Emoscambio

Sui piloni dei viadotti italiani, lungo le autostrade, sul cemento dei muri di contenimento o sui cartelli stradali appaiono talvolta strane ed ermetiche scritte. La più celebre è DIO C’È. Secondo una leggenda metropolitana, sarebbe opera di un frate francescano che, percorrendo l’Italia a piedi, avrebbe deciso di quando in quando di riaffermare (assecondando istinti piuttosto vandalici, a dire il vero) l’esistenza del Signore. Un’altra spiegazione, mai pienamente confermata, è che si trattasse di un linguaggio in codice camorristico per segnalare la presenza di spacciatori nei paraggi: qualche appassionato di enigmistica ha addirittura pensato che la scritta fosse un acronimo per “Droga In Offerta: Costo Economico”.

Ancora più incomprensibili e spiazzanti erano i caratteri cubitali che sembravano pubblicizzare o profetizzare un misterioso EMOSCAMBIO, con una caratteristica “E” disegnata come la lettera greca sigma, e seguiti da un numero di telefono. Se ne ricorderà chi, nato negli anni ’70, viaggiava spesso in Nord Italia: campeggiavano su casolari abbandonati, fabbriche in disuso e altri punti poco frequentati. Ma a cosa facevano riferimento quei criptici messaggi sullo “scambio di sangue”?

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La realtà che si cela dietro alle scritte è sorprendente, e rimane ancora in parte inspiegata. Chiunque si fosse appuntato il numero telefonico, e avesse deciso una volta tornato a casa (non esistevano i cellulari allora!) di saperne di più sul fantomatico emoscambio, avrebbe sentito dall’altro capo della cornetta una segreteria telefonica che lo ragguagliava sui punti salienti di una particolare teoria salutistica, invitandolo poi a spedire un contributo di almeno 10.000 lire ad una casella postale dell’aeroporto Linate a favore dell’I.I.D.F., Istituto Italiano di Fisiologia.

Ora, un simile Istituto non è mai esistito. Il numero di telefono era quello di un’abitazione privata di Segrate (MI), dove viveva un signore di nome Vito Cosmaj.

L’unica traccia ufficiale dell’attività di Cosmaj si può trovare nei bollettini del Registro Pubblico Generale delle opere protette dalla legge sul diritto d’autore relativi alla fine degli anni ’70: in quel periodo risulta che Vito Cosmaj avesse facoltà di godere dei diritti di alcune opere edite a sue spese, vale a dire il trattato Fisiologia Universale (Umana Sociale e Cosmica), edito a Lodi dallo stampatore Lodigraf nel 1978, il manuale intitolato T.A.F. – Tecnologia dell’Amplesso Fisiologico (registrato il 13/03/1980), una sua revisione (del 30/12/1980) e infine nientemeno che un Vangelo Secondo Vito Cosmaj (13/10/1980).

Già questi titoli sarebbero abbastanza eccentrici da stimolare la fantasia di un qualsiasi indagatore. Ma quando si scopre a quali ricerche si dedicasse il nostro Cosmaj, le cose si spingono ancora più fuori dall’ordinario.

Uno dei fondamenti della sua dottrina era la cosiddetta T.A.F., o Tecnica dell’Amplesso Fisiologico, volta a ristabilire la corretta posizione durante l’accoppiamento: secondo Vito Cosmaj, era essenziale ritornare alla copula naturale, tipica di tutti gli animali, in cui l’uomo prende la donna da dietro, restando in piedi. Far l’amore a letto nella posizione del “missionario”, invece, era a suo dire una perversione inaccettabile, “posizione sbagliata, innaturale e non fisiologica (ossia pornografica, tolemaica, cristiano-ebraica islamico-democristiana)”.

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I volantini distribuiti da Vito Cosmaj sono un piccolo capolavoro dell’assurdo, che ricorda il futurismo e il surrealismo: per mezzo di costanti divagazioni e pungolature alla politica e alla borghesia, l’autore disegna una specie di folle programma pseudoscientifico per rivoluzionare la realtà italiana. Il gusto dissacrante e ironico è evidente, a partire dalle invenzioni linguistiche (fare sesso con il metodo T.A.F. diventa “taffare”, la laurea che è possibile conseguire presso il fantomatico Istituto è chiamata “Addottorato”, ecc.) fino alla finta pubblicità che reclamizza una cintura di castità prodotta dalla Virgo-Virginis S.p.A. di Palermo, dal capitale sociale di 999 miliardi di lire “interamente versato”…
Prendiamo ad esempio la descrizione dell’esame finale per ottenere l’Addottorato:

PER OTTENERE la suddetta laurea è necessario superare un esame con prova pratica ed orale in seno all’I.I.D.F.
L’ADDOTTORATO in questione è riservato ai soli MASCHI celibi, ammogliati, separati, divorziati, vedovi, ecc. ecc. di nazionalità italiana con età non inferiore agli anni 21, mentre tale laurea è interdetta alle femmine per ovvi motivi, ai religiosi (preti, frati, vescovi, cardinali, papi, ajatolli, archimandritti, ebrei, buddisti, maomettani, cristiani, democristiani, testimoni di geova, protestanti, ortodossi, valdesi, ecc. ecc.), ai reclusi, agli unisex, ai dementi e ciarlatani che insegnano ed hanno imparato la fisiologia negli atenei del nostro “glorioso Stato Italiano”, e a tutti coloro insomma che non avranno superato l’esame per qualsivoglia motivo […]. L’I.I.D.F. non procura femmine da taffare agli esaminandi. È proibita ogni forma di leccamento, succhiamento, masturbazione o toccamento manuale agli organi sessuali da parte di entrambi i soggetti. L’unica eccitazione ammessa è il dimenare del sedere della femmina contro i genitali del maschio e viceversa per 20” dopo di che CHI NON HA EREZIONE OPPURE NON RIESCA A COMPENETRARE LA FEMMINA NELL’ORIFIZIO GIUSTO VIENE INESORABILMENTE BOCCIATO ED ESPULSO DALL’I.I.D.F. […] Premio di consolazione per i bocciati: uno stronzetto d’oro (falso naturalmente) da appuntare all’occhiello quale distintivo.

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Tra frecciate rabbiose alle religioni, alla Democrazia Cristiana e alla scienza, citazioni farlocche di Napoleone Bonaparte e del generale Cambronne, e virulenti aforismi, Cosmaj costruisce dei testi pirotecnici che avrebbero fatto la felicità di Queneau o di Umberto Eco.
Ancora sulla T.A.F.:

L’UOMO però imbecille come sempre, che si sente orgoglioso ed evoluto solo perché è riuscito a sbarcare sulla luna, mentre gli UFO sono ogni giorno di più una realtà e poi perché è riuscito a costruire una bomba (termonucleare) con la quale autodistruggersi, e poi perché è furbo a non finire, è riuscito a crearsi un DIO dentro il quale e per mezzo del quale giustificare tutti i misteri della natura e nascondere tutte le proprie capacità, miserie e limiti che non vuole riconoscersi per paura di perdere di dignità (anziché di trovarla) DOPO 2000 ANNI dal giorno in cui cominciò a misurare la propria esistenza, questa tecnica ancora ignora! PER I PAZZI ovviamente è più importante e più glorioso escogitare il sistema per autodistruggersi piuttosto che quello di vivere bene, armonicamente ed equilibratamente! […] L’UOMO CHE NON SA COMPIERE L’AMPLESSO (O MEGLIO TAFFARE) NUDO MENTRE GLI ALTRI LO OSSERVANO È UN UOMO CHE HA VERGOGNA DELLE PROPRIE AZIONI: Insomma NON È UN UOMO, MA UNA MERDA! (E per la donna vale lo stesso!)

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Ora, leggendo queste righe, la domanda sorge spontanea: Cosmaj ci era o ci faceva?
A prima vista tutta la questione dell’emoscambio sembra infatti un’elaborata burla, un esercizio di patafisica. Purtroppo Vito Cosmaj è morto nella prima metà degli anni ’90, e a parte il flano pubblicitario non rimangono altri indizi per conoscere qualcosa di più della sua visione. L’unica pista da seguire è trovare chi l’ha conosciuto di persona.

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L’abbiamo fatto, chiedendo qualche delucidazione a un altro personaggio particolarmente colorito: Gian Paolo Vanoli, che si autodefinisce “Sovrano Individuale” e “Giornalista Investigativo specializzato in Sanità da 40 anni”. Gestore di un sito di medicina alternativa e recentemente al centro di polemiche a causa delle controverse dichiarazioni rilasciate a Vice e rimbalzate sui siti internazionali, Vanoli bazzica da sempre tutto il variegato sottobosco di teorie sanitarie non convenzionali ed è strenuo sostenitore delle virtù terapeutiche derivanti dal bere la propria urina. Ma quello che ci interessa qui è la sua relazione con Vito Cosmaj, che Vanoli ha conosciuto e della cui assoluta serietà riguardo all’emoscambio si dice convinto. Secondo Vanoli, il fulcro di tutto il pensiero di Cosmaj era proprio la trasfusione di sangue a fini salutistici.

Ci scrive Vanoli: “L’ho conosciuto incontrandolo solo una volta nella quale abbiamo parlato della sua teoria e mi sono convinto che la praticava personalmente con altri. Infatti gli avevo detto di fare molta attenzione perché con lo scambio del sangue si importano le tossine ed il DNA alterato dei donatori e quindi possibili malattie e morte prematura… cosa che si è realizzata in lui.
NON ricordo di cosa vivesse, perché sono passati molti anni.
NON era una burla, la praticava regolarmente ogni tanto.
Per me è una pratica antica, ma NON salubre, quindi non sono d’accordo nel propagandarla.

Il dubbio, però, resta. Sia che praticasse davvero delle pericolose trasfusioni, sia che la sua bizzarra propaganda nascondesse in realtà un progetto artistico o che il buon Cosmaj fosse semplicemente un po’ fuori di testa, le sue tracce sono ormai svanite. Anche le innumerevoli, gigantesche scritte che personalmente disegnava sulle superstrade o sugli edifici abbandonati stanno scomparendo a poco a poco, e con esse sparisce anche un folle e affascinante segreto.

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Ringraziamo il nostro lettore Silvio per averci segnalato questa pagina web, che ha iniziato le ricerche sull’emoscambio, e in particolare l’utente David che nella sezione dei commenti proprio su quella pagina ha approfondito la questione.

AGGIORNAMENTI

La questione dell’Emoscambio evidentemente appassiona i lettori. Nella sezione dei commenti sono spuntati alcuni aneddoti affascinanti, e ogni tanto qualcuno mi contatta con qualche nuovo tassello.

  • Solidea segnala che negli elenchi dei gettoni di necessità (“che circolavano anche negli anni 60/70, quando la Zecca dello Stato non riusciva a soddisfare le esigenze crescenti del conio di moneta […], vere e proprie pubblicità a pagamento“) si trova questo gettone relativo al periodo 1970-1980, altro tentativo promozionale per l’Emoscambio.

  • L’archivio Waybackmachine ha “salvato” per la consultazione il vecchio sito web dell’Emoscambio (segnalato da Gianmaria Rizzardi).
  • Il lettore Paolo ML ha invece trovato una curiosità all’interno del settimanale ABC (forse il n. 31 dell’agosto 1972,  la copertina è rovinata). Nella rubrica Risposte in breve, la corrispondente del giornale replica con ammirevole aplomb a una missiva inviatale dalla “Confraternita degli Emodinamisti” che evidentemente, oltre ad averle spedito un volantino, l’aveva anche apostrofata con un poco gentile epiteto — in puro stile Cosmaj.

La bambina nella scatola

Dietro ogni cosa bella
c’è stato qualche tipo di dolore.
(Bob Dylan, Not Dark Yet)

La storia di Irina Ionesco e di sua figlia Eva suscita scandalo da quarant’anni, ed è certamente un caso unico nel panorama dell’arte contemporanea per le implicazioni etiche e morali che lo accompagnano.

Irina Ionesco, nata a Parigi da padre violinista e madre trapezista, viene abbandonata all’età di quattro anni. Spedita in Romania, paese da cui provenivano i genitori, Irina viene cresciuta dalla nonna e dagli zii nell’ambiente del circo. Nonostante sognasse di diventare ballerina, a causa del suo fisico asciutto ed elastico verrà indirizzata verso l’antica arte del contorsionismo. Dai 15 ai 22 anni gira l’Europa, l’Africa e il Medio Oriente con il circo; durante il suo spettacolo si esibisce con due serpenti boa, e più tardi dichiarerà: “ero diventata schiava di quei serpenti, e alla fine ne ho avuto abbastanza”.

Durante una convalescenza a causa di un incidente di danza a Damasco, Irina comincia a disegnare e a dipingere; abbandonato il circo, viaggia per qualche anno con un ricco giocatore d’azzardo iraniano che la copre di gioielli e abiti lussuosi, prima di studiare arte a Parigi. Poi, ecco da una parte l’incontro fortuito con la fotografia (l’artista belga Corneille le regala una reflex nel 1964), e con gli scritti sulfurei e trasgressivi di Georges Bataille dall’altra.

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Le sue fotografie, che inizialmente ritraggono amiche e amici agghindati con gli abiti che Irina aveva nel suo stesso guardaroba e fotografati al lume di candela, conoscono un immediato successo fin dalla prima esposizione. Già da questi primi scatti sono evidenti quegli elementi che attraverseranno tutta l’opera della fotografa: l’erotismo feticistico, i costumi di scena ricercati e barocchi, le pose teatrali, le collane di perle, e i dettagli gotici (teschi, corredi funebri, composizioni floreali).

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Ma le fotografie davvero controverse di Irina Ionesco non sono queste. Dal 1969 in poi, Irina decide di fotografare sua figlia Eva, di appena 4 anni, nei medesimi contesti in cui fotografa le modelle adulte. Cioè nuda, in pose da femme fatale, e agghindata soltanto con quegli accessori che avrebbero dovuto renderla un’icona dell’erotismo.

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Siamo negli anni ’70, un’epoca in cui i tabù sessuali sembrano cadere ad uno ad uno, e chiaramente il lavoro di Irina si iscrive in questo contesto storico specifico; ciononostante le foto creano un grosso scandalo – che ovviamente porta fama e successo alla fotografa. La critica discute animatamente se si tratti di arte o di pornografia, e anzi per qualcuno le fotografie proiettano un’ombra ancora più inquietante, quella dell’istigazione alla pedofilia.

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ion2Ma in tutto questo, cosa prova la piccola Eva Ionesco? È in grado, data la sua tenera età, di comprendere appieno ciò che le sta accadendo?

Mia madre mi ha fatto posare per foto al limite della pornografia fin dall’età di 4 anni. Tre volte a settimana, per dieci anni. Ed era un ricatto: se non posavo, non avevo diritto ad avere dei bei vestiti nuovi. E soprattutto non potevo vedere mia mamma. Mia madre non mi ha mai allevata; il nostro unico rapporto, erano le foto.

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Eva Ionesco diviene ben presto una piccola star: nell’ottobre del 1976, all’età di 11 anni, viene pubblicato un servizio su di lei sul numero italiano di Playboy. È la più giovane modella mai apparsa nuda sulle pagine della rivista. Seguono alcuni ingaggi come attrice (il primo nell’Inquilino del Terzo Piano di Polanski), fra i quali spicca il suo ruolo nel film “maledetto” di Pier Giuseppe Murgia, Maladolescenza, del 1977. Il film racconta la scoperta, da parte di tre adolescenti, della sessualità e degli istinti crudeli ad essa collegati, in un ambiente naturale e privo di sovrastrutture (in un chiaro riferimento al Signore delle Mosche); le due attrici protagoniste di 11 anni e il loro compagno di 17, nel film sono impegnati in scene di sesso simulato e mostrati mentre si dedicano a torture reciproche e contro gli animali. Il film non manca di una sua poesia, per quanto efferata e disturbante, ma nei decenni successivi viene ritirato, censurato, rieditato e infine condannato definitivamente per pedopornografia nel 2010 da una corte olandese.

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Da tutta questa serie di attività di modella a sfondo erotico, decise e volute dalla madre, Eva riuscirà a liberarsi proprio nel 1977, quando Irina perde l’affidamento della figlia. Eppure l’ombra di quelle fotografie perseguita Eva ancora oggi. E se madre e figlia non hanno mai avuto un vero rapporto, per anni si sono parlate soltanto per interposti avvocati.

Non vuole rendermi le stampe e i negativi. Continua a vendere un numero enorme di quelle fotografie. In Giappone si trova ancora un sacco di roba, libri, CD erotici. La gente crede che Irina Ionesco significhi soltanto foto vintage con una piccola principessa che viene spogliata. Ma io me ne frego dei reggicalze! Bisogna dire le cose come stanno: voglio far proibire le foto in cui mi si vedono il sesso e l’ano.

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I processi giudiziari, per mezzo dei quali Eva ha cercato di riappropriarsi dei propri diritti e di farsi riconsegnare dalla madre gli scatti più espliciti, hanno avuto un amaro epilogo nel 2012: il tribunale le ha riconosciuto soltanto parte delle richieste, e ha condannato Irina a versare 10.000 euro di danni e interessi per sfruttamento dell’immagine e della vita privata della figlia. Ma le foto sono ancora di proprietà della madre.

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Nel 2010 Eva ha cercato di liberarsi dei fantasmi della sua infanzia curando la regia di My Little Princess, un film in parte autobiografico in cui il personaggio della madre è affidato all’interpretazione di Isabelle Huppert e quello della bambina a una sorprendente Anamaria Vartolomei. Nel film, l’arte fotografica è vista come un’attività senza dubbio pericolosa:

Isabelle Huppert carica la macchina fotografica come un’arma. L’immagine rinchiude, rende il personaggio muto. Fotografarmi, significava mettermi in una scatola: dirmi “sii bella e stai zitta”.

E in un’altra intervista, Eva rincara la dose:

Spogliare qualcuno, fotografarlo, rispogliarlo, rifotografarlo, non è violenza? Accompagnata da parole gentili, naturalmente: sei magnifica, sublime, meravigliosa, ti adoro. […] Volevo raccontare una persona senza coscienza né barriere, dispotica e narcisa. Una persona che non vede. Fotografa, ma non vede.

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Il valore artistico dell’opera di Irina Ionesco non è mai stato messo in discussione, nemmeno dalla figlia, che le riconosce un’incontestabile qualità di stile; sono le implicazioni etiche che fanno ancora discutere a distanza di decenni. Le fotografie della Ionesco ci interrogano sui rapporti fra l’arte e la vita in modo estremo e viscerale. Esistono infatti innumerevoli esempi di opere sublimi, la cui realizzazione da parte dell’artista ha comportato o implicato la sofferenza altrui; ma fino a dove è lecito spingersi?

Forse oggi ciò che rimane è una dicotomia fra due poli contrapposti: da una parte le splendide immagini, provocanti e sensuali proprio per il fatto che ci mettono a disagio, come dovrebbe sempre fare l’erotismo vero – un mondo immaginario, quello di Irina Ionesco, che secondo Mandiargues “appartiene a un ambito che non possiamo conoscere, se non attraverso la nostra fede in fragili ricordi”.
Dall’altra, la ben più prosaica e triste vicenda umana di una madre fredda, chiusa nel suo narcisismo, che rende sua figlia una bambina-manichino, oggetto di sofisticate fantasie barocche in un’età in cui forse la piccola avrebbe preferito giocare con i compagni (cosa che Irina le ha sempre proibito).

L’innegabile fascino delle fotografie della Ionesco sarà quindi per sempre incrinato da questo conflitto insanabile – la consapevolezza che dietro quegli scatti si nascondesse un abuso; eppure questo stesso conflitto le rende particolarmente inquietanti e ambigue, addirittura al di là delle intenzioni originali dell’autrice, in quanto stimolano nello spettatore emozioni contrastanti che poche altre opere erotiche sono in grado di veicolare.

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Irina compirà 78 anni a settembre, e continua ad esporre e a lavorare. Eva Ionesco oggi ha 48 anni, e un figlio: non è davvero sorprendente che non gli abbia mai scattato una foto.

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Le interviste a cui fa riferimento l’articolo sono consultabili qui e qui.

Nim Chimpsky

È possibile insegnare alle scimmie a comunicare con noi attraverso il linguaggio dei segni? È quello che voleva scoprire il dottor Herbert Terrace della Columbia University di New York quando, all’inizio degli anni ’70, diede avvio al suo rivoluzionario”progetto Nim”.

Nim Chimpsky era uno scimpanzé di due settimane, chiamato così per parodiare il nome di Noam Chomsky, linguista e intellettuale fra i più influenti del XX Secolo (chimp in inglese significa appunto scimpanzé).
Nato in cattività presso l’Institute of Primate Studies di Norman (Oklahoma), nel dicembre del 1973 Nim venne sottratto alle cure di sua madre, e affidato da Terrace a una famiglia umana: quella di Stephanie LaFarge, sua ex-allieva. L’intento era quello di crescere il cucciolo in tutto e per tutto come un essere umano, vestirlo come un bambino, trattarlo come un bambino, insegnargli le buone maniere, ma soprattutto cercare di fargli apprendere il linguaggio dei sordomuti.

L’idea di Terrace potrà sembrare un po’ folle e temeraria, ma va inserita in un contesto scientifico peculiare: la linguistica era agli albori, e da poco veniva associata all’etologia per comprendere se si potesse parlare di linguaggio vero e proprio anche nel caso degli animali. Lo stesso Chomsky faceva parte di quella fazione che sosteneva che il linguaggio fosse una caratteristica specifica e assolutamente unica dell’essere umano; secondo questa tesi, gli animali certamente comunicano fra di loro – e si fanno capire bene anche da noi! – ma non possono utilizzare una vera e propria sintassi, che sarebbe prerogativa della nostra struttura neurologica.
Se Nim fosse riuscito ad imparare il linguaggio dei segni, sarebbe stato un vero e proprio terremoto per la comunità scientifica.

Il professor Terrace però commise da subito un grave errore.
La famiglia a cui aveva affidato Nim non era effettivamente la più adatta per l’esperimento: nessuno dei figli della LaFarge era fluente nel linguaggio dei segni, e quindi nella prima fase della sua vita, quella più delicata per l’apprendimento, Nim non imparò granché; inoltre, la madre adottiva era un’ex-hippie con un’idea piuttosto liberale nell’educare i figli.
Nim finì per essere lasciato libero di scorrazzare per il parco, di mettere la casa sottosopra, e addirittura di fumarsi qualche spinello assieme ai “genitori”.
Quando Terrace si rese conto che non stava arrivando alcun questionario compilato, che certificasse i progressi del suo scimpanzé, comprese che l’esperimento era seriamente a rischio. Il clima indisciplinato e caotico di casa LaFarge metteva in pericolo l’intero studio.


Terrace decise quindi di incaricare una studentessa ventenne, Laura-Ann Petitto, dell’educazione di Nim.
Strappato per una seconda volta alla figura materna, lo scimpanzé venne trasferito in una residenza di proprietà della Columbia University, dove la Petitto cominciò un più rigido e intensivo programma di addestramento.
In poco tempo Nim imparò oltre 120 segni, e i suoi progressi cominciarono a fare scalpore. Conversava con i suoi maestri in maniera che sembrava prodigiosa, e in generale faceva mostra di un’intelligenza acuta, tanto da arrivare addirittura a mentire.

Ma ormai Nim non era già più un cucciolo, e con la giovane età cominciò a crescere di mole e soprattutto di forza. I suoi muscoli erano potenti come quelli di due maschi umani messi assieme, e spesso Nim non era in grado di misurare la violenza di un suo gesto: gli stessi giochi che qualche mese prima erano spensierati, diventavano per gli addestratori sempre più pericolosi perché lo scimpanzé non si rendeva conto della sua forza.
Con lo sviluppo sessuale e la maturazione verso l’età adulta, inoltre, crebbe anche la sua aggressività: la Petitto venne attaccata diverse volte, due delle quali in maniera molto grave. I morsi di Nim in un’occasione le lacerarono la faccia, costringendola a 37 punti di sutura, e in un’altra le recisero un tendine.

La tensione psicologica era insopportabile, e la Petitto decise di lasciare l’esperimento… e di lasciare Terrace, con il quale aveva cominciato una relazione sentimentale.
Joyce Butler, una studentessa di vent’anni, entrò a sostituire la Petitto come terza madre adottiva di Nim. Anche lei fu più volte attaccata dalla scimmia, e la difficoltà di reperire fondi fece infine decidere a Terrace di dichiarare concluso l’esperimento, e smantellare il progetto dopo solo quattro anni.

Qui cominciò un vero e proprio calvario per il povero Nim. Egli non aveva infatto mai avuto contatti con altri primati, essendo sempre vissuto con gli umani: quando gli scienziati lo riportarono all’Institute of Primate Studies, Nim era completamente terrorizzato dai suoi simili e ci vollero diversi uomini per staccarlo da Joyce Butler, alla quale si era avvinghiato, per essere rinchiuso nella gabbia.
Per “lo scimpanzé che sapeva parlare”, abituato a mangiare a tavola in compagnia degli esseri umani e a correre libero nel parco, la prigionia fu uno shock terribile. Ma le cose erano destinate a peggiorare, perché l’istituto decise di trasferirlo in un centro di ricerca scientifico in cui si faceva sperimentazione sugli animali.

Rinchiuso in una gabbia ancora più angusta, di fianco a decine di altre scimmie terrorizzate in attesa di essere inoculate con virus e antibiotici, il futuro di Nim era tutt’altro che roseo. Terrace non muoveva un dito per salvarlo da quel destino, e così ci pensarono alcuni degli assistenti che avevano preso parte al progetto: organizzarono un battage mediatico denunciando le condizioni inumane in cui Nim era tenuto, diedero avvio a un’azione legale e infine riuscirono a farlo trasferire in un ranch di recupero per animali selvatici, liberando anche le altre scimmie destinate agli esperimenti.

Nonostante fosse al sicuro in questa riserva naturale, Nim era ormai provato, abbattuto e depresso; restava immobile e senza mangiare anche per giorni. Quando dopo anni la sua prima madre adottiva, Stephanie LaFarge, gli fece visita e volle entrare nella gabbia, Nim la riconobbe immediatamente e, come se la ritenesse responsabile per averlo abbandonato, la attaccò quando lei provò ad entrare nella gabbia.

Eppure arrivò per Nim almeno un’ultima, insperata, dolce sorpresa: dopo un lungo periodo di solitudine, un altro scimpanzé, femmina, venne introdotto nella sua gabbia e per la prima volta Nim riuscì a socializzare con la nuova arrivata.
Potè così passare gli ultimi anni della sua vita in compagnia di una nuova amica, forse più sincera e fidata di quanto non fossero stati gli uomini. Nim morì nel 2000 per un attacco di cuore.

Il professor Terrace, dopo aver cercato e ottenuto la fama grazie a questo ambizioso progetto, tornò sui suoi passi e dichiarò che il progetto era stato fallimentare; dichiarò che Nim non aveva mai veramente imparato a formulare delle frasi di senso compiuto, ma che era soltanto divenuto abile ad associare certi segni alla ricompensa, e aveva capito quali sequenze usare per ottenere del cibo. La voglia dei ricercatori di vedere in un animale un’intelligenza simile alla nostra aveva insomma viziato i risultati, che andavano grandemente ridimensionati.
Ancora oggi però c’è chi è convinto del contrario: gli assistenti e i collaboratori che hanno conosciuto Nim e si sono presi cura di lui continuano anche oggi a sostenere che Nim sapesse davvero parlare in maniera chiara e precisa, e che se Terrace si fosse degnato di stare un po’ di più con lo scimpanzé, invece di relazionarsi con lui soltanto al momento di farsi bello davanti ai fotografi, l’avrebbe certamente capito.

La ricerca, per la metodologia confusionaria con cui venne condotta, ha effettivamente un valore scientifico relativo, e i dati raccolti si prestano a interpretazioni troppo volubili.
D’altronde un esperimento come il progetto Nim è figlio del suo tempo, e sarebbe impensabile replicarlo oggi; lo strano destino di Nim, questo essere speciale che ha vissuto due vite in una, la prima come “umano” e la seconda come animale da laboratorio, continua però a sollevare altre questioni, forse ancora più fondamentali. Ci interroga sui confini (reali? inventati?) che separano l’uomo dalla bestia, e soprattutto sui limiti etici della ricerca.

Nel 2010 James Marsh (già regista di Man On Wire) ha diretto uno splendido documentario, Project Nim, costituito in larga parte di materiale d’archivio inedito, che ripercorre in maniera commovente e appassionante l’intera vicenda.

Mr. Tambourine Man

Ah, ma ero così vecchio allora,

Adesso sono molto più giovane.

(Bob Dylan)

Oggi Bob Dylan conclude il suo settantesimo viaggio attorno al sole. Un poeta d’altri tempi, un cantastorie, un artista fra i più sinceri e meno inclini ai compromessi, pronto a deludere i fan pur di mantenere la sua integrità. Un uomo che, con una trilogia di album dal ’64 al ’66 ha cambiato il volto della cultura mondiale, e che ha firmato almeno un disco fondamentale ad ogni decennio successivo. La sua influenza sulla musica rock è incalcolabile. Sì, direte, ma cosa c’entra con lo “strano, macabro, meraviglioso”?

Bizzarro Bazar è stato definito da alcuni lettori un “compagno notturno”, un piccolo blog per le ore piccole, da sfogliare quando insonni cerchiamo quello stupore che soltanto la notte può regalarci. Ecco, il nostro personale ringraziamento al vecchio zio Bob è per quel suo commovente inno all’incanto e alla sospensione notturna, quel vero e proprio scrigno di meraviglie nottambule che è Mr. Tambourine Man. Se anche avesse scritto soltanto quella canzone, gliene saremmo eternamente debitori.

MR. TAMBOURINE MAN

Hey! Mr. Tambourine, suona una canzone per me
Non ho sonno e non c’è nessun posto dove andare
Hey! Mr. Tambourine, suona una canzone per me
Nel mattino tintinnante io ti seguirò

Sebbene io sappia che l’impero della sera è ritornato sabbia
Svanito dalle mie mani
Lasciandomi qui cieco ma ancora insonne
La mia stanchezza mi meraviglia, sono fisso sui miei piedi
Non ho nessuno da incontrare
E l’antica strada vuota è troppo morta per sognare

Portami in viaggio sulla tua magica nave turbinante
I miei sensi sono spogli, le mie mani non sentono la presa
Le dita dei miei piedi troppo intorpidite per camminare
Aspettano solo che i tacchi dei miei stivali comincino a vagabondare
Sono pronto per andare ovunque, sono pronto a svanire
Nella mia parata personale
Lancia il tuo incantesimo danzante su di me
Prometto che lo accetterò

Se anche puoi sentire delle risate piroettare, dondolare follemente verso il sole
Non sono indirizzate a nessuno, stanno solo scappando di corsa
E tranne che per il cielo, non troveranno barriere
E se senti vaghe tracce di mulinelli di rime saltellanti
Al tempo del tuo tamburino, non è altro che un lacero pagliaccio
Non gli presterei alcuna attenzione, vedi bene che è solo
un’ombra quella che sta inseguendo

E infine fammi scomparire tra gli anelli di fumo della mia mente
giù nelle brumose rovine del tempo, lontano dalle foglie gelate
Dai paurosi alberi infestati dai fantasmi, fino alla spiaggia ventosa,
Lontano dalla presa perversa del folle dolore
Sì, a danzare sotto il cielo diamante con una mano che fluttua libera
Stagliato contro il mare, circondato dalle sabbie del circo,
Con tutti i ricordi ed il destino persi al fondo delle onde
Lascia che io dimentichi l’oggi fino a domani

Hey! Mr. Tambourine, suona una canzone per me
Non ho sonno e non c’è nessun posto dove andare
Hey! Mr. Tambourine, suona una canzone per me
Nel mattino tintinnante io ti seguirò

Soldati fantasma

La Seconda Guerra Mondiale era finita. Il 2 settembre 1945 entrò formalmente in vigore l’ordine di resa imposto dagli Alleati alle forze armate giapponesi. A tutte le truppe dislocate nei vari avamposti per il controllo del Pacifico vennero diramati dispacci che annunciavano la triste verità: il Giappone aveva perso la guerra, e i soldati avevano l’ordine di consegnare le armi al nemico. Ma, per quanto incredibile possa sembrare, alcuni di questi soldati “rimasero indietro”.

Shoichi Yokoi era stato spedito nell’arcipelago delle Marianne nel 1943. L’anno successivo gli Stati Uniti presero il controllo dell’isola di Guam, sconfiggendo la sua armata, ma Yokoi fuggì e si nascose nella giungla assieme ad altri nove soldati, deciso a resistere fino alla morte all’avanzata delle truppe americane. Passò il tempo, e sette dei suoi nove compagni decisero di separarsi: del gruppo originale, rimasero Yokoi e altri due irriducibili soldati. Alla fine, anche questi ultimi tre decisero di separarsi per motivi di sicurezza, ma continuarono a mantenere i contatti finché un giorno Yokoi scoprì che i suoi due compagni erano morti di fame e stenti. Ma neanche questo bastò a convincerlo a darsi per vinto. Anche una morte solitaria era preferibile alla resa.

Yokoi imparò a cacciare, durante la notte, per non essere avvistato dai nemici. Si preparò abiti con le piante locali, costruì letti di canne, mobili, utensili. Un giorno di gennaio due pescatori che stavano controllando le reti lo avvistarono nei pressi di un fiume. Riuscirono ad avere la meglio, e dopo un breve combattimento riuscirono a catturarlo e a trascinarlo fuori dalla foresta. Era l’anno 1972. Yokoi era rimasto nascosto nella giungla per 28 anni. “Con vergogna, ma sono tornato”, dichiarò al suo rientro in patria, dove venne accolto con i massimi onori. La fotografia del suo primo taglio di capelli in 28 anni apparve su tutti i giornali, e Yokoi divenne una personalità. L’esercito gli riconobbe la paga arretrata in un ammontare di circa 300$.

Ma Yokoi non fu il più tenace dei soldati fantasma giapponesi. Due anni più tardi, nel 1974, nell’isola filipina di Lubang, venne scoperto il rifugio segreto di Hiroo Onoda, ufficiale dell’Esercito imperiale giapponese che si trovava lì dal 1944.

Dopo essere sfuggito all’attacco statunitense nel 1945, Onoda ed altri tre commilitoni si erano nascosti nella giungla, decisi a frenare l’avanzata del nemico ad ogni costo. Il codice etico e guerriero del bushidō impediva loro anche solo di credere che la loro patria, il grande Giappone, si fosse potuto arrendere. Così, nonostante fossero arrivate notizie della fine della guerra, essi non vollero prestarci fede, e anche alcuni volantini furono reputati dei falsi di propaganda degli Alleati. Dopo che un compagno si era arreso e gli altri due erano rimasti uccisi, Onoda continuò da solo la “missione” per quasi trent’anni.

Nel 1974 un giapponese, Norio Suzuki, riuscì infine a scovarlo e a confermargli che la guerra era finita. Onoda si rifiutò di lasciare la sua posizione, dichiarando che avrebbe preso ordini soltanto da un suo superiore. Suzuki tornò in Giappone, con le foto che dimostravano che Onoda era ancora in vita, e riuscì a rintracciare il suo diretto superiore, che nel frattempo si era ritirato a fare il libraio. Così il vecchio maggiore intraprese il viaggio per Lubang, e una volta arrivato in contatto con Onoda lo informò “ufficialmente” della fine delle ostilità, avvenuta 29 anni prima, e gli ordinò di consegnare le armi. Finalmente Onoda si arrese, riconsegnando la divisa, la spada, il suo fucile ancora perfettamente funzionante, 500 munizioni e diverse granate. Ma al suo rientro in patria, la celebrità lo sorprese negativamente; per quanto si guardasse attorno, i valori antichi del Giappone secondo i quali aveva vissuto e per i quali aveva combattuto una personale guerra di trent’anni, ai suoi occhi erano scomparsi. Onoda vive oggi in Brasile, con la moglie e il fratello.

Sette mesi più tardi di Onoda, un ultimo soldato fantasma venne rintracciato a Morotai, in Indonesia. Si trattava di Teruo Nakamura, ma il suo destino sarebbe stato ben diverso da quello degli altri tenaci guerrieri solitari giapponesi. In effetti Nakamura era nato a Taiwan, e non in Giappone. Non parlava né cinese né giapponese; inoltre, non era un ufficiale come Onoda, ma un soldato semplice. Aveva vissuto per trent’anni in una capanna di pochi metri quadri, recintata, nella foresta. Già gravemente malato, visse soltanto quattro anni in seguito al suo ritrovamento. Taiwan e il Giappone si scontrarono a lungo sulla sua vicenda, su questioni di rimborsi e risarcimenti, e l’opinione pubblica si divise sul diverso trattamento riservato ai precedenti soldati fantasma.

Voci relative ad altri avvistamenti di soldati fantasma si sono spinte fino ai giorni nostri, ma spesso si sono rivelate dei falsi, e Nakamura rimane a tutt’oggi l’ultimo “soldato giapponese rimasto indietro” ufficialmente riconosciuto. Eppure, forse, da qualche parte nella giungla, c’è ancora qualche guerriero, ormai ultraottantenne, che scruta l’orizzonte per avvistare le truppe nemiche, e ingaggiare l’eroico combattimento che attende da una vita.

Ecco la pagina di Wikipedia che dettaglia tutti i ritrovamenti dei vari soldati fantasma giapponesi dal 1945 ad oggi.

Giocattoli weird

Talvolta i creativi dell’intrattenimento sviluppano idee che non incontrano il gusto del grande pubblico. Capita, non tutti i nuovi concept per giocattoli possono incontrare la fortuna. Certe volte, però, il fallimento sembra essere stato cercato appositamente, e con il lanternino.

“Se l’hula hoop ha avuto successo, anche la nostra Swing-Wing lo avrà sicuramente!”, devono essersi detti gli inventori di questo simpatico gioco – senza mostrare il minimo senso di pietà nei confronti delle cervicali dei poveri bambini.

Divertimento assicurato per tutta la famiglia con Ball Buster (“Spaccapalle”). Secondo la voce narrante i  bambini lo adorano… peccato che a metà dello spot si alzino annoiati, e i due genitori rimangano a giocare da soli… con le loro eccitanti palle da “spaccare”.

E cominciamo a parlare di bambole. Questa, ad esempio, è spacciata per un giocattolo irresistibilmente comico. L’effetto dello spot è esattamente l’opposto, e questa bambola sghignazzante potrebbe tormentare i vostri incubi per molto tempo.

Il bambolotto che fa pipì è un po’ un classico:

http://www.youtube.com/watch?v=NWbkbGjIYRI

E allora, perché non regalare al vostro bambolotto urinante un amico per la vita, e farlo accompagnare da un cane sbavante?

E, per concludere in bellezza questa breve panoramica, eccovi lo spot che porta il cattivo gusto ad un livello inedito. Il catastrofico doppio senso avrebbe dovuto impedire la messa in onda di una simile pubblicità; e invece, che ci crediate o no, lo spot è passato in televisione.