The initiation ritual of tucandeira is typical of the Sateré-Mawé people stationed along the Amazon River on the border between the states of Amazonas and Pará of Brazil.
The ritual is named after a giant ant (the Paraponera clavata, also known as “bullet ant”) whose painful sting, 30 times more poisonous than that of a bee, causes swelling, redness, fever and violent chills.
This test of courage and endurance sanctions a tennager’s entry into adulthood: every young man who wants to become a true warrior must submit to it.
The tucandeira takes place during the Amazonian summer months (October to December).
First the ants must be captured and taken from their anthills, usually located at the base of hollow trees, and they are enclosed in an empty bamboo called tum-tum. A mixture of water and cajú leaves is then prepared, and the ants are immersed and left in this anesthetic “soup”.
Once they are asleep, the ants are inserted one by one within the knitting of a straw glove, their fearsome stingers stuck on the inside of the mitten. They are then left to awaken from their numbness: realizing that they are trapped, the ants begin to get more and more angry.
When the time for the actual ritual finally arrives, the whole village meets to observe and encourage the adolescents who undergo initiation. It is the much feared moment of the test. Will they resist pain?
He who leads the dance intones a song, adapting the words to the circumstance. The women sit in front of the group of men and accompany the melody. Some candidates paint their hands black with Genipa berries and then drink a very strong liquor called taruhà, based on fermented cassava, useful for reducing pain and giving the necessary strength to face the ritual. Those who undergo the tucandeira for the first five times must apply to certain diets. When the ants awaken, the actual ritual begins. The dance director slips the gloves on the candidates’ hands and blows tobacco smoke into the gloves to further irritate the ants. Then the musicians begin to play rudimentary wooden tubes while the boys dance.
The angry ants begin to prick the hands of the young, who are made to dance to distract themselves from the pain. In a short time their hands and arms get paralyzed; in order to pass the test, the candidate must wear the gloves for at least ten minutes.
After this time, the gloves are removed and the pain begins to manifest itself again. It will take twenty-four hours for the effect of inoculated neurotoxins to subside; the young man will be the victim of excruciating pain and sometimes prey to uncontrollable tremors even in the following days.
And this is just the beginning for him: to be fully completed, the ritual will have to be repeated 19 more times.
Through this ritual, a Sateré Mawé recognizes his origins, laws and customs; and from adolescence on, he will have to repeat it at least twenty times to be able to draw its beneficial effects. The whole population participates in the ritual and observes how the candidates face it. It is an important time to get to know each other, gather, and contract future marriages.
The tucandeira is also a propitiatory rite, through which a boy can become a good fisherman and hunter, have luck in life and work, turn into a strong and courageous man. People come together very willingly for this ritual, which in addition to its festive and playful aspect is also an opportunity to recall the cosmogonic myths of the origin of the stars, the sun, the moon, water, air and all living things.
(A. Moscè, Ibid.)
In this National Geographic video on tucandeira, the chief summarizes in an admirable way the ultimate meaning of these practices:
“If you live your life without suffering anything, or without any kind of effort, it won’t be worth anything to you.”
Che cos’è il cannibalismo, se non il riconoscimento
del “valore” dell’altro, a tal punto da doverlo ingoiare?
(Francesco Remotti, Identità, 2013)
Mangiare le carni di un essere umano è una pratica antica come il mondo, dallo stratificato e complesso valore simbolico.
In generale, dalla selva di teorie antropologiche o psicanalitiche al riguardo, non tutte condivisibili, emerge un elemento fondamentale, ossia la credenza magico-spirituale di poter assimilare attraverso il banchetto antropofago le qualità del morto. Dall’Africa all’Amazzonia alle Indie, divorare un valoroso nemico ucciso o fatto prigioniero in battaglia era certo un modo per vendicarsi, per negare l’alterità (e per contro, così facendo, rinforzare la propria identità culturale); ma a questo si unisce la speranza di acquisire il suo coraggio e la sua forza. Quest’idea è corroborata dal fatto che lo stesso meccanismo di transfert sarebbe stato presente anche nei riguardi della selvaggina, per cui alcune tribù del Sudamerica non cacciavano animali che si muovevano lentamente per timore di perdere le forze dopo essersene cibati.
Il cannibalismo, quasi universalmente, era poi ritualizzato e regolato da divieti precisi: l’identificazione fra vivi e defunti avveniva su diversi livelli, e ad esempio fra i Tupinamba chi aveva ucciso un determinato nemico non poteva assolutamente mangiare le sue carni, mentre gli era consentito nutrirsi dei corpi delle vittime dei suoi compagni guerrieri; rispetto a tutti gli altri pasti quotidiani, spesso l’agape cannibalesca era riservata ai soli guerrieri, avveniva di notte in speciali luoghi deputati allo scopo, e via dicendo. Tutto questo dimostra la prevalenza della significazione simbolica sull’effettiva necessità alimentare – l’idea che il cannibalismo potesse essere la soluzione ad una dieta con scarso apporto proteico, che pure alcuni autori sostengono, sembra secondaria. Nei contesti rituali, l’atto di consumare il cadavere di un proprio simile è eminentemente magico, e spesso superfluo ai fini della sopravvivenza.
I Tupì-Guaranì, ad esempio, bollivano le interiora dell’ucciso, ottenendo un brodo chiamato mingau che veniva distribuito a tutta la tribù, ospiti e alleati inclusi. Il reale apporto nutritivo fornito dalla carne umana, suddivisa fra decine e decine di persone, in questo caso era del tutto trascurabile.
Ancora più interessante sotto il profilo simbolico si presenta l’endocannibalismo, o allelofagia, vale a dire il cannibalismo verso individui appartenenti al proprio gruppo sociale.
Il primo a parlarne fu Erodoto nelle sue Storie (III,99):
Altre genti dell’India, localizzabili più verso oriente, sono nomadi e si nutrono di carni crude: si chiamano Padei; ed ecco quali sono, a quanto si racconta, le loro abitudini: quando uno di loro si ammala, uomo o donna che sia, viene ucciso; se è uomo, lo uccidono gli amici più intimi sostenendo che una volta consunto dalla malattia le sue carni per loro andrebbero perdute; ovviamente l’ammalato nega di essere tale, ma gli altri non accettano le sue proteste, lo uccidono e se lo mangiano. Se è una donna a cadere inferma, le donne a lei più legate si comportano esattamente come gli uomini. Del resto sacrificano chiunque giunga alla soglia della vecchiaia e se lo mangiano. Ma a dire il vero non sono molti ad arrivare a tarda età, visto che eliminano prima chiunque incappi in una malattia.
Se questa descrizione presenta l’endocannibalismo sotto una luce cinica e spietata, la maggior parte delle tradizioni in realtà vi ricorrevano in maniera ritualistica. In linea generale, infatti, soltanto gli estranei o i nemici venivano mangiati per fame o come forma di violazione; nel caso di defunti appartenenti al proprio clan le cose si facevano più complesse. Il capo tribù dei Jukun dell’Africa Occidentale, ad esempio, mangiava il cuore del suo predecessore per assorbirne le virtù; in molti altri casi l’assunzione delle carni umane era trattata come una vera e propria forma di rispetto per i defunti. Per noi risulta forse difficile accettare che vi sia della pietà filiale nell’atto di mangiare il corpo del proprio padre (patrofagia), ma possiamo comunque intuire la portata simbolica di questo gesto: il morto viene assimilato, e diventa parte vivente della sua progenie. Gli antenati, in questo modo, non sono degli spiriti lontani la cui protezione va invocata con riti e preghiere, ma sono verità tangibile e pulsante nella carne della propria stirpe.
Piuttosto significativo in quest’ambito di discussione risulta il caso dei Tapuya brasiliani, presso i quali talvolta, quando un padre invecchiava al punto da non potere più seguire gli spostamenti del gruppo, intrapresi solitamente per soddisfare i bisogni dei vari nuclei familiari, chiedeva ai parenti stretti di mangiare le sue carni e continuare così a vivere nei discendenti, dal momento che le sue precarie condizioni fisiche avrebbero costituito un ostacolo per l’intera comunità. A tale richiesta dunque il figlio maggiore concedeva il suo assenso ed esternava il suo dolore innalzando grida di sgomento di fronte ai propri consanguinei. Dopo la morte per cause naturali dell’anziano del gruppo, il suo corpo veniva arrostito nel corso di una complessa cerimonia accuratamente eseguita e l’intera famiglia, unitamente alla comunità, ne divorava le parti, accompagnando il pasto comune con urla e lamenti, alternati a racconti delle gesta del defunto. Ossa e cranio venivano frantumati e bruciati, mentre il resto del corpo era disposto in un grande recipiente di terracotta e quindi sotterrato. Sembra che i bambini invece fossero mangiati soltanto in caso di estrema necessità o di pericolo e unicamente dalla propria madre, oppure quando morivano per cause sconosciute; si pensava infatti di non potere offrire loro una tomba migliore del corpo nel quale si erano formati.
Usanze similari erano diffuse in Africa e nel Sudamerica (Amazzonia, Valle di Cauca, ecc.) dove diverse tribù solevano nutrirsi delle ceneri dei familiari mescolate assieme a bevande fermentate. In diverse tradizioni, erano solo le ossa ad essere mangiate, una volta bruciata la carne. I Tariana e i Tucano del Brasile riesumavano la salma alcuni mesi dopo la sepoltura, arrostivano le carni fino a che non rimaneva soltanto lo scheletro, che poi veniva finemente triturato e aggiunto a una bevanda destinata al consumo dell’intera comunità.
Gli Yanomami del Venezuela praticano questa forma di endocannibalismo delle ceneri ancora oggi. Il corpo del defunto viene in un primo momento avvolto in strati di foglie e portato lontano dal villaggio, nella foresta. Lì viene lasciato agli insetti per poco più di un mese, finché tutti i tessuti molli non sono scomparsi. Allora le ossa vengono raccolte, cremate, e le ceneri sono disciolte in una zuppa di banane distribuita a tutta la tribù. Se avanzano delle ceneri, queste possono essere conservate in un vaso fino all’anno successivo, quando per un giorno (il “giorno della memoria”) viene sollevato il divieto di parlare dei morti e, bevendo la zuppa, l’intero villaggio si riunisce per ricordare le vite e le gesta dei defunti.
Ma questi esempi non dovrebbero suggerire l’erronea impressione che il cannibalismo sia stato appannaggio esclusivo delle popolazioni tribali del Sudamerica, dell’Oceania o dell’Africa. Recenti scoperte hanno mostrato come la pratica fosse diffusa nelle isole britanniche all’epoca dei Romani, negli Stati Uniti del Sud, e che le abitudini antropofaghe risalgono addirittura all’epoca degli ominidi di Neanderthal o a prima ancora (vedi Homo antecessor). I ritrovamenti di ossa con segni di cottura e raschiatura, e di feci umane fossili contenenti mioglobina (una proteina che si trova esclusivamente nel cuore e nei muscoli), sembrano confermare l’ipotesi che il cannibalismo sia esistito nel nostro passato in maniera molto più diffusa del previsto.
Un team di esperti capitanati dal professor Michael Alpers della Curtin University of Technology, studiando nel 2003 le malattie da prioni, per capire in particolare perché una buona percentuale di persone in tutto il mondo ne sia immune, è arrivato alla conclusione che si deve ringraziare proprio il cannibalismo. Esaminando un gruppo di donne della tribù Fore della Papua Nuova Guinea, particolarmente resistenti alla patologia da prioni chiamata kuru, si è scoperto che il responsabile della protezione dalla malattia è un particolare gene “duplicato”: le persone che posseggono il doppio gene sono al riparo dal kuru, quelle che hanno un gene singolo sono a rischio. Tutte le femmine Fore dotate di questa specie di “anticorpo” avevano preso parte, dagli anni ’20 agli anni ’50, a banchetti cannibali durante la più disastrosa epidemia di encefalopatie da prioni. Alle donne e ai bambini era consentito di mangiare soltanto il cervello e gli organi interni dei defunti, mentre i maschi si dividevano la carne (non infetta dai prioni). In alcune comunità le donne furono quasi completamente decimate, ma quelle che sopravvissero svilupparono la seconda copia del gene in grado di salvarle.
Il fatto però che questo doppio gene sia piuttosto comune nella popolazione mondiale ha fatto ipotizzare ad Alpers che esso sia un lascito dell’antica diffusione del cannibalismo, o perlomeno dell’endocannibalismo ritualistico, su scala globale: un passato che accomunerebbe gran parte dell’umanità.
Eccovi uno spassoso e trashissimo video ad opera della BBC sul terribile parassita amazzonico candiru (vandellia cirrhosa), un piccolo pesce che normalmente si infila nelle branchie dei pescegatti e lì si installa arpionandosi con una spina al tessuto per succhiarne il sangue.
Come in un film horror, però, talvolta il candiru, attratto dall’urina, può finire per scambiare anche l’uomo per un ospite appetibile, inserendosi ferocemente in quasiasi orifizio…
Una curiosità: il candiru è citato anche da uno dei numi tutelari di Bizzarro Bazar, lo scrittore americano William S. Burroughs, nel suo celebre romanzo Pasto Nudo.