First Day

The great French writer Jacques Prévert died April 11, 1977.

Here is one of his poems, Premier jour.
It is truly amazing to see how he manages, with minimalist touches and a masterful use of color, to plunge us into the tragedy of a death during childbirth.

And then there is that word, dans (“inside”), recurring in each verse and suggesting a strange telescope effect. One thing is always inside another, everything is connected; the event is inscribed in a wider perspective – the house, the town, the night.

This is why one should not be deceived by the poem’s apparent formal simplicity. In reality, it encompasses both joy and drama, the mystery of life and death; and a dark cosmos (the night), of which we will never know whether it is compassionate or indifferent.

10 comments to First Day

  1. Jocularis says:

    Grazie Ivan.

  2. Max says:

    Spesso leggo i tuoi articoli solo sulle e-mail, alcune volte come questa sento l’esigenza di venire qui a ringraziarti per il senso di meraviglia e sensibilità che riesci a comunicare. Continua così!

  3. Livio says:

    Drammatica e commovente. Mi associo ai grazie per questa perla!

  4. Daimon says:

    Incantevole. Riesce con pochi tocchi a metterti i brividi.
    È forse la prima volta che parli esplicitamente di poesia su BB? Non mi sembra di ricordare altri articoli, ma forse mi sbaglio (e nella Piccola Libreria Lunare manca una sezione di poesia).
    Quali sono i tuoi poeti preferiti?
    Io mi sono avvicinato alla materia da poco più di un anno grazie alla scoperta delle poesie di Ginsberg e Bukowski (che giganti!), e adesso sto facendo un “corso” accelerato. Accetto volentieri consigli.

    • bizzarrobazar says:

      Faccio fatica a risponderti, perché ti confesso che non sono mai riuscito a capire se esista davvero una definizione univoca di “poesia”.
      Di sicuro non possiamo usare il termine per riferirci esclusivamente a un componimento in metrica e versi: tanto è vero che esistono anche i poemi in prosa, vedi ad esempio le Illuminazioni di Rimbaud, così come tante pagine di innumerevoli autori che solo un pazzo non qualificherebbe come “poesia” solo perché non sono scritte in versi.

      Ma c’è di più; riusciamo tranquillamente a riconoscere qualità poetiche in produzioni artistiche non verbali. Tutti vedono la poesia in un quadro di Magritte, in una scultura di Bernini, perfino nel silenzio assordante della celebre composizione 4’33” di John Cage.
      E allora cosa distingue la “poesia” dal resto?

      Per come la vedo io – ed è solo un’opinione personale – la poesia non sta tanto nell’andare a capo dopo ogni frase, quanto piuttosto nella tensione di trascendenza rispetto al linguaggio utilizzato.
      Mi sembra cioè che si possa parlare di poesia quando l’autore utilizza degli elementi risaputi (siano essi parole, raffigurazioni, fraseggi musicali, ecc.) cercando di andare al di là del loro uso abituale, investendoli di nuovo significato, portando alla luce inedite connessioni, connotazioni, prospettive.

      E’ questo che succede quando leggiamo il verso della Stein “Rose is a rose is a rose is a rose“, che ci costringe ad affrontare una delle parole più abusate della letteratura come se la vedessimo per la prima volta; quando sentiamo la voce di Carmelo Bene che violenta un testo teatrale, lavorando “contro” il suo senso originale, trasformandolo in qualcosa di misterioso che si spinge ben oltre le battute stesse; quando guardiamo gli scarponi di Van Gogh e capiamo che non stiamo guardando due semplici scarponi; quando Tom Waits prende un valzer da Vecchia Europa e lo trasfigura con un tappeto di cupe marimbe e percussioni infernali; quando Klaus Kinski impazzisce tra le scimmie nel finale di Aguirre, e ci accorgiamo che ad essere messo in scena qui è il dramma ancestrale dell’umanità intera, spinta alla follia da una natura incomprensibile e crudele.

      Tutte queste forme artistiche hanno in comune il tentativo di superare/espandere il loro stesso sistema espressivo, attraverso figure retoriche, artifici, invenzioni, ibridazioni. Vogliono portare al limite, o addirittura far esplodere, la forma.
      Questo è quello che mi sembra di poter chiamare “poesia”, rispetto a modalità più convenzionali che intendono semplicemente narrare qualcosa senza pretendere di rivoluzionare il linguaggio.

      Lo so che speravi solo in qualche consiglio letterario, e non ti aspettavi certo un pippotto simile. 😀
      Ma il punto è proprio questo: mi chiedi quali sono i miei poeti preferiti, e io non so cosa dirti. Da francofilo impenitente ti potrei citare una congerie di autori d’oltralpe, da Villon ai “maledetti”, da Mallarmé ai surrealisti; oppure, dato che menzioni alcuni nomi anglosassoni, potrei indirizzarti verso Blake, Coleridge, Swinburne, ma anche Sylvia Plath, Diane di Prima o Kenneth Patchen, o perfino il buon vecchio E. A. Poe.
      Ma la verità è che la poesia la trovi – e sublime – anche nei racconti di Borges e nei pirotecnici romanzi di Queneau, nel Tao Te Ching o nell’insolenza sfrontata con cui Bob Dylan allungava le vocali in Like A Rolling Stone

      E con questo direi che ti ho punito abbastanza per la tua domanda. 🙂

      • Daimon says:

        Altro che punito! Sono riuscito a leggere la risposta solo ora e ti ringrazio per avermi portato ancora una volta riflettere.
        È vero che ovunque possono esserci frammenti di poesia, ma dicendo che in un dipinto di Van Gogh c’è “poesia”, utilizziamo il termine poesia come se potesse essere sostituito da altri termini come magia, mistero, profondità.
        L’uomo classifica e cataloga e un dipinto appartiene a una sfera artistica ben precisa, anche se all’interno può esserci un intero mondo che necessiterebbe di una novella tutta sua per essere reso in parole.
        Penso proprio che alla fine sia tutta una questione di forma e nulla di più.
        Hai presente le poesie di Bukowski? (Intendo solo alcune delle sue poesie come ” liar, liar, pants on fire! ” o “depression kid” e altre poesie della raccolta Bone palace ballet)Nel loro essere così semplici, narrative e dirette, chi le definirebbe poesie se non fossero messe giù nella forma classica della poesia con il suo “andare a capo”?
        Probabilmente anche per Bukowski era soprattutto una questione di forma e infatti diceva che la poesia differisce dalla prosa principalmente perché utilizza poche parole per dire molto, alludendo a una distinzione di tipo formale e dimensionale e non di significato.
        Rimanendo a Bukowski, mi verrebbe da dire che ci sia molta più poesia in racconti profondi e a tratti criptici come “ho sparato a un uomo a Reno”, racconti che però lui stesso considerava prosa sempre per una questione di forma.
        Ho parlato di Bukowski perché mi pare che il suo sia un caso limite (secondo alcuni non si potrebbe, nel suo caso, nemmeno parlare di letteratura) che ben rappresenta il benedetto stato attuale di indefinito che ha seguito lo scardinamento di vecchie regole in svariati linguaggi.
        Ammetto di non essere convinto della mia risposta… (Come possono i frammenti in prosa dei diari di Joe Bousquet non essere poesia?)
        Volevo dire la mia, ma probabilmente servirebbe un professorone come Seamus Heaney e ancora non si arriverebbe a un punto.

  5. viò says:

    Bella e agghiacciante!

  6. mario says:

    Grazie. Avrei preferito mai averla letta, x lo sgomento in jump scare che estirpa nel finale. Ma vale una vita averla letta per apprezzare il tornasole di sensibilità cui, raramente, l’umanità suole adoprarsi. Grazie.

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