La donna scimmia

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Abbiamo più volte ricordato, su queste pagine, come le esistenze delle cosiddette “meraviglie umane” all’interno dei freakshow fossero più dignitose di quanto ci si potrebbe aspettare e che, anzi, il circo permetteva spesso a uomini e donne dotati di un fisico fuori dall’ordinario di condurre una vita normale, accettati da una comunità, di girare il mondo e di raggiungere un’indipendenza economica che non avrebbero potuto nemmeno sognare al di fuori dei baracconi itineranti. Eppure non tutte le storie dei freaks sono così positive: ce ne sono alcune che spezzano il cuore, come ad esempio quella di Julia Pastrana.

Nel suo saggio La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico (1868), Charles Darwin la descriveva così:

Julia Pastrana, una danzatrice spagnola, era una donna rimarchevole, ma aveva una fitta barba mascolina e una fronte pelosa; […] ma quello che ci interessa è che in entrambe le mascelle, inferiore e superiore, aveva una doppia fila di denti, una dentro all’altra, di cui il Dr. Purland ottenne un calco in gesso. A causa dei denti in sovrannumero, la sua bocca sporgeva in fuori, e la sua faccia assomigliava a quella di un gorilla.

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La Pastrana in realtà non era spagnola, come riteneva Darwin, ma era nata nel 1834 in Messico, nello stato di Sinaloa. Fin da piccola il suo corpo e il suo volto erano completamente ricoperti da un folto pelo bruno. In aggiunta allo sviluppo abnorme di peluria (il termine medico odierno è irsutismo), il naso e le orecchie di Julia erano ingrossati e i suoi denti irregolari, tanto da farla assomigliare a una specie di strana scimmia. Ma la sua intelligenza non era stata scalfita da queste menomazioni: Julia sapeva cantare e danzare.

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Un giorno l’impresario Theodore Lent la scoprì in un remoto villaggio messicano e la acquistò da una donna che con tutta probabilità era sua madre. Sotto la protezione di Lent, Julia raffinò l’arte del canto e del ballo, e imparò a parlare, leggere e scrivere in tre lingue diverse. In numerosi spettacoli circensi in Nord America e in Europa, Theodore la esibì con nomi d’arte quali “la donna barbuta e pelosa”, la “donna-orso”, e “l’anello mancante”.

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La fece esaminare da diversi medici, la cui diagnosi – letta al giorno d’oggi – ci lascia piuttosto interdetti. Secondo il dottor Alexander B. Mott, Julia era sicuramente “il risultato di un accoppiamento fra un uomo e un orango-tango”. Secondo un altro medico, era appartenente a una specie “differente” da quella umana. Certo, vi furono anche medici che riconobbero subito che Julia era semplicemente una “donna indiana messicana deforme”, ma a costoro non venne dato molto credito: per lo show-business, era essenziale mantenere viva la leggenda di una autentica donna-scimmia.

Per Theodore Lent, il manager di Julia Pastrana, gli affari andavano a gonfie vele: gli ingaggi si susseguivano con profitti sempre maggiori. A poco a poco, egli divenne geloso, e sospettoso che la sua miniera d’oro potesse venirgli sottratta. Decise quindi che c’era un solo modo per mantenere la donna-scimmia legata a sé per sempre.

Un bel giorno, si dichiarò a Julia e le chiese di sposarlo. I due convolarono a nozze, e pare che il giorno del matrimonio Julia abbia dichiarato: “Lui mi ama per quello che sono, soltanto per quello che sono”. Forse è ingiusto giudicare questa unione in maniera negativa, senza elementi, a più di un secolo di distanza; probabilmente Lent fu persino un marito premuroso. Ma la piega che presero le cose più tardi sembra supportare l’idea che egli avesse in mente qualcosa di diverso dal puro amore.

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Nel Marzo del 1860, infatti, Julia e Theodore si trovavano a Mosca per un tour. La donna era incinta del loro primo, e unico, figlio. Ricoverata in una clinica,  e pregando che non avesse il suo stesso tipo di problemi genetici, diede alla luce un bambino. Purtroppo, il piccolo mostrava già i segni della malattia della madre, e dopo tre soli giorni morì. Per le complicanze del parto, anche Julia Pastrana lo seguì, due giorni dopo.

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Ma Lent, nonostante la morte della moglie e del figlio neonato, non aveva alcuna intenzione di chiudere baracca: mentre si trovava ancora in Russia, contattò il professor Sokulov all’Università di Mosca e lo assunse affinché imbalsamasse i corpi di Julia Pastrana e del suo bambino.

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Così, esponendo sul palco i corpi mummificati di Julia e del neonato in una teca di vetro, Lent continuò a girare l’Europa con diversi circhi. Più tardi sembra che sia riuscito a scovare una nuova donna-scimmia, a sposare anche lei e ad esibirla con il nome di Zenora Pastrana, arricchendosi notevolmente. Ma anche la sua fortuna stava per declinare, e nel 1884 venne rinchiuso in un manicomio in Russia, completamente pazzo. Vi morirà poco dopo.

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Le mummie di Julia Pastrana e del suo figlioletto passarono di mano in mano, da impresario ad impresario, fino a scomparire misteriosamente all’inizio del ‘900. Nel 1921 vennero riscoperte in Norvegia, ed esibite per circa 50 anni: quando venne proposto un tour americano delle spoglie imbalsamate, l’opinione pubblica insorse e l’indignazione portò addirittura ad alcuni atti di vandalismo, durante i quali la mummia del bambino venne mutilata. I resti rimasero nascosti e in balìa dei topi, finché nel 1979 la mummia di Julia venne trafugata. Riportata all’Istituto Forensico di Oslo, non venne identificata fino al 1990, dopodiché rimase chiusa in una bara nel Dipartimento di Anatomia dell’Università di Oslo fino al 1997.

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A seguito di una complessa battaglia burocratica durata quasi vent’anni, finalmente il 12 febbraio del 2013 i resti di Julia Pastrana sono stati sepolti con rito cattolico in un cimitero a Sinaloa de Leyva, in Messico, vicino a dove la famosa donna-scimmia era nata.

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La storia di Julia Pastrana ha ispirato il capolavoro La donna scimmia (1964) in cui queste vicende, trasportate nella Napoli degli anni ’60, sono lo spunto per denunciare con compiacimento grottesco e spietato le miserie del nostro paese e, come sempre in Marco Ferreri, divengono metafora del difficile rapporto fra i sessi. Nei panni di Julia (Maria, nel film), una coraggiosa e splendida Annie Girardot; Lent (ribattezzato Antonio Focaccia) è invece affidato all’interpretazione magistrale di Ugo Tognazzi, che ritrae il personaggio del marito-manager come il tipico italiano medio, né buono né cattivo, ma la cui ambiguità apre un abisso morale che inghiotte lo spettatore e che rende lo sfruttamento di un altro essere umano un evento banale – e, per questo stesso motivo, ancora più inquietante.

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(Alcune delle immagini nell’articolo sono tratte dal documentario prodotto da HBO Some Call Them Freaks – grazie Silvia!)

Il salto delle cascate

C’è una disperata poesia in quelle persone che compiono imprese eccezionali, ma assolutamente inutili.

Si scalano impervie montagne, pur di superare il limite, per compiere l’impresa eroica, per spostare anche di poco la barra di ciò che si può fare. Si attraversano grandi distanze a nuoto, si contano i minuti di apnea, ci si getta da altezze indicibili… ci si spinge fino agli estremi del corpo e della resistenza. Perché?

Annie Edson Taylor era una donna tutta d’un pezzo. Nata nel 1838, si era barcamenata come poteva fra lezioni di ballo e altri lavoretti, dopo essere rimasta vedova a causa della Guerra Civile. Nel 1901, cercando di assicurarsi una maggiore solidità finanziaria, decise di affrontare l’impresa che nessuno aveva osato tentare.

Le cascate del Niagara, a cavallo fra la provincia canadese dell’Ontario e lo stato di New York, sono fra i salti d’acqua più belli e celebri al mondo. Relativamente basse (52 metri di dislivello), sono però imponenti per l’eccezionale portata d’acqua del fiume e per la violenza delle loro rapide. Annie Taylor decise che le avrebbe superate, infilandosi in un barile.

Si fece costruire un barile apposito, fatto di quercia con cerchi di ferro, e imbottito con un materasso. Gettò il barile nelle cascate, con il suo gatto domestico all’interno, per testare la resistenza all’urto. Il gatto ne uscì illeso. Così, il 24 ottobre 1901, il giorno del suo compleanno, Annie entrò nel barile e si lasciò trascinare dalla corrente verso il pauroso salto. Il giorno del suo compleanno. Il giorno in cui compiva 63 anni.

Il barile cadde per 52 metri prima di sprofondare nell’acqua tumultuosa sotto la cascata. 20 minuti dopo, fu recuperato e aperto da alcuni astanti: Annie era viva, e praticamente integra, se si esclude un grosso taglio alla testa. “Anche con il mio ultimo respiro, consiglierei alla gente di non provare l’impresa… preferirei piazzarmi davanti alla bocca di un cannone, sapendo che mi ridurrà a pezzetti, piuttosto che fare un altro viaggio sulle cascate”, disse in seguito.

Bobby Leach, il secondo a provare l’insano gesto, passò sei mesi all’ospedale a riprendersi dal trauma. Oltre a varie ferite, riportò la frattura di entrambi i menischi e della mascella. D’altronde, perfino il Capitano Matthew Webb, il primo uomo ad attraversare la Manica a nuoto, era annegato nelle acque del Niagara nel 1883, mentre tentava di sconfiggere le correnti con la forza delle sue braccia.

Charles Blondin, un famoso acrobata e funambolo francese, camminò sopra alle cascate, su un filo teso fra le due rive, per diverse volte. Per la prima volta nel 1859, e in seguito proponendo varianti dell’impresa: bendato, rinchiuso in un sacco, spingendo una carriola, sui trampoli, portando in spalla una seconda persona (il suo manager), sulla schiena, e fermandosi a metà strada per cuocere e mangiare un’omelette.

Nel corso dei decenni, diversi stuntman hanno provato l’incredibile salto. Alcuni hanni speso svariate decine di migliaia di dollari per costruire una “botte” in grado di portarli sani e salvi al di là delle cascate. Oltre a quelli già citati, si contano almeno altri 14 temerari che sono volati oltre le cateratte del Niagara. Alcuni sono sopravvissuti, altri no.

Nel cimitero di Oakwood, Niagara Falls, New York, c’è una sezione speciale in cui vengono inumati i corpi di coloro che hanno saltato le cascate. I sopravvissuti, quelli che ce l’hanno fatta, riposano al fianco di coloro che nel Niagara hanno trovato la morte.

La traversata delle cascate è divenuta parte del folklore e delle leggende statunitensi. I weirdissimi Primus hanno dedicato una canzone (“Over The Falls”) a questa pratica estrema, ed ecco il video che ripercorre la storia dei salti delle cascate del Niagara.

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Cosa resta, di queste futili imprese? La sensazione di trascendere i limiti, ma senza un motivo plausibile. L’eroismo senza fini e senza scopo, per se stesso, puro e semplice.

Tutto quello che l’uomo fa, nel bene o nel male, lo fa per divenire più di quello che è. Può sembrare insulso, inutile, risibile. Ma forse la sensazione di essere incompleti, di essere migliorabili, è ciò che rende l’essere umano così patetico, e insieme così infinitamente bello.