The Erotic Tombs of Madagascar

On the Western coast of Madagascar live the Sakalava people, a rather diverse ethnic group; their population is in fact composed of the descendants of numerous peoples that formed the Menabe Kingdom. This empire reached its peak in the Eighteenth Century, thanks to an intense slave trade with the Arabs and European colonists.

One of the most peculiar aspects of Sakalava culture is undoubtedly represented by the funerary sculptures which adorn burial sites. Placed at the four corners of a grave, these carved wooden posts are often composed by a male and a female figure.
But these effigies have fascinated the Westerners since the 1800s, and for a very specific reason: their uninhibited eroticism.

In the eyes of European colonists, the openly exhibited penises, and the female genitalia which are in some cases stretched open by the woman’s hands, must have already been an obscene sight; but the funerary statues of the Sakalava even graphically represent sexual intercourse.

These sculptures are quite unique even within the context of the notoriously heterogeneous funerary art of Madagascar. What was their meaning?

We could instinctively interpret them in the light of the promiscuity between Eros and Thanatos, thus falling into the trap of a wrongful cultural projection: as Giuseppe Ferrauto cautioned, the meaning of these works “rather than being a message of sinful «lust», is nothing more than a message of fertility” (in Arcana, vol. II, 1970).


A similar opinion is expressed by Jacques Lombard, who extensively ecplained the symbolic value of the Sakalava funerary eroticism:

We could say that two apparently opposite things are given a huge value, in much the same manner, among the Sakalava as well as among all Madagascar ethnic groups. The dead, the ancestors, on one side, and the offspring, the lineage on the other. […] A fully erect – or «open» – sexual organ, far from being vulgar, is on the contrary a form of prayer, the most evident display of religious fervor. In the same way the funerals, which once could go on for days and days, are the occasion for particularly explicit chants where once again love, birth and life are celebrated in the most graphic terms, through the most risqué expressions. In this occasion, women notably engage in verbal manifestations, but also gestural acts, evoking and mimicking sex right beside the grave.
[…] The extended family, the lineage, is the point of contact between the living and the dead but also with all those who will come, and the circle is closed thanks to the meeting with all the ancestors, up to the highest one, and therefore with God and all his children up to the farthest in time, at the heart of the distant future. To honor one’s ancestors, and to generate an offspring, is to claim one’s place in the eternity of the world.

Jacques Lombard, L’art et les ancêtres:
le dialogue avec les morts: l’art sakalava
,
in Madagascar: Arts De La Vie Et De La Survie
(Cahiers de l’ADEIAO n.8, 1989)

One last thing worth noting is the fact that the Sakalava exponentially increased the production of this kind of funerary artifacts at the beginning of the Twentieth Century.
Why?
For a simple reason: in order to satisfy the naughty curiosity of Western tourists.

You can find a comprehensive account of the Sakalava culture on this page.

I soldi dei morti

Per i cinesi, ogni uomo è composto da diversi spiriti: fra tutti, i due più importanti sono quello materiale, chiamato po, con sede nel fegato e nutrito dal cibo, che al momento della morte rimane nella tomba; e l’anima spirituale, chiamata hun, con sede nei polmoni e nutrita dal respiro, che al trapasso si stacca invece dal corpo e va incontro al suo destino.
Un destino che è ovviamente conseguenza delle azioni terrene, della virtù e delle qualità del morto. Così, nell’oltretomba, esiste una gamma di possibili mutamenti che attendono lo hun del defunto: il più difficile e prestigioso è ovviamente divenire uno xiandao, un Immortale taoista – oppure raggiungere Jing-tu, la Terra Pura, se si è buddhisti. Ma, qualora in vita le azioni del morto non siano state per nulla virtuose, l’anima può finire per incrementare le fila degli egui, “spiriti affamati” che arrecano danni e problemi ai viventi a causa della fame e della sete insaziabili che li divorano.
Tutti coloro che stanno nel mezzo – né spiriti eccelsi, né peccatori senza speranza – vengono destinati alla “Via dell’Uomo” (rendao), vale a dire a reincarnarsi fino a che non saranno finalmente degni di lasciare questo mondo. Queste anime, però, prima di potersi reincarnare dovranno passare per una sorta di regno di mezzo chiamato diyu, assimilabile al nostro purgatorio.

Il diyu non è altro che una terribile “prigione sotterranea” che in qualche modo riflette specularmente la burocrazia del nostro mondo. Qui le anime vengono imputate in un vero e proprio processo in dieci differenti stadi, i Dieci Tribunali dell’Inferno: alla fine del lungo dibattimento giudiziario, il defunto viene assegnato ad un supplizio specifico a seconda delle sue colpe e mancanze. Si tratta di pene e torture dantesche sia nella crudeltà che nel contrappasso, che l’anima patisce provando dolori atroci, proprio come se avesse ancora un corpo. Fra lame che mozzano la lingua ai bugiardi, seghe che tagliano in due gli uomini d’affari scorretti, stupratori e ladri gettati in calderoni d’olio bollente o cotti al vapore, gente macinata e ridotta in polvere con mole di pietra, il diyu è una fiera degli orrori senza fine. Le anime, una volta subìto il supplizio, vengono ricomposte e la pena ricomincia.

Una volta scontato il periodo di “carcere duro” previsto dai giudici, all’anima è somministrata una pozione che le fa dimenticare quanto ha visto, e infine viene rispedita sulla terra… spesso con un bel calcio nel sedere (il che spiega le voglie violacee all’altezza delle natiche che a volte mostrano i neonati).

Dicevamo però che il diyu è una sorta di versione ribaltata del nostro mondo. Non crediate quindi che le delibere del Tribunale dell’Inferno siano infallibili: proprio come accade nei Palazzi di Giustizia terreni, nell’oltretomba cinese possono verificarsi degli errori giudiziari; c’è una mole impressionante di pratiche burocratiche da sbrigare, e anche fra i demoni esistono corruzione e nepotismo.
Ecco perché i cinesi hanno sviluppato uno dei rituali sacrificali più particolari e bizzarri: quello delle qian zhi, le “banconote di carta”.

Si tratta di imitazioni di banconote su cui è impresso il volto del sovrano dell’Aldilà, simili ai soldi finti dei giochi in scatola, stampate su carta di riso ed emesse dalla Banca degli Inferi, Yantong Yinhang. I tagli variano (anche a seconda dell’inflazione!) da diecimila a centinaia di miliardi di yuan – anche se ovviamente il prezzo d’acquisto è infinitamente inferiore a quello nominale. Si possono comprare in svariati empori e negozi.

400685506_fe1e803396_z

Le banconote vengono bruciate in falò rituali accesi vicino alle tombe, così che il fuoco le “trasporti” oltre il confine fra vivi e morti, recapitandole al caro estinto. L’anima del defunto potrà quindi usare i soldi inviatigli dalla famiglia per acquistare beni di consumo, per “comprare” i favori delle guardie, oppure per guadagnarsi rispetto e status sociale, o magari addirittura per corrompere un giudice e ottenere così uno sconto di pena.

Vi sono regole strette e tabù collegati al modo in cui le banconote vanno bruciate, così come ad esempio regalarne una ad una persona ancora in vita è altamente offensivo: insomma, i soldi dei morti sono un affare serio per molti cinesi.
Il defunto è in definitiva considerato come un parente vivo e vegeto, che si trova in un luogo lontano e sta attraversando un periodo di difficoltà. Quale famiglia amorevole non gli manderebbe un po’ di soldi?

Se questo approccio, tipico della pratica e concreta mentalità cinese, ci sembra strano ad un primo sguardo, si tratta in realtà di una pratica non molto distante dal nostro atteggiamento verso i cari estinti: compriamo una bella lapide, raccomandiamo a Dio la loro anima, in modo da ottenere la loro benevolenza; in cambio, li preghiamo per avere intercessioni, protezione e favori.
Il culto degli antenati è pressoché universale, e la versione cinese delle qian zhi non fa che rendere evidente il meccanismo che lo sottende.
L’appartenenza alla società è di norma sancita dallo scambio (economico, di lavoro, di sostegno e di aiuto) fra i membri della società stessa: la barriera della morte, che in teoria dovrebbe interrompere questo commercio, non è affatto insormontabile, perché in tutte le culture lo scambio fra vivi e morti non viene mai meno, diventa semplicemente simbolico.

La peculiarità non sta quindi nel tentativo di regalare qualcosa ai morti, poiché è proprio questo il nocciolo del culto dei defunti, in ogni epoca e latitudine: vogliamo continuare a proteggere i nostri cari, e a dimostrare attraverso il dono sacrificale quanto forte sia ancora l’affetto che ci lega a loro. Il vero aspetto singolare di questa tradizione sta nella somiglianza quasi comica dell’Aldilà cinese con il nostro mondo.


Con il passare del tempo e con l’evolversi della tecnologia, ormai anche all’Inferno le semplici mazzette non bastano più. Forse i diavoli sono diventati più esigenti, o forse nell’Aldilà – dove comunque è indispensabile darsi un tono – le stesse anime dei defunti si fanno influenzare dalle mode consumistiche; fatto sta che nei negozi, accanto alle banconote, sono oggi esposte delle raffigurazioni cartacee di bottiglie di champagne (conquistare la simpatia del carceriere con un goccetto funziona sempre), prodotti di bellezza, completi in gessato, ciabatte contraffatte di Louis Vuitton con cui pavoneggiarsi, carte di credito, addirittura ville in miniatura, macchine di lusso, televisori al plasma, laptop, cellulari, iPhone e iPad taroccati con tanto di custodia. Tutto in carta, pronto da bruciare, in vendita per pochi euro.

Un oltretomba fin troppo familiare, che rispecchia vizi e problemi per i quali nemmeno la morte sembra essere un rimedio sicuro: non c’è da stupirsi quindi che, fra i vari gadget che si possono inviare nell’oltretomba, vi siano anche le repliche delle scatole di Viagra.

La maggior parte delle informazioni sono tratte dall’illuminante e consigliatissimo Tre uomini fanno una tigre. Viaggio nella cultura e nella lingua cinese (2014) di Nazzarena Fazzari.

Culti del cargo

I culti del cargo sono movimenti religiosi sviluppatisi in Melanesia e osservati dalla comunità scientifica fin dalla fine del XIX secolo. I “cargo” sono i carichi di beni spediti per via aerea: i membri di un culto del cargo credono che questi beni occidentali provenienti dall’industria siano stati creati in realtà dagli spiriti degli antenati e fossero destinati alle popolazioni melanesiane. I bianchi, al contrario, avrebbero slealmente preso controllo di questi oggetti mediante precisi rituali magici. I culti del cargo quindi sono indirizzati a purificare le comunità indigene, secondo modalità bizzarre e alquanto originali.

Il processo logico alla base di un culto del cargo è il seguente: abbiamo visto i bianchi fare certe cose, e dal cielo sono arrivati i cargo. Gli spiriti degli antenati devono essere stati ingannati dagli uomini bianchi, perché quelle provviste scese dal cielo erano sicuramente destinate a noi. Noi non sappiamo quale segreta magia abbiano usato i bianchi per far arrivare i cargo, ma se facciamo esattamente quello che hanno fatto loro, riguadagneremo il favore degli spiriti, nuovi cargo arriveranno, e questa volta saranno nostri.

Così i membri creano finte piste di atterraggio, assemblano false radio fatte di noci di cocco e paglia, nella speranza che siano quelli i “rituali” giusti per attrarre aerei da trasporto pieni di cargo. I credenti inoltre inscenano finte trivellazioni e marce, dotandosi di martelli pneumatici e fucili costruiti con del legname, usando finte insegne militari e dipingendosi il corpo con la scritta “USA”, per camuffarsi da soldati. Eseguono ritualmente il saluto militare, innalzano bandiere americane, marciano come hanno visto fare ai bianchi.

Sull’isola di Tanna i credenti adorano la mitica figura di John Frum, un soldato dell’esercito americano della Seconda Guerra Mondiale. Questo soldato aveva promesso case, vestiti, trasporti e cibo agli abitanti di Tanna. Ancora oggi il culto è vivo: John Frum porterà ricchezza e serenità a chiunque lo segua. I membri di questo culto del cargo sono convinti che John Frum ritornerà tra di loro il 15 febbraio – ma di quale anno, non è dato sapere. Così annualmente in quella data viene osservato il John Frum Day, in cui si svolgono diversi rituali e parate.

Va notato che nessun soldato con un nome simile risulta essere mai stato iscritto nei ranghi dell’esercito americano. E’ possibile che “John Frum” sia una corruzione dell’espressione “John from America”. Alla fine degli anni ’50, il leader del movimento religioso istituì una sorta di armata (non-violenta e ritualistica) chiamata T-A-USA (Tanna Army USA) con il solo scopo di inscenare finte parate militari. Ogni anno il 15 febbraio l’armata USA di Tanna esegue queste marce, con i corpi dipinti in colori rituali, e indossando delle T-shirt bianche con l’acronimo del plotone: tutto questo nella speranza che il benevolo John Frum li riconosca come suoi protetti, e scenda dal cielo con il suo aeroplano carico di inestimabili doni.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=YfSC6RDyVA0]