Roadkill cuisine

La nostra serie di articoli sui tabù alimentari, The Dangerous Kitchen, è conclusa da tempo; ma torniamo a parlare di cucina. Nouvelle cuisine, potremmo dire, se non altro “nuova” e sconosciuta all’assaggio per la maggioranza di chi legge (e per chi scrive). Da non scartare a priori in tempi di crisi e di dilemmi etici sulle crudeltà verso gli animali da macello, la roadkill cuisine offre innumerevoli vantaggi per la buona forchetta. L’ingrediente di base sono infatti le carcasse degli animali accidentalmente colpiti ed uccisi sulle strade.

Certo, ad una prima occhiata l’idea di andare a caccia di animali selvatici spiaccicati, staccarli dall’asfalto, portarli in cucina, scuoiarli e metterli in pentola può sembrare un po’ distante dalle raffinatezze nostrane. Sarà perché le asettiche confezioni di carne già preparata al supermercato ci aiutano a dimenticare il “lavoro sporco” del curare e preparare l’animale. Eppure, a pensarci bene, superando la nostra ripugnanza per il corpo morto, quale differenza ci sarebbe fra un coniglio di allevamento e una lepre investita da un’auto? Si tratta pur sempre di cibo altamente vitaminico e proteico, senza grassi saturi e di sicuro privo di conservanti, coloranti, steroidi, nitriti, nitrati o altri additivi chimici alimentari. E se poi vi capitasse di trovare un cervo morto, avreste lo stesso identico bottino di una partita di caccia… meno la violenza del massacro volontario.

Bisogna però prestare particolare attenzione alla scelta dell’animale: il rischio è quello delle malattie. I due principi di base, a sentire i sostenitori di questa particolare dieta, sono: “Quanto fresco è? Quanto è spiaccicato?“. C’è evidentemente una bella differenza, per fare un esempio, fra una volpe sbalzata sul bordo della strada e morta per trauma cranico, ma il cui corpo è ancora intatto, rispetto a un’altra a cui sono passati sopra una dozzina di veicoli.

 La carne, inoltre, va cotta più del normale, proprio come si farebbe con la selvaggina, per evitare infezioni batteriche. In ogni caso, il consiglio è di evitare del tutto i ratti, se non volete ritrovarvi con la poco simpatica leptospirosi.

Mangiare animali vittime di incidenti stradali è legale, o perlomeno non regolamentato, nella maggior parte degli stati: le eccezioni riguardano normalmente specie protette, o di grossa taglia, come cervi o alci. In Alaska, ad esempio, il corpo di un caribu investito da un’auto è proprietà dello Stato, e normalmente viene macellato dai volontari sul luogo dell’incidente. La carne viene poi distribuita alle mense dei poveri. Ma dagli orsi e dalle alci in Canada, alle celeberrime zuppe di scoiattolo e gli stufati di opossum degli Stati Uniti, fino ai barbecue di canguro in Australia, diverse tradizioni culinarie “insospettabili” dimostrano che praticamente tutto è commestibile. In America, la roadkill cuisine è piuttosto diffusa, tanto da essere perfino divenuta un topos da barzelletta per ridicolizzare una certa fascia medio-bassa della popolazione del Sud (i redneck, termine spregiativo per gli “zotici” del Sud).

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Tra i propugnatori di questo stile di alimentazione vi sono però anche ambientalisti critici del sistema industriale di produzione della carne, veri e propri amanti degli animali, e la loro è una scelta di vita. Jonathan McGowan mangia esclusivamente piccole vittime del traffico da 30 anni: “Ho visto quanto erano sporchi gli animali nelle fattorie, e quanto erano poco salutari. Una volta andavo anche al mercato della carne, dove gli animali erano trattati in maniera grottesca dagli allevatori. Non ero contento di ciò che vedevo, per nulla“. Questo il suo motivo per passare a piccioni, gabbiani, tassi, talpe e corvi falcidiati dalle macchine.

L’ex-biologo Arthur Boyt gratta via donnole, ricci, scoiattoli e lontre dalle strade vicino alla sua dimora in Cornovaglia addirittura da 50 anni. Pur appassionato di cani (sia detto senza ironia), afferma che il gusto del labrador è squisito come l’agnello. Non sopporta che la carne vada sprecata, ma non ucciderebbe un animale per nulla al mondo.

L’attivista Fergus Drennan, impegnato in lotte per l’ambiente e contro le fattorie industrializzate, confessa invece che, nonostante apprezzi la roadkill cuisine, lui non potrebbe mai mangiare animali domestici: “una delle poche cose che tendo ad evitare sono gatti e cani. In teoria, non dovrei avere problemi a mangiarli… ma hanno sempre nomi e targhette sui loro collari, e siccome ho due gatti, è un po’ troppo per me“.

Lasciando da parte cani e gatti, ecco una tabella nutrizionale che abbiamo tradotto dalla pagina Wiki inglese dedicata alla roadkill cuisine:

Due le spontanee domande che, a questo punto, il neofita gourmet delle carogne arrotate si starà certamente ponendo. 1. Non sono un biologo: come faccio a sapere con sicurezza quale animale mi trovo di fronte? 2. Una volta identificato, come lo cucino?

Non disperi il nostro impavido sperimentatore del gusto. Masticando un po’ d’inglese, entrambi i dubbi avranno risposta. Per riconoscere gli animali spiaccicati, non c’è miglior soluzione della guida di Roger Knutson dall’esplicito titolo Flattened Fauna (“Fauna appiattita”), che descrive aspetto, abitudini e particolarità biologiche delle specie pelose più comuni, dunque a rischio investimento, sulle strade dell’America del Nord. Per quanto riguarda le modalità di cottura, nessuno invece batte Buck Peterson, vero esperto del settore e autore di numerosi ricettari che coniugano un leggero humor nero con la serietà nell’approccio (soprattutto per quanto riguarda i consigli igienico-sanitari). Anche se non avete alcuna intenzione di convertirvi a questa particolare arte culinaria, noi vi consigliamo ugualmente il suo The Original Road Kill Cookbook: se non altro, è un ottimo libro da tenere in bella vista sul bancone della cucina, quando avete ospiti a cena.

The Dangerous Kitchen – III

Le uova sono fra i cibi più versatili e diffusi al mondo, praticamente in qualsiasi cultura. La lista dei piatti a base di uova, e dei metodi tradizionali per cucinarli, conta centinaia di diverse ricette. Ci concentriamo oggi su uno dei metodi più antichi e curiosi, utilizzato per preparare il cosiddetto pidan o pei dan.

Il pidan è chiamato anche “uovo centenario”, e secondo la leggenda fu scoperto per caso 600 anni fa da un contadino cinese che trovò delle uova rimaste a bagno in una pozza di calce, e provò ad assaggiarle. Innamoratosi del sapore, cominciò a produrle e a commercializzarle. Al di là delle incerte origini, il pidan è certamente un piatto antico ed è oggi ampiamente diffuso in Cina e nel Sudest asiatico (Taiwan, Laos, Thailandia, ecc.).

Le uova utilizzate sono di anatra, di gallina o di quaglia. La ricetta tradizionale prevede di bollire del tè, e aggiungervi poi calce viva, creta, cenere e sale: la mistura diviene quindi una crema densa e potenzialmente corrosiva. Con dei guanti, essenziali per non restare bruciati dalla calce, questa fanghiglia viene spalmata sulle uova, poi fatte rotolare in una terrina riempita di foglie di semi di riso in modo che non si attacchino l’una all’altra. Così preparate, le uova vengono poste in ceste o barili coperti.

Nel corso dei mesi di riposo, il fango si rapprende e forma una dura crosta. Ma è dentro a questi “bozzoli” che sta avvenendo la trasformazione chimica: il materiale alcalino utilizzato nella preparazione comincia ad innalzare il pH dell’uovo, spezzando così alcune catene di grassi e proteine in componenti più piccoli e gustosi. Il bianco dell’uovo diviene trasparente e gelatinoso, mentre il tuorlo assume un colorito grigioverde molto scuro. Dopo diversi mesi, la corazza di fango viene rotta e l’uovo centenario è finalmente pronto.

Per via della trasformazione chimica, l’uovo emana un forte odore di zolfo e ammoniaca, simile all’urina. Per questo motivo si è diffusa la falsa leggenda che questa specialità sia preparata mettendo a bagno le uova nell’urina del cavallo. Ma se l’odore non vi spaventa, l’uovo centenario è una prelibatezza davvero unica. Il suo albume gelatinoso non ha un preciso sapore, ma è il tuorlo verde che è la vera delizia: cremoso e dal gusto pungente, ricorda il sapore di alcuni formaggi stagionati o del gorgonzola.

Sulla superficie dell’uovo si formano talvolta dei piccoli e innocui funghi che assomigliano a dei fiocchi di neve, o agli aghi delle conifere, e che ne impreziosiscono singolarmente l’aspetto: per questo motivo uno dei nomi cinesi dell’uovo centenario è “uovo dai disegni di pino”.

Servito come antipasto singolo, oppure condito con salsa di soia e verdure, questo esotico piatto garantisce un’esperienza unica per i vostri ospiti più esigenti.

The Dangerous Kitchen – II

Continuiamo il nostro viaggio attorno al mondo alla ricerca delle prelibatezze culinarie più esotiche e raffinate. Oggi ci spostiamo nel sud est asiatico per assaggiare il “Re dei Frutti”: il durian.

Il durian è il frutto di un albero gigantesco, chiamato durio, che si può sviluppare anche fino a 50 metri di altezza. Se le api e le farfalle impollinano i fiori delle nostre piante da giardino, con questo colosso verde il compito tocca ai pipistrelli. E così, a circa tre mesi dall’impollinazione, ecco che sui rami del durio cresce quello che sarà il vostro prossimo dessert.

Aperta la scorza piena di spine, il cuore commestibile del frutto è insolitamente cremoso: il gusto di questa densa pasta giallastra ricorda le mandorle, ma con un retrogusto acidulo che ha sentori di senape o cipolla. Secondo alcuni avrebbe anche un leggero sapore di formaggio. Ma non è il gusto il problema del durian: è l’odore.

L’odore del durian è stato di volta in volta descritto in molti modi. Alla maggioranza delle persone ricorda l’odore dolciastro e nauseabondo della putrefazione della carne. C’è chi l’ha paragonato agli effluvi fognari, alle acque di scolo, alla trementina, alle cipolle marce, al vomito, al pungente lezzo di sudore, allo sterco di animale. Quello che è certo è che è decisamente spiacevole, anche quando il frutto è ancora chiuso, e per alcuni sarebbe il più terrificante odore al mondo.

La puzza del durian è così acre e appestante che a Singapore è vietato per legge introdurre il mefitico frutto sui mezzi di trasporto pubblici. Durante la crescita stagionale del durian, molte città fra la Tailandia, il Borneo e l’Indonesia vengono invase dall’inconfondibile aroma. Eppure se il durian è chiamato “il Re dei frutti”, un motivo forse c’è.

Gli appassionati di questa prelibatezza giurano che, una volta acquisito il gusto per il durian, non è possibile tornare indietro. È rimasta celebre, ad esempio, la descrizione che ne ha dato il naturalista Alfred Russel Wallace nel 1856:

“Le cinque celle sono vellutate di bianco all’interno, e sono riempite con una densa polpa di color crema […]. Questa polpa è la parte commestibile, e la sua consistenza e il suo gusto sono indescrivibili. Una ricca senape aromatizzata alla mandorla dà la migliore idea generale, ma ci sono occasionali ondate di sapore che fanno pensare alla crema di formaggio, alla salsa di cipolle, allo sherry e ad altri sorprendenti abbinamenti. E infine c’è la morbidezza appiccicosa della polpa che è davvero unica, e che fa del durian una squisitezza. Non è né acido né dolce né succoso; eppure non ha bisogno di queste qualità, perché è perfetto così com’è. Non produce alcuna nausea o altri effetti negativi,  e più lo mangi e meno vorresti fermarti. In realtà, mangiare il durian è una sensazione nuova e un’esperienza che da sola vale un viaggio in Oriente”.

In Asia il durian è servito fresco, oppure come contorno, ma anche cotto in padella, o abbinato a riso cotto nel cocco; in Indonesia è usato come aroma per un gelato tradizionale, e addirittura nella preparazione di un più moderno (e originale) cappuccino. Insomma, non vi mancherà certo occasione di assaggiare questa prelibatezza – ricordatevi soltanto di mettere in valigia una molletta per il naso.

Per concludere, ecco un divertente filmato in cui i ragazzi della trasmissione Braniac cercano di “misurare” l’odore del durian, inscenando una particolare gara di resistenza.

The Dangerous Kitchen – I

Un paio d’anni fa avevamo parlato di tabù alimentari; ora ritorniamo sull’argomento, inaugurando la nostra prima rubrica culinaria, The Dangerous Kitchen!

In ogni nuovo articolo suggeriremo ai lettori di Bizzarro Bazar un piatto appartentente alla schiera dei cosiddetti gusti acquisiti. Da Wiki: “il gusto acquisito si ha nei confronti di un alimento o di una bevanda che, per essere veramente apprezzato/a, deve sottostare ad un’esposizione e consuetudine prolungata, parziale o completa, agli aromi e agli ingredienti che esso/a contiene, prima di essere considerato/a familiare dal consumatore. Gli alimenti e le bevande di gusto acquisito possono essere considerati ripugnanti da chi non vi è abituato, sia per la loro materia prima, sia per la forma, il tipo di preparazione, l’odore o l’aspetto”.

Eppure, poche righe più in sotto, una frase salta all’occhio: “tuttavia è possibile acquisire gusti alimentari tardivamente, per esposizione volontaria o abitudine” (corsivo nostro). Perché quindi non cercare di travalicare i confini del gusto assodato, e ampliare i vostri orizzonti? Perché non ricercare questa “esposizione volontaria”, e comprendere perché ciò che a noi fa ribrezzo è considerato sublime da un’altra cultura? Cosa può essere una piccola violenza auto-inflitta, di fronte allo spalancarsi di nuove delizie per il palato?

Preparatevi per un viaggio alla scoperta dei cibi più sorprendenti. Lasciate da parte il buon gusto, fate spazio per un gusto nuovo!

La prima leccornia che vogliamo presentarvi, per dare il giusto tono, è il famigerato piatto svedese chiamato Surströmming.

Il surströmming è composto essenzialmente da aringhe fermentate. I pesci vengono puliti e messi in grandi botti, a fermentare per un paio di mesi. Poi vengono inscatolati in una salamoia abbastanza leggera da permettere alla fermentazione di continuare.

I gas che provengono dalla fermentazione cominciano, dopo un anno dall’inscatolamento, a deformare la latta della confezione: così, per scegliere il vostro surströmming al supermercato, vi consigliamo di cercare i barattoli più “gonfi”, quelli che hanno perso cioè la loro originale forma cilindrica: delle vere e proprie bombe a gas, che è perfino proibito imbarcare sulle principali linee aeree.

Per questo motivo, però, quando aprite la scatola vi converrà prestare un minimo di attenzione. Consiglio numero uno: se gli svedesi non aprono MAI un barattolo di surströmming al chiuso, ci sarà un perché. Consiglio numero due: anche all’esterno, non restate sottovento. Questo cibo, a detta di chi l’ha provato, emana uno degli odori più potenti, appestanti e nauseabondi al mondo. Anche soltanto aprire una scatolina può provocare violenti attacchi di vomito ai neofiti non preparati.

Come servire il surströmming? Potete mangiarlo alla moda del Nord, dove questo cibo è stato inventato, preparando un semplice e spartano panino con due fette di tunnbröd (o, in alternativa, di pane simile), patate a fette o fatte in puré, e il diabolico filetto di aringa. Se invece volete qualcosa di più raffinato, potete servirlo come si fa nella Svezia più meridionale, su un letto di lattuga, accompagnandolo con cipolle, patate, panna acida, pomodori o altri condimenti. Assieme ad esso tradizionalmente si trangugiano dei bei bicchierini di acquavite (per dimenticare in fretta cosa si è mangiato, diranno i maligni): se non reggete i superalcolici, potete ripiegare su un buon bicchiere di birra, o del latte freddo.

Molti fra i giovani turisti che si recano in Svezia acquistano una scatola di surströmming esclusivamente come prova di coraggio, usano tecniche assortite per cercare di mangiarlo resistendo ai conati… e, non c’è nemmeno da dirlo, inevitabilmente pubblicano poi l’impresa su YouTube. Ma al di là dell’aspetto folkloristico, sembra che il vero problema di questo piatto non sia il gusto: è l’odore il vero scoglio, e se si riesce a superare l’iniziale ribrezzo olfattivo, si scopre un sapore piuttosto piacevole e perfino delicato. C’è addirittura chi riesce ad apprezzarlo al primo assaggio, e in Svezia si sono sviluppate vere e proprie feste attorno a questo piatto prelibato ma certamente “difficile”.