di posizione definitiva. Però possiamo raccontarvi l’incredibile storia dell’illusionista più diversamente meraviglioso che sia mai vissuto: Matthias Buchinger.
Nato ad Ansbach, un paesino della Bavaria, il 3 giugno del 1674, Matthias era il più giovane di nove fratelli in una famiglia di modesta estrazione. Divenne ben presto un uomo dai molti interessi, e un artista dalle raffinate tecniche calligrafiche, incisorie e di disegno.
Eccelleva anche nella musica, suonando da virtuoso una grande varietà di strumenti, alcuni da lui stesso inventati. Come non bastasse, era anche mago di grande talento, sempre pronto a stupire il suo pubblico con abili giochi di prestigiazione.
Che un solo uomo fosse capace di tante straordinarie qualità potrebbe sorprendervi, ma in definitiva non sembrarvi impossibile.
Ma c’è un piccolo dettaglio, omesso nelle righe precedenti.
Matthias Buchinger era nato senza braccia né gambe.
La prima volta che il pubblico sentì parlare di Matthias Buchinger fu alla corte di Giorgio I: sbarcato in Inghilterra, proveniente da Hanover, il suo progetto era quello di trovare nel Re un mecenate che lo sostenesse – anche soltanto con una piccola pensione, che gli assicurasse almeno di non doversi mai esibire su palcoscenici meno onorevoli del livello a cui sapeva di poter ambire. Ben deciso dunque a fare un’ottima impressione, sorprendendo il Re con le sue doti musicali, Matthias si presentò al cospetto del sovrano.
Alto 71 centimetri, privo di gambe, Matthias era dotato di due abbozzi di braccia che terminavano in moncherini arrotondati, tipici della focomelia. Questo non gli impedì di prodursi in un complesso tema musicale eseguito su uno strumento di sua creazione (una sorta di flauto), che suonò con grande abilità.
Purtroppo, per quanto positivamente colpito, Sua Maestà si limitò a inviargli in dono venti guinee. Per Matthias, la speranza d’essere accolto a corte e ottenere il patrocinio reale svanì di colpo.
Buchinger cominciò quindi a viaggiare, spostandosi in Irlanda, con il nome di scena di “Meraviglioso Piccolo Uomo di Norimberga“. Si esibì a Dublino, al Crown and Anchor di Sycamore Alley, nel 1720; nel 1722 tenne alcuni spettacoli a Belfast, e nel 1737 ancora a Dublino. Durante questi suoi show, Matthias eseguiva diversi numeri di destrezza, come ad esempio giocare ai birilli, mescolare e distribuire un mazzo di carte in men che non si dica, infilare con precisione il filo nella cruna di un ago o dimostrare la sua infallibile mira con il moschetto; ma erano le sue doti di illusionista che lasciavano il pubblico a bocca aperta. Faceva sparire le classiche palline sotto le tazze, apparire colombe dal nulla, e proponeva tutta la consueta varietà di giochi di prestigio che necessitano di grande esercizio e manualità – anche per un mago effettivamente provvisto di mani.
Raffigurazione dei giochi proposti da Buchinger nei suoi spettacoli.
Se sulla scena si sbizzarriva suonando l’oboe, il dulcimer, la tromba, il flauto, la cornamusa ed altri strumenti che costruiva da solo, nel suo tempo libero Buchinger non smetteva di sfidare la sua condizione, coltivando hobby di precisione. Amava costruire navi nelle bottiglie, o addirittura veri e propri diorami. Quella nella foto successiva, da lui creata nel 1719, è la più antica delle cosiddette mining bottles e rappresenta una miniera a due piani, con i lavoratori impegnati nell’estrazione sotto il livello del suolo e gli addetti all’argano per caricare i materiali in superficie. Si riconosce anche un uomo che affila un palo con un’ascia.
Abbiamo già accennato alla sua abilità incisoria: grazie a penne, scalpelli e pennini da lui modificati e adattati alle sue rudimentali appendici, era in grado di disegnare con la sicurezza di un vero artista. In un’occasione, di fronte ad un lord, in pochi minuti tracciò su un foglio una perfetta riproduzione dello stemma araldico della città. Realizzava anche dei minuziosi ed elaboratissimi autoritratti. Fra quelli autografi che ci rimangono, spicca quello sottostante: la folta chioma di capelli, ad un attento esame, si scopre essere composta da sette Salmi e dal Padre Nostro, scritti in microcalligrafia.
Frontespizio per una Bibbia realizzato da Buchinger.
Un altro suo hobby erano evidentemente le belle donne. Uomo di gran vigore, energia e fascinoso carisma, si sposò tre volte, quattro secondo altre fonti. Ebbe quindici figli, e si divertiva a disegnare il suo albero genealogico raffigurando se stesso come il tronco, le mogli come rami e i suoi numerosi figli come frutti appesi.
Ben presto la sua fama di donnaiolo divenne proverbiale: si diceva che avesse avuto figli illegittimi da una settantina di amanti. La sua prima moglie, gelosa, cominciò a spazientirsi, e prese ad alzare le mani sull’invalido, all’apparenza indifeso, ogni volta che egli allungava troppo gli occhi in direzione di qualche prosperosa fanciulla. Un famoso aneddoto racconta che, all’ennesima sberla ricevuta in pubblico dalla consorte, Matthias non ci vide più: reagì saltando sulla donna, facendola cadere sul selciato della strada, e la coprì con una gragnuola di terribili colpi sferrati con i suoi moncherini. Il giorno dopo le vignette satiriche dei giornali erano tutte immancabilmente incentrate su quella bizzarra zuffa matrimoniale.
Le sue performance virili divennero talmente mitizzate che, persino a quarant’anni dalla sua morte, in Inghilterra era ancora diffusa l’espressione “stivale di Buchinger” per indicare la vagina – alludendo al fatto che il pene di Matthias era il suo unico “piede”.
Flano promozionale realizzato da Buchinger per pubblicizzare il suo arrivo in città.
Al di là dell’inevitabile colore folkloristico delle storie che lo circondano, quello che sappiamo è che Matthias Buchinger condusse una vita piena ed eccitante, in seno a quell’alta società che i suoi famigliari bavaresi non potevano nemmeno sognare di raggiungere, esibendosi nei suoi giochi di prestigio per tre successivi Imperatori di Germania, per la gran parte dei Re e dei Principi d’Europa e tre volte per Giorgio I di Gran Bretagna. Molte personalità di spicco divennero nel tempo suoi patroni, come ad esempio il Dr. Peter Brown, rettore dell’illustre Trinity College.
Un certo Francis Smith, studente all’Università di Dublino, divenne suo amico, e la sua testimonianza ci restituisce il ritratto più intimo che abbiamo di Buchinger: quello di un uomo dall’intelligenza vispa e sempre attiva, dotato di grande ironia anche nei confronti della sua condizione. Se raccontava che da bambino la sua famiglia lo teneva nascosto, vergognandosi della sua deformità, aggiungeva sempre che più tardi tentò di avviarlo alla carriera di sarto: ma, scherzava Matthias, i suoi genitori “dovettero abbandonare il piano, perché non riuscivano a trovare un posto dove infilare il ditale”.
Buchinger non arretrava nemmeno di fronte all’idea che il suo corpo venisse sezionato e studiato dopo la morte, anzi invitò Smith a reclamare il cadavere per donarlo alla Scuola di Anatomia, nel caso fosse deceduto a Dublino. Quando morì davvero, nel 1740 a Cork, fu il Dr. Barry ad ottenere il suo corpo, e per un certo periodo il suo scheletro venne conservato in quella città.
Come ogni anno rinnoviamo gli auguri a tutti i lettori di Bizzarro Bazar.
Siamo consci però che, fra i suddetti lettori, ci sono molte persone per le quali le luci, gli addobbi e la festosità saranno sempre venati di un po’ di malinconia: per questo vorremmo dedicare un pensiero e un abbraccio virtuale a tutti coloro che dovranno passare per la prima volta il Natale senza una persona cara, o che l’hanno già persa in questo periodo, non importa quanti anni fa.
Che i bei ricordi siano il caldo focolare di quest’inverno! E chi vuol esser lieto, sia…
Salone del Lutto è senza dubbio uno dei nostri blog preferiti. Poetico, fresco, sorprendente, con uno stile del tutto particolare e una missione ben precisa: esplorare la morte nei suoi risvolti letterari, artistici, culturali con passo lieve e ironico. Lasciamo quindi la parola alle Signore del Lutto, Silvia e Serena, affinché ci presentino il bellissimo calendario virtuale che regolarmente pubblicano a fine anno.
La gente muore ogni giorno. Tutti i giorni. Di tutti gli anni. Ogni calendario, in fondo, è un memento mori. Un susseguirsi di martiri, vergini, beati e commemorazioni di esecuzioni. E uno scandire il tempo che ci avvicina, ogni giorno di più, alla fine. Ma il Salone del Lutto con i fatti di religione c’entra poco, pur apprezzando chiese, cimiteri, e innumerevoli altre attestazioni devozionali. E così, da un paio di anni, il calendario se lo fabbrica da sé – online –, assegnando ogni giorno a qualcuno che in quel giorno è morto e chiamandolo a dire la sua. Sulla morte. Ma anche su innumerevoli altri argomenti. È un calendario laico: zeppo di scrittori, musici, ballerine, pittori, attori, e molto altro ancora. Vi invitiamo ad andare a leggerlo e sfogliarlo, cliccando qui. Nel frattempo, qui sotto, sviluppiamo alcuni percorsi, pescando i nostri morti dall’edizione 2014 e 2015. Grazie a Bizzarro Bazar per l’ospitalità.
26 marzo 1892, 19 giugno 1937, 2 luglio 1977, gli inventori di bellezza
Fa paura, la morte, o perlomeno, per tanti è così. Eppure chi ha il dono della scrittura, e dell’invenzione, ha costruito dei mondi di infinita bellezza. Anche per quel momento. Walt Whitman, ad esempio, che dice: «E mostrerò che nulla può accadere che sia più bello della morte» o l’immenso Vladimir Nabokov, secondo cui «La vita è una grande sorpresa. Non vedo perché la morte non potrebbe esserne una anche più grande».
E poi, poi anche chi scrive per i bambini ne parla, senza troppi pudori, senza giri di parole: morire è morire e anzi: «Morire sarà una splendida avventura». Parola di James Matthew Barrie. E di Peter Pan.
11 maggio 2010, la grande vecchia
1904–2010. Nessun refuso, la più giovane delle sorelle Eaton e una delle più recenti acquisizioni della rivista Zigfield Follies è effettivamente morta a 106 anni. Dopo la rivista, e il cinema, per tre decenni fu anche in tv. Infine si ritirò in un ranch insieme al marito, dedicandosi all’allevamento di cavalli. Una vita lunghissima, dal film muto all’era del web, e innumerevoli interviste rilasciate a giornalisti e scrittori, per preservare tracce di quei tempi, che ci sono stati finché c’è stata lei.
E, non so voi, ma io le vicende dei grandi vecchi le trovo bellissime. La signora Emma Morano (114), ad esempio, che dichiara oggi di non conoscere né Renzi né Papa Francesco, mentre si ricorda bene del re Vittorio; i vecchietti di Vilcabamba, alcuni dei quali asseriscono fieri di aver smesso di fumare da una decina d’anni, a 100 anni o più; e Doris, che candidamente ammise: «A 32 anni, mi diedi una bella occhiata e pensai: “Che sta succedendo? Questo è niente. Non è vita”. Così andai in chiesa, iniziai a studiare e a cercare me stessa. Ne ottenni una certa qual forza interiore». Alla faccia della forza, Doris, arcigna e adorabile.
1° luglio 1961 e 17 ottobre 1849, i programmi preventivi
La paura della morte porta a elaborare strani programmi. O, piuttosto, è la paura di ciò che tocca in sorte al cadavere. A tal proposito, Louis-Ferdinand Céline abbozza in Viaggio al termine della notte una teoria un po’ delirante, ma piena di fascino: «[…] Lola, così paura, vedi, che se muoio di morte naturale, io, più avanti, voglio soprattutto che non mi brucino. Vorrei che mi lasciassero nella terra, a marcire al cimitero, tranquillamente, là, pronto a rivivere, forse… Chissamai! Mentre se mi riducono in cenere, Lola, tu capisci, sarebbe finita, proprio finita… Uno scheletro, malgrado tutto, assomiglia ancora un po’ a un uomo… È sempre più pronto a rivivere che delle ceneri… Le ceneri è finita!… Che ne dici?…».
Fryderyk Chopin, dal canto suo, l’ipotesi di un risveglio sottoterra non la vedeva troppo favorevolmente, tanto che le sue ultime parole chiarirono una precisa volontà: «Poiché la terra mi soffocherà, vi scongiuro di fare aprire il mio corpo perché non sia sepolto vivo».
Esequie premature, zombies, e cos’altro? Io penso che se c’è un aldilà questi due stiano facendo discorsi ameni. Davvero!
10 e 11 ottobre 1963, L’amore vince la morte
Federico e Giulietta, Raimondo e Sandra. No, non voglio parlare di coppie che, semplicemente, si dissolvono, completamente e nello stesso anno: lui e lei, a pochi mesi l’uno dall’altra. C’è chi è riuscito a superarle e, personalmente, sono felice che si tratti di una coppia di amici. Due amici che, con la loro arte, hanno saputo illuminare le notti di Francia. Lei, Édith, era un usignolo; lui, Jean, poeta, saggista, drammaturgo, librettista, eccetera eccetera. Lei, Édith, fu la prima ad andarsene: una broncopolmonite e farmaci consumati in dosi massicce fino a debilitarla nel profondo. Era probabile che andasse a finire così.
Lei era immensa. Doveva essere ricordata adeguatamente. A occuparsi del suo elogio funebre è Jean, il poeta, saggista, drammaturgo, librettista, e AMICO, e amante. In questo elogio mette dentro frasi bellissime e parole a effetto. Lei è «un’onda altissima di velluto nero», «una stella che brucia nella solitudine notturna del cielo di Francia». La pressione è fortissima. Le crepe nel cuore sono profonde. Jean se ne va poche ore dopo Édith, stroncato da un infarto. Tecnicamente, si tratta di due giorni diversi, ma è bello ricordarli insieme. Perché l’amore vince la morte e anche lo scorrere del tempo.
14 settembre 1927, La divina, e divinatrice
Lei era una vera diva. Nata nella seconda metà dell’Ottocento, viveva – così immagino – con grande difficoltà l’essere figlia di un altro tempo, il futuro. Emancipazione, passione, amori intensi ma brevi. E soprattutto un’arte che era solo sua, fatta di vesti leggere e piedi scalzi: un modo di danzare che non si era mai visto prima e che, inizialmente, la gente faticò a comprendere, come avviene con tutte le “cose” di rottura.
Le foto che la ritraggono parlano di un corpo sinuoso e flessuoso, della capacità di assumere pose e sembianze che non sono umane ma superumane. Isadora un giorno salì in macchina, una Bugatti decappottabile. La immagino leggera ed elegante, mentre sventaglia la mano e dice: «Addio amici miei! Vado verso la gloria (o verso l’amore, poco importa)». Al collo porta una sciarpa, svolazzante, leggera, probabilmente di un tessuto pregiato. Lo direste che una sciarpa può essere un involontario strumento di morte? La macchina va, accelera, l’aria nei capelli è bella, le frange della sciarpa si impigliano nelle ruote. Ed è un attimo. Gertrude Stein, amica della Duncan, ebbe a commentare che «certi vezzi possono risultare pericolosi». È vero, ma a colpirmi di più sono le doti divinatorie della grande Isadora.
26 dicembre 2014 – Il cadavere scomparso o l’uomo che non è mai esistito
Il 26 dicembre 2004 non fu un Santo Stefano qualunque. La grande onda dello tsunami spazzò via case, e alberi e tutto quel che trovava il suo percorso devastando le coste indonesiane, tailandesi, indiane, birmane, bengalesi e maldiviane. In Sri Lanka le vittime furono moltissime. Tra di loro Pietro Psaier, pittore italiano. Il suo cadavere non fu mai ritrovato. Ma il problema è un altro: Pietro Psaier, forse, non è mai esistito, e la sua è una biografia presunta, densa di ipotesi non confermate. Su Wiki, tutte le notizie al suo riguardo premettono un generico «si afferma che…».
Eppure, le affermazioni al suo riguardo sono tutte importanti: Pietro Psaier negli anni Cinquanta disegnò auto per Enzo Ferrari – si dice; negli anni Sessanta si trasferì a Madrid e successivamente a New York dove conobbe nientepopodimeno che Andy Warhol e divenne uno degli habitués della Factory – si mormora; negli anni Settanta era ormai un artista affermato e realizzò lavori per le stars: Keith Moon, Oliver Reed, Michael Caine – così sembra. Ciononostante le economie non giravano bene, così negli anni Ottanta Psaier sfuggì ai creditori prendendo la via dell’Asia: Nepal, Tibet e finalmente Sri Lanka.
La sua reale esistenza fu messa in dubbio solo dopo la sua scomparsa: la casa d’aste Nicholson’s, infatti, annullò la vendita dei suoi quadri, dando credito alle voci che ne mettevano in dubbio l’esistenza. E di lì fu tutto un rincorrersi di illazioni: «se fosse esistito lo avrei incontrato», «se non fosse esistito non lo avrei avuto in cura»… Se, se, se… E se l’opera d’arte fosse proprio questa? Essere così abili dar far perdere le proprie tracce fino alle origini? Ai giorni nostri sembra quasi impossibile. Ma no, Pietro Psaier ce l’ha fatta. Pietro Psaier? Chi?
Info
Il calendario del Salone del Lutto è un prodotto online e virtuale. Puoi vederlo online andando a questo link.
Pure il Salone del Lutto è online, ma un po’ meno virtuale del calendario e di Pietro Psaier. Puoi trovarci su Facebook oppure sul nostro blog.
Buon Natale e ricordatevi: non è vero che Babbo Natale non esiste. Semplicemente, Babbo Natale è morto.
Le bolle di sapone sono, a nostro modesto parere, fra i simboli più potenti della meraviglia che si nasconde nelle piccole cose. Incantevoli, perfette, e tanto effimere che è sufficiente un alito di vento perché si dissolvano senza lasciare traccia. Non a caso in ambito artistico divennero un simbolo dell’impermanenza umana, nella peculiare declinazione della vanitas che conosciamo sotto il nome di homo bulla: l’uomo si crede invincibile, bellissimo e splendido, ma le sue certezze sono come una bolla soffiata da un bambino incosciente, pronta a scoppiare da un momento all’altro.
Così, per accompagnarci in questo nuovo inverno, ecco due video che ci mostrano un’altra caratteristica, forse meno conosciuta, delle bolle di sapone; vederle congelare in tempo reale, decorandosi di mille arabeschi cristallizzati che si disegnano d’un tratto sulla loro superficie, è uno spettacolo colmo di poesia e stupore.
Questo nostro caduco et fragil bene ch’è vento et ombra et à nome beltate
(Francesco Petrarca, Canzoniere, Canto 350)
Oggi essere belli è diventato un dovere.
Forse però è troppo facile prendersela con il martellamento promozionale, che ripropone all’infinito sensuali e perfette nudità occhieggianti dai cartelloni pubblicitari, dalle riviste, dai cataloghi; facile criticare il degrado dei tempi quando perfino le moderne donne politiche parlano delle capatine dall’estetista come di un imperativo etico o ideologico; facile anche scagliarsi contro la superficialità dilagante, nel sentir parlare sempre più spesso di seni, glutei ed altri parti anatomiche che si debbono per forza “ringiovanire”, a meno di non voler sfigurare. Facile, insomma, associare la rincorsa alla pelle più tonica, alle sopracciglia meglio disegnate o all’ultima miracolosa crema antirughe ad una crisi di valori.
Ma è davvero soltanto la nostra epoca ad essere così ossessionata dall’eterna giovinezza e dalla bellezza a tutti i costi?
La cosmesi è in realtà vecchia quanto l’uomo, ed in ogni periodo storico sono sorti estremismi e fissazioni estetiche, così come qualsiasi epoca ha visto propagarsi le cure anti-età più bizzarre, spesso poco più di fugaci mode d’una stagione.
È dunque divertente e illuminante gettare uno sguardo ai trattamenti che erano all’ultimo grido nella prima metà del secolo scorso: pur di apparire giovani e belle, anche le nostre nonne o bisnonne erano pronte a sottoporsi ai tormenti più surreali.
Partiamo da Max Factor Sr., nome leggendario, vero e proprio innovatore che, grazie al suo lavoro per le prime grandi star del cinema, fu in grado di costruire un impero. A lui si deve lo sviluppo dell’industria cosmetica, oltre che il termine “make-up”. Gli si deve anche la straordinaria maschera con cubetti di plastica per il ghiaccio che vedete qui sotto: pensata originariamente per dare rinfresco alle attrici accaldate dalle luci del set, senza rovinare il trucco, questa invenzione ben presto divenne però celebre tra i festaioli di Hollywood per tutt’altro motivo… guadagnandosi il nomignolo di Hangover Heaven (“paradiso del doposbornia”).
Sempre Max Factor è l’artefice dell’infame beauty micrometer, inquietante apparecchio che avrebbe dovuto identificare le parti del viso di una persona che necessitavano d’essere ridotte o aumentate dal trucco. Stranamente, questo incrocio fra uno strumento di tortura e un craniometro frenologico non ebbe mai lo sperato successo.
Similmente minacciosi ci appaiono oggi i primi caschi per la permanente, che modellavano i capelli ricciolo per ricciolo.
Per eliminare lentiggini e punti neri, negli anni ’30 si poteva ricorrere ad una macchina aspiratrice, le cui coppette di vetro erano collegate tramite tubi di gomma ad una pompa a vuoto.
L’alternativa era quella di congelare le lentiggini mediante applicazioni di anidride carbonica. Gli occhi della “paziente” erano protetti da gommini a tenuta stagna, le narici venivano tappate e per non inalare il gas nocivo era necessario respirare attraverso un tubo tenuto in bocca.
Non molto confortevole – e nemmeno efficace, a quanto si racconta.
Un altro metodo per ottenere una pelle sempre giovane e perfetta consisteva nello stimolare la circolazione sanguigna tramite una maschera che scaldasse il viso: lanciato nel 1940, questo caschetto si accendeva una volta attaccato alla presa elettrica.
Una bella camminata in montagna, si sa, è sempre salutare e tonificante. Ecco quindi apparire negli anni ’40 una macchina che, abbassando la pressione atmosferica attorno alla testa per simulare le condizioni d’alta quota, prometteva una carnagione rosata e florida.
Cosa c’è di più grazioso di due belle fossette agli angoli della bocca? Nel 1936 una certa Isabella Gilbert di Rochester, New York, brevettò questo apparecchio, da indossare ogni notte per crearle artificialmente: sfortunatamente, sembra che il dolore causato dalle molle fosse troppo intenso anche per le più fanatiche fra le aspiranti fotomodelle.
In soccorso delle pelli troppo sensibili, ecco due invenzioni degli anni ’40: gli occhiali da sole con proteggi-naso, e il “cappuccio a prova di lentiggini” (evidentemente, le efelidi erano nemiche giurate della bellezza).
Dalla stessa epoca proviene questa poltrona massaggiante per gambe sempre splendide.
E, immaginiamo, anche perfettamente depilate.
Questa carrellata di vecchie fotografie mostra come l’ossessione per l’aspetto fisico non sia certo una novità; d’altronde, la ricerca e la valorizzazione della bellezza estetica sono fra le caratteristiche più antiche della civiltà occidentale, a partire dalla kalokagathia greca. Oggi ci si spinge ancora oltre, quello odierno è un corpo fluido, flessibile, manipolabile e rimodellabile in un infinito lavoro di ricerca e di perfezione. L’unico ostacolo che si ritrova davanti è sempre lo stesso: l’antico, intollerabile e acerrimo nemico d’ogni avvenenza – il tempo.
La lotta per sconfiggere i segni che il tempo lascia sul corpo è senza quartiere, anche se l’esito della battaglia, purtroppo o per fortuna, è scontato. Ma demordere non è una peculiarità umana: e se pure qualcuno di questi trattamenti estetici d’altri tempi ci può far sorridere, non sono certo più ingenui o fantasiosi delle mode che nascono e muoiono anche oggi. Perché essere belli è diventato un dovere… ma rimane pur sempre un’illusione, fragile e a suo modo necessaria.
Abbiamo già parlato dei più famosi pietrificatori in questo articolo. Ritorniamo sull’argomento per esaminare la figura del torinese Giuseppe Paravicini (1871-1927), e la peculiare storia dei suoi preparati.
Paravicini ricoprì la carica di anatomista presso l’Istituto di Anatomia Patologica del più grande manicomio d’Italia, a Mombello di Limbiate, dal 1901 al 1917, e dal 1910 al 1917 fu appuntato direttore del suddetto nosocomio. Avendo accesso diretto ai cadaveri dei pazienti deceduti da poco all’interno dell’istituto, Paravicini sperimentò su di essi alcune tecniche conservative, costituendo una notevole collezione di preparati.
Fra i reperti perfettamente conservati, si contavano (nelle parole del Paravicini stesso), “una bella serie di encefali di idioti, epilettici, paralitici, dementi precoci, dementi senili, alcoolisti […] intestini con ulcere tifose e tubercolari […] polmoni […] con vaste caverne, fegati affetti da cirrosi atrofica, ipertrofica, da sarcomi e noduli cancerigni, una milza sarcomatosa di eccezionali dimensioni, reni con neoplasmi, cisti, ecc.“; i cervelli, in particolare, erano tutti suddivisi lombrosianamente secondo la malattia mentale che li aveva afflitti. Vi erano anche uno scheletro deforme affetto da nanismo e delle preparazioni in liquido di teste e feti.
Ma i pezzi più straordinari erano i busti interi, che ancora mostravano perfette espressioni del volto. Fra di essi, anche il busto di un acromegalico e quello di alcune donne.
E, infine, i due corpi interi pietrificati dal Paravicini: quello di Angela Bonette, morta il 3 giugno del 1914 e affetta da demenza senile, e Evelina Gobbo, un’epilettica morta di polmonite il 16 novembre 1917.
Giuseppe Paravicini pare fosse gelosissimo del suo metodo segreto, e come altri pietrificatori ne portò le formule nella tomba.
Quello che si può dedurre dai documenti e dalle testimonianze oculari è che per la conservazione dei corpi interi egli utilizzasse una pompa a pressione costante per iniettare, mediante un’incisione sull’inguine del defunto, soluzioni a caldo di cera, solventi e paraffina (secondo altri, olii balsamici e qualche tipo di fissante). Il liquido entrava dall’arteria femorale, attraversava tutti gli organi, il derma e lo strato sottocutaneo per poi uscire dalla vena.
Per quanto riguarda le parti anatomiche più piccole, invece, egli si affidava all’uso di formolo, alcol e glicerina. Si trattava di metodi complessi e non certo rapidi, molto simili per alcuni versi a quelli utilizzati dal suo ben più celebre predecessore Paolo Gorini.
Il risultato era, se possibile, ancora più incredibile delle pietrificazioni del Gorini. Scrive infatti Alberto Carli: “le opere di Paravicini appaiono al tatto più morbide e umide di quelle goriniane, che dimostrano, invece, un eccezionale stato di secchezza lignea.” Le sue preparazioni mantenevano un aspetto talmente realistico che, immancabile, si diffuse la leggenda che egli eseguisse le sue mummificazioni mentre il soggetto era ancora in vita, essendo in grado di sperimentare in corpore vili (cioè su corpi di persone di scarsa importanza). Certo è che la sua collezione, proprio per il fatto d’esser stata realizzata sui cadaveri di degenti del manicomio, aveva un elemento disturbante ed eticamente imbarazzante che spinse i responsabili a tenerla sempre nascosta negli scantinati dell’istituto.
I reperti vennero in seguito trasferiti all’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini, il cui direttore prof. Antonio Allegranza fece installare delle teche a protezione dei corpi interi, e dei supporti in legno per i busti. Sempre Allegranza sostiene di aver visto la pompa con cui presumibilmente Paravicini iniettava la sua formula, prima che andasse persa nel trasloco da Mombello al Paolo Pini.
Dal Paolo Pini, la collezione venne spostata brevemente al Brefiotrofio di Milano, poi nella Facoltà di Scienza Veterinaria.
In tutti questi decenni, gli straordinari preparati rimasero dietro porte chiuse, visibili soltanto agli studiosi.
Infine, l’Università di Milano li affidò in deposito gratuito alla Collezione Anatomica Paolo Gorini per poterli degnamente esporre. Oggi sono finalmente visibili all’interno dell’Ospedale Vecchio di Lodi, nelle sale adiacenti alla collezione Gorini.
I volti di questi anonimi pazienti del manicomio di Mombello rimangono, al di là dell’interesse anatomico, una drammatica testimonianza di un’epoca: ombre di vite spezzate, spese in condizioni impensabili oggi.
L’ex-manicomio di Mombello è tutt’ora un’enorme struttura abbandonata: i lunghissimi corridoi ricoperti di murales, le scalinate fatiscenti, i cortili divorati dalla vegetazione, i padiglioni dove arrugginiscono i letti e le sedie d’epoca sono ormai esplorati soltanto da fotografi in cerca di location suggestive.
NOTA: le foto a colori presenti nell’articolo ci sono state gentilmente offerte dal nostro lettore Eros, che ha visitato la collezione quando era ancora in stato di abbandono nei sotterranei di una palazzina della Provincia di Milano; le foto in bianco e nero (precedenti di almeno una decina d’anni) sono opera di Attilio Mina. Le foto del manicomio sono invece di Emma Cacciatori.
A San Jose, in California, potete visitare una delle case più singolari al mondo: la Winchester Mystery House. Si tratta di una faraonica villa di ben 18.000 metri quadri di superficie (un terzo della reggia di Versailles!), composta da circa 160 stanze – quattro piani, quaranta camere da letto, due sale da ballo, quarantasette focolari, due cantine, e via dicendo. Un tempo i piani erano sette, e la proprietà che circondava la casa era di 660.000 metri quadri. Avrebbe potuto abitarci una vera e propria corte reale.
Ma la cosa più straordinaria non è la dimensione del complesso abitativo, quanto piuttosto lo strano e surreale modo in cui è stata costruita. Aggirandosi per le stanze della Winchester House, infatti, ci si sente talvolta come in un’incisione di Escher: si possono ammirare scalinate che portano dritte contro un soffitto, senza apparente possibilità di utilizzo; un’altra scala scende per 7 scalini, per poi salire improvvisamente di 11; e, ancora, finestre sul pavimento, o che si aprono su altre stanze, finte porte, corridoi impossibili e irregolari… si sarebbe tentati di pensare che si tratti soltanto di un’attrazione di un parco a tema, eppure questo costoso e immenso scherzo architettonico venne costruito a cavallo fra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, ed è ancora oggi al centro di uno dei misteri americani più famosi e duraturi.
L’ideazione di questa casa è opera dell’enigmatica figura di Sarah Winchester.
Nata Sarah Lockwood Pardee nel 1837, a New Haven nel Connecticut, nel 1862 si unì ad una delle famiglie più ricche del posto, sposando William Wirt Winchester. Costui era l’unico figlio di Oliver Winchester, il fondatore e proprietario di una delle fabbriche di fucili a ripetizione di maggior successo.
Sarah Winchester
William Wirt Winchester
Il 12 luglio del 1866 Sarah diede alla luce una bambina, Annie; la piccola però morì cinque settimane più tardi di marasma infantile, una grave forma di consunzione fisica normalmente dovuta a malnutrizione o svezzamento precoce. Questa perdita segnò indelebilmente la giovane madre, che precipitò in una depressione grave: non volle più avere figli.
Nel 1880 Oliver Winchester, il settantenne proprietario del celebre marchio di fucili, morì lasciando a William le redini dell’azienda; ma la presidenza del rampollo durò poco, perché l’anno successivo la tubercolosi si portò via anche lui. Sarah si trovò di colpo da sola – vedova, ed ereditiera di un’ingente fortuna. È stato calcolato che, essendo proprietaria del 50% della compagnia, Sarah guadagnasse l’astronomica cifra di 1.000 dollari al giorno: quasi 20.000 dei nostri attuali euro.
Da questo momento in poi la storia comincia già ad essere offuscata dalla leggenda, ed è difficile risalire a dati certi. Quello che si sa è che, secondo i registri della Contea, nel 1886 (e non nel 1884, come spesso riportato) Sarah si trasferì sull’altra sponda degli Stati Uniti, in California, assieme alle sorelle e le rispettive famiglie. Comprò una piccola fattoria a San Jose e, poco a poco, acquistò anche i terreni circostanti. Nessuno conosce con precisione il motivo di questo spostamento; tutto quello che gli abitanti del luogo vennero a sapere era che questa ricca signora si era insediata lì e aveva bisogno di manovalanza per la costruzione della sua nuova casa.
I lavori, però, non terminarono una volta che la Winchester House era completata: Sarah voleva che si proseguisse a costruire.
Per ben trentotto anni – ininterrottamente – Sarah Winchester condusse una vita da reclusa, continuando imperterrita a lavorare alla sua dimora, con operai impiegati sei giorni su sette, perfezionando maniacalmente questo castello surreale e spiazzante. Gli operai potevano lavorare per un mese a una stanza, solo per ricevere in seguito l’ordine di distruggerla e ricominciare da capo; ma poiché la paga era buona, nessuno osava contraddire l’eccentrica milionaria. I lavori si fermarono soltanto alla sua morte, avvenuta il 5 settembre 1923 per infarto nel sonno, all’età di 83 anni. Ma perché questa anziana donna avrebbe dovuto investire la sua fortuna in una casa completamente assurda, in cui per orientarsi la servitù aveva bisogno di una mappa, e perserverare nella costruzione incontrollata fino alla fine dei suoi giorni?
Secondo la leggenda, quando Sarah viveva ancora nel Connecticut un medium di Boston (a fine ‘800 siamo in piena esplosione dello spiritismo) l’avrebbe convinta di essere vittima di una maledizione. Le troppe morti – la sua bambina, il suocero, il marito – che l’avevano fatta soffrire potevano essere spiegate in un solo modo: gli spiriti di tutte le persone uccise da un fucile Winchester le stavano dando la caccia. Spostarsi ad Ovest, trovare una casa e continuare a costruire attorno a sé un labirinto di scale, finte aperture, botole e altre illusioni ottiche avrebbe impedito alle anime vendicative di trovarla. Le continue sedute spiritiche le davano indicazioni su come proseguire la sua opera. Questa, a grandi linee, sarebbe stata la motivazione dietro la genesi della Winchester House. Una donna squilibrata, quindi, in preda alle visioni e al terrore, che seguitava a ordinare nuove costruzioni per scampare alla vendetta degli spiriti – 365 giorni all’anno, per 38 anni.
Questo almeno è quanto raccontano le guide, ben addestrate dalla Winchester Investments LLC, la società privata che oggi gestisce la casa e l’ha trasformata in un’attrazione turistica. Eppure, per quanto possa essere affascinante, questa versione dei fatti non è corroborata dai dati storici. Negli archivi comunali, che contengono molte lettere redatte da Sarah Winchester di proprio pugno, non vi è riferimento ad alcun medium da Boston, né peraltro allo spiritismo in generale. Il carattere stesso della vedova non lasciava infatti supporre che fosse particolarmente irrazionale: “la Signora Winchester – dichiarò nel 1925 il figlio dell’avvocato di famiglia – era una donna sana e di chiare idee come poche altre che io abbia conosciuto, e aveva un fiuto per gli affari e per le questioni finanziarie migliore di quello di molti uomini. L’idea che soffrisse di allucinazioni è una fandonia“.
Anche sui lavori continuativi la leggenda è esagerata: la biografa di Sarah Winchester (ritorneremo su di lei) ha scoperto che venivano in realtà concessi dei lunghi periodi di pausa agli operai.
È giusto sottolineare che queste dicerie non sono nate a posteriori, appositamente per incrementare il turismo, ma circolavano già quando Sarah Winchester era ancora viva. La donna conduceva infatti una vita da reclusa, senza contatti con i vicini e senza ricevere visite. Afflitta da una grave forma di artrite reumatoide che le aveva deformato mani e piedi, aveva anche perso tutti i denti; per questo le rare volte in cui si decideva ad uscire in città, la gente poteva vedere soltanto una figura nerovestita e guantata, il volto nascosto da un velo. Naturale che attorno a questa misteriosa vedova milionaria che continuava ad espandere la sua magione sorgessero le storie più fantasiose.
Ma la domanda principale rimane: perché costruire quella casa in maniera tanto strampalata?
Pur escludendo la pista dello spiritismo, alcune delle ipotesi avanzate sono degne del miglior (o peggior) Dan Brown: l’autore americano Richard Allan Wagner, sul sito dedicato a Sarah Winchester, si spertica in arzigogolate analisi delle presunte simbologie massoniche e rosacrociane disseminate per la casa, che dimostrerebbero come il luogo in realtà sia stato accuratamente progettato da Sarah a guisa di labirinto iniziatico e sapienziale. Ci sono infatti alcuni dettagli che si ripetono nelle decorazioni, come ad esempio le margherite (i fiori preferiti di Sarah) e delle fantasie a forma di ragnatela.
Peccato che, a voler proprio vedere l’antico simbolo della triquetra nei ghirigori degli stucchi, o a leggere la sequenza di Fibonacci nei petali dei fiorellini della carta da parati, finisce che praticamente tutte le case vittoriane diventano dei templi esoterici.
Peccato anche che l’autore di queste teorie sia lo stesso che sostiene da anni che William Shakespeare fosse, in realtà, Francis Bacon.
In tutto questo, l’unico dettaglio che sembra plausibile è che Sarah fosse ossessionata dal numero 13, tanto da ripeterlo più volte all’interno della casa, e da redigere il suo testamento in tredici sezioni firmate tredici volte. Ma questo vezzo scaramantico non getta particolare luce sulle sue motivazioni.
Secondo Mary Jo Ignoffo, autrice della più accurata biografia su Sarah Winchester pubblicata finora, vi sono diversi fattori che potrebbero aver contribuito al continuo rimaneggiamento della casa. Da una parte, la Ignoffo suggerisce che offrire un impiego alla moltitudine di operai alla residenza di San Jose fosse un modo per la signora Winchester di ripagare idealmente suo padre, falegname che durante l’infanzia di Sarah aveva passato dei drammatici periodi di disoccupazione. Dall’altra, diverse lettere fanno sospettare che i continui lavori fossero anche una buona scusa per mantenere la volontaria reclusione, evitando le visite indesiderate dei parenti: dopo dieci anni di costruzioni, Sarah scriveva a sua cognata che la casa non era “ancora pronta” per ricevere degli ospiti.
La Ignoffo, infine, assesta un’ultima stoccata a gran parte dei “misteri” della casa, dimostrando come molte delle stranezze architettoniche furono in realtà il risultato del terremoto del 1906, che fece crollare diverse sezioni dei piani superiori: invece di ricostruirli, Sarah decise di far semplicemente richiudere le pareti danneggiate. Ecco dunque spiegate le scale che finiscono su un soffitto, o le porte che danno sul nulla.
La Winchester House prima del terremoto del 1906.
“Non sapremo mai veramente cosa spinse Sarah Winchester a intraprendere quest’opera titanica e assurda“, amano ripetere le guide turistiche. Forse è così, ma il sospetto che rimane è che, al di là delle affascinanti leggende, vi fosse una realtà molto più prosaica. Quella di una donna eccentrica e sola, il cui unico entusiasmo era progettare e dirigere gli operai in complicate operazioni di costruzione: una dilettante architetta con tanto tempo, e troppi soldi, a disposizione.