Two underwater graveyards

Along the cove named Mallows Bay, the Potomac River flows placid and undisturbed. It’s been doing that for more than two million years, you’ll have to forgive if the river doesn’t seem much impressed.
Its fresh and rich waters glide along the banks, caressing the hulls of hundreds of submerged ships. Yes, because in this underwater graveyard at least 230 sunken ships lay on the bottom of the river — a surreal tribute, here in Maryland, 30 miles south of Washington DC, a memento of a war among “featherless bipeds”, and of a military strategy that proved disastrous.

On April the 2nd, 1917, President Woodrow Wilson called Americans to arms against imperial Germany. This meant carrying dietary, human and military resources across the Atlantic Ocean, which was infested by German submarines. And supporting an army overseas meant to build the most majestic fleet in the history of mankind. In february 1917, engineer Frederic Eustis proposed an apparently irreproachable plan to lower costs and solve the problem: the construction of wooden ships, cheaper and faster to assemble than iron ships; a fleet so vast as to outnumber the inevitable losses due to submarines, thus able to bring food and weapons to European shores.
But, amidst beaurocratic and engineering delays, the project ironically did not hold water right from the start. Deadlines were not met, and in October 1918 only 134 wooden ships were completed; 263 were half-finished. When Germany surrendered on November 11th, not a single one of these ships had left port.

A legal battle to assert responsibilities ensued, as only 98 of the 731 commissioned ship had been delivered; and even these showed a weak and badly built structure, proving too small and costly to carry long-distance cargo. The maintenance costs for this fleet soon became excessive, and it was decided to cut out the entire operation, sinking the ships where they stood, one by one.

Today Mallows Bay harbours hundreds of fallen ships, which in time turned into a sort of natural reef, where a florid ecosystem thrives. As they were made of wood, these ships are by now part of the river’s habitat, and host algae and microorganisms that will in time erase this wartime folly, by turning it into a part of Potomac itself.
Mallows Bay is the largest ship graveyard in Western Hemisphere. As for the Eastern one, we should look for Truk (or Chuuk) Lagoon in Micronesia.

Here, during the course of another bloody war, WWII, hundreds of airplanes and other Japanese outposts were taken down during the so-called Hailstone operation.

On February 17, 1944, hell broke loose over this peaceful tropical lagoon, when US airforce sunk 50 Japanese ships and aorund 250 airplanes. At least 400 Japanese soldiers met their end here. Most of the fleet still remains in the place where it went down, under the enemy fire.

Foating on the surface of the lagoon’s clear waters, it is still possible to see the impressive structures of these wrecks; and several daredevils dive to explore the eerie panorama, where plane carcasses and battleship keels cover the ocean floor.

Rusted and sharp metal sheets, fluctuating cables and oil spills make the dive extremely dangerous. Yet this graveyard, the largest of its kind in the world, seems to offer an experience that is worth the risk. Among the bended metal of a by now ancient battle are still trapped the remains of those fighters Japan never managed to retrieve. Broken lives, terrible memories of a momentous conflict that claimed more victims than any other massacre.
And here, life flourished back again, covering the wrecks with luxurious corals and sea animals. As if to remind us that the world goes on anyway, never worrying about our fights, nor about the heroic victories we like to brag about.

(Thanks, Stefano Emilio!)

Volo 243

Il cielo della grande isola di Hawaii era terso e splendente, la mattina del 28 Aprile del 1988. Per molti dei passeggeri che attendevano di imbarcarsi, il volo 243 della Aloha Airlines avrebbe sancito la fine delle vacanze: da Hilo, dove si trovavano, avrebbero volato sopra l’oceano, ammirando per l’ultima volta le barriere coralline, fino ad atterrare all’aeroporto internazionale di Honolulu.

Venne dato il via all’imbarco. Mentre saliva la scaletta che portava all’entrata principale del Boeing 737, una donna notò una piccola crepa verticale sul metallo della fusoliera. Ma, com’è comprensibile, tenne per sé l’osservazione e non avvisò nessuno. D’altronde l’esterno era già stato controllato la mattina stessa, e l’occhio attento dell’ispettore non aveva notato nulla di sospetto.
Quel giorno, l’aereo N73711 (chiamato Queen Liliuokalani in onore dell’unica regina delle Hawaii) aveva già eseguito sei voli interinsulari tra Honolulu, Hilo, Maui e Kauai, senza mostrare alcun problema a nessuno dei sistemi di bordo. Così tutto lasciava presagire un ennesimo volo di routine – una passeggiata per il capitano Robert Schornstheimer, 44 anni e 8.500 ore di volo alle spalle.
Erano in tre nella cabina: al fianco del capitano, la prima pilota femmina della Aloha Airlines, Madeline “Mimi” Tompkins, nelle vesti di primo ufficiale; sul sedile passeggero aveva invece preso posto un controllore del traffico aereo della FAA (Federal Aviation Administration). Fuori dalla cabina di pilotaggio, tre hostess si prendevano cura degli 89 passeggeri.


Alle 13:25 l’aereo decollò dalla pista, e cominciò la sua ascesa. La situazione meteorologica era perfetta, e il volo era condotto a vista. “Mimi” Tompkins, che stava ai comandi, portò tranquillamente il Boeing all’altezza di crociera stabilita di 7.300 metri quando, all’improvviso, udì uno schianto e un assordante rumore di risucchio. La testa le venne strattonata all’indietro, mentre nella cabina volavano detriti, fra cui dei pezzi di gomma isolante grigia. Il capitano lanciò un’occhiata indietro e si accorse che la porta della cabina di pilotaggio non c’era più: guardando sopra alle teste dei passeggeri, dove avrebbe dovuto essere il tetto dell’aereo, si poteva vedere il cielo blu.

Il capitano prese immediatamente i comandi dell’aereo, attivò le maschere ad ossigeno per i passeggeri, e cominciò la discesa di emergenza. Ma cosa diamine era successo, là dietro?

Verso le 13:48, una sezione del tetto sul lato sinistro si era aperta di colpo all’altezza della prima classe: l’assistente di volo Clarabelle Lansing, di 58 anni, che al momento stava in piedi vicino alla fila 5, fu immediatamente risucchiata fuori bordo. La decompressione improvvisa provocò un’esplosione che strappò via l’intero tetto dell’aereo, dalla cabina di pilotaggio fino quasi alle ali, per circa un quarto della lunghezza dell’intera fusoliera.


Fortunatamente tutti i passeggeri erano seduti con le cinture allacciate, al momento dell’incidente. La seconda assistente di volo, in piedi alla fila 15, fu gettata per terra e lievemente ferita, ma riuscì comunque a strisciare carponi su e giù per il corridoio per assistere e calmare i passeggeri. La terza hostess, invece, stava alla fila 2 – più vicina alla breccia: colpita in testa dai detriti che schizzavano in ogni direzione, venne sbalzata via e crollò sul pavimento.

L’aereo proseguì la sua corsa senza un tetto, rollando paurosamente a destra e sinistra. Il capitano trovava sempre più difficile mantenere la stabilità del velivolo; nel frattempo, anche comunicare con la Torre di Controllo di Maui (l’aeroporto prescritto in caso di emergenza) risultava quasi impossibile per via del rumore assordante che impediva di sentire le risposte inviate via radio.

Alla fine, dopo dieci interminabili minuti di volo in quelle condizioni, il Queen Liliuokalani riuscì ad atterrare all’aeroporto di Maui: sventrato, aperto come una scatola di sardine. I passeggeri vennero fatti evacuare dagli scivoli e, poiché sull’isola c’erano soltanto due ambulanze, furono caricati sui pullman turistici per essere trasportati all’ospedale.
Il bilancio finale fu sorprendentemente fortunato: 65 feriti, di cui soltanto 8 gravi. Unica vittima la Lansing, il cui corpo non venne più ritrovato. Delle altre due assistenti di volo, soltanto la numero 3 riportò trauma cranico e gravi lacerazioni al capo.


L’inchiesta successiva dimostrò come l’incidente fosse stato provocato da una rottura per fatica del metallo, aggravata dalla corrosione della crepa: l’aereo, in servizio da 19 anni, aveva sempre operato in ambiente costiero ad alto tasso di umidità e salinità.
L’incidente del volo 243, al di là dell’eccezionale atterraggio di emergenza che lo fece entrare nella storia dell’aviazione, fu essenziale per rivedere e modificare le norme di sicurezza. Oggi le procedure di routine prevedono un esame esterno fra un volo e l’altro, e anche per i materiali utilizzati nella costruzione e nelle saldature si è fatto tesoro degli errori evidenziati in questo episodio.


Il capitano Bob Schornstheimer, ritenuto un eroe, si è ritirato nel 2005. “Mimi” Tompkins ha continuato a volare con la Aloha Airlines, diventando il primo capitano donna della compagnia.

(Grazie, Francesco!)