Afterlife

What will we feel in the moment of death?
What will come after the initial, inevitable fear?
Shall we sense a strange familiarity with the extreme, simultaneous relaxation of every muscle?
Will the ultimate abandonment remind us of the ancient, primitive annihilation we experience during an orgasm?

Following Epicurus’ famous reasoning (which is, by the way, philosophically and ethically debatable), we should not even worry about such things because when death is present, we are not, and viceversa.
Unknowability of death: as is often said, “no one ever came back” to tell us what lies on the other side. Despite this idea, religious traditions have often described in detail the various phases the soul is bound to go through, once it has stepped over the invisible threshold.

Through the centuries, this has led to the writing of actual handbooks explaining the best way to day.
Western Ars moriendi focused on the moments right before death, while in the East the stress was more on what came after it. But eventually most spiritual philosophies share the fear that the passage might entail some concrete dangers for the spirit of the dying person: demons and visions will try to divert the soul’s attention from the correct path.
In death, one can get lost.

One of the intuitions I find most interesting can be found in Part II of the Bardo Thodol:

O nobly-born, when thy body and mind were separating, thou must have experienced a glimpse of the Pure Truth, subtle, sparkling, bright, dazzling, glorious, and radiantly awesome, in appearance like a mirage moving across a landscape in spring-time in one continuous stream of vibrations. Be not
daunted thereby, nor terrified, nor awed. That is the radiance of thine own true nature. Recognize it.
From the midst of that radiance, the natural sound of Reality, reverberating like a thousand thunders simultaneously sounding, will come. That is the natural sound of thine own real self. Be not daunted thereby, nor terrified, nor awed. […] Since thou hast not a material body of flesh and blood, whatever may come — sounds, lights, or rays — are, all three, unable to harm thee: thou art incapable of dying. It is quite sufficient for thee to know that these apparitions are thine own thought-forms.

It seems to me that this idea, although described in the book in a figurative way, might in a sense resist even to a skeptical, seular gaze. If stripped of its buddhist symbolic-shamanic apparatus, it looks almost like an “objective” observation: death is essentially that natural state from which we took shape and to which we will return. Whatever we shall experience after death — if we are going to experience anything, be it little or much — is ultimately all there is to understand. In poetic terms, it is our own true face, the bottom of things, our intimate reality.

In 1978 Indian animator Ishu Patel, fascinated by these questions, decided to put into images his personal view of what lies beyond. His award-winning short movie Afterlife still offers one of the most suggestive allegorical representations of death as a voyage: a psychedelic trip, first and foremost, but also a moment of essential clarity. The consciousness, upon leaving the body, is confronted with archetypical, shape-shifting figures, and enters a non-place of the mind where nothing is certain and yet everything speaks an instantly recognizable language.

Patel’s artistic and fantastic representation depicts death as a moment when one’s whole life is reviewed, when we will be given a glimpse of the mystery of existence. A beautiful idea, albeit a bit too comforting.
Patel declared to have taken inspiration from Eastern mythologies and from near-death experience accounts (NDE), and this latter detail poses a further question: even supposing that in the moment of death we could witness similar visions, wouldn’t they actually be a mere illusion?

Of course, science tells us that NDE are perfectly coherent with the degenerative neurological processes the brain undergoes when it’s dying. Just like we are now aware of the psychophysical causes of mystic ecstasy, of auto-hypnotic states induced by repeating mantras or prayers, of visions aroused by prolonged fasting or by ingestion of psychoactive substances which are used in many shamanic rituals, etc.
But the physiological explanation of these alteration in consciousness does not undermine their symbolic force.
The sublime beauty of hallucinations lies in the fact that it does not really matter if they’re true or not; what is relevant is the meaning we bestow upon them.

Maybe, after all, only one thing can be really asserted: death still remains a white canvas. It’s up to us what we project on its blank screen.
Afterlife does just that, with the enigmatic lightness of a dance; it is a touching, awe-inspiring ride to the center of all things.

Afterlife, Ishu Patel, National Film Board of Canada

Infinity Burial Project

Ognuno di noi è intimamente connesso con l’ambiente, e sappiamo bene che le nostre azioni influenzano l’ecosistema in cui viviamo; non sempre riflettiamo però sul fatto che i nostri corpi avranno un impatto sull’ambiente anche dopo che saremo morti. Partendo da questa idea, l’artista statunitense Jae Rhim Lee ha fondato l’Infinity Burial Project (Progetto di sepoltura infinita).

A causa dei conservanti presenti nel cibo che mangiamo, dei metalli nelle otturazioni dentali, dei prodotti cosmetici con cui si preparano le salme e dei metodi di imbalsamazione (che in America includono preservanti altamente tossici come la formaldeide), un cadavere è in sostanza una piccola bomba chimica: che venga seppellito, o cremato, l’effetto è inevitabilmente quello di liberare nell’ambiente un alto numero di tossine pericolose. Jae Rhim Lee ha deciso di proporre un’alternativa sostenibile ed ecologica a questo stato di cose.

Come prima cosa, ha cominciato a coltivare dei funghi. I funghi saprofiti infatti sono dei filtranti naturali per moltissime delle scorie tossiche presenti nei nostri corpi, sono in grado di decomporle, “digerirle” e renderle innocue. Jae in seguito ha iniziato a raccogliere le cellule di scarto del suo stesso corpo – capelli, pelle secca, unghie – e ad utilizzarle come alimento per i suoi funghetti. Ha potuto così selezionare quelli che rispondevano meglio a questa particolare e ferrea dieta, e scartare quelli dal palato troppo “raffinato”. Oggi Jae possiede un esercito di funghi pronti a divorarla in qualsiasi momento.

Va bene, direte voi, ma anche se ognuno di noi si coltivasse i propri funghi “personalizzati”, come si farebbe poi a utilizzarli? Ecco che entra in scena la Mushroom Death Suit, la tuta progettata da Jae Rhim Lee per decomporre un cadavere con i funghi. Le fantasie che arabescano e percorrono la tuta, e che ricordano proprio il micelio, sono create con uno speciale filo imbevuto di spore fungine; anche il fluido di imbalsamazione, e il make-up del defunto, contengono spore.

Se lasciare questo mondo vestiti da ninja non è nel vostro stile, potete sempre optare per qualcosa di più sobrio e discreto: il Decompiculture Kit. Costituito da un gel nutritivo trasparente che si adatta come una seconda pelle al corpo, contiene delle capsule riempite di spore che permetteranno la crescita uniforme dei funghi.

Anche se l’Infinity Burial Project può sembrare eccentrico, ha fondamentalmente due meriti: in primo luogo Jae Rhim Lee intende diffondere una maggiore consapevolezza e accettazione della morte e della decomposizione come fatti naturali, e combattere il tabù nei confronti di un processo che è parte fondamentale del ciclo della vita. Il secondo aspetto che il progetto sottolinea è l’importanza di avere la possibilità di scegliere nuove opzioni, di riappropriarci insomma del destino del nostro corpo: dobbiamo essere liberi di decidere che fine faranno le nostre spoglie.

A riprova dell’interesse suscitato da Jae Rhim Lee, ci sono già alcuni volontari pronti a donare il loro corpo all’Infinity Burial Project per la sperimentazione; sapere che il proprio cadavere darà vita a una moltitudine di organismi a loro volta commestibili ha evidentemente le sue attrattive, siano esse l’amore per l’ecologia, un ideale romantico di fusione con la natura, o anche solo la prospettiva di schifare i parenti.

Ecco il sito ufficiale dell’Infinity Burial Project.

José Guadalupe Posada

José Posada è uno dei più celebri fra gli incisori messicani, e certamente precursore dei movimenti artistici e grafici nati dopo la rivoluzione del 1910. Nato ad Aguascalientes nel 1852, divenne presto maestro incisore e litografo, dapprima nella sua città natale, poi a Léon, e infine a Città del Messico.

Le sue prime opere sono praticamente impossibili da trovare, poiché vennero stampate sulla povera carta dei giornaletti sensazionalistici dell’epoca; le uniche copie rimanenti sono di proprietà di collezionisti privati, o esposte nei maggiori musei nazionali del Messico.

José Posada è celebre principalmente per le sue calaveras, icone prese a “prestito” dall’immaginario religioso e folkloristico messicano. “Reclutando” questi allegri e vitali scheletri per i suoi intenti satirici, Posada crea un originale affresco sociale, alla maniera dei famosi Capricci di Goya. Questa ironica danza macabra che non risparmia niente e nessuno è stata presa come vero e proprio manifesto da molti degli artisti messicani del ‘900.

L’innovazione posadiana è più complessa di quanto potrebbe sembrare a una prima occhiata. Da una parte, opera un connubio fra i teschi e gli scheletri che già erano presenti nell’iconografia precolombiana, e le rappresentazioni occidentali della morte di matrice cristiana (memento mori, danza macabra, ars moriendi, ecc.). Dall’altra, utilizza questi elementi per prendersi gioco, in maniera grottesca, dei valori borghesi, del progresso, delle differenze di classe. E, infine, pare ricordare comunque che, ricchi o poveri, potenti o sfruttati, non siamo nient’altro che ossa che camminano.

L’opera più famosa di José Posada è senza dubbio la Calavera Catrina. Questa nobildonna dall’imponente cappello all’ultima moda (ma ovviamente destinata, come tutti, a ritrovarsi scheletro) è divenuta nel tempo una delle più riconoscibili figure dell’immaginario messicano. Nel Giorno dei Morti vengono costruiti altari e dolci a forma di Calavera Catrina, e indossati costumi che ne ricordano le fattezze.

Posada, oltre che incisore, era anche vignettista; ancora oggi, il primo premio dell’Encuentro Internacional de Caricatura e Historieta (Incontro Internazionale di Cartoon e Fumetti) è chiamato “La Catrina”.