Art & Wonder: L’Arca degli Esposti

On these pages I have always given ample space to the visual arts, and even those who seldom check out my blog know quite well what my tastes are in the field: I prefer a type of art (preferably figurative, but not only) that is somehow cruel towards the observer.
I’m not talking about the fake and superficial provocations of shock art; if you’re looking to get traumatized, there’s plenty of websites offering far more extreme images than the ones you get to see in a gallery. I’m thinking of that need to be shaken and intimately touched by an artwork, of some kind of Artaudian cruelty: but to reach that kind of emotional charge, the artist must have a very refined preparation and sensitivity.

If in the past years I presented here, from time to time, some artists that really had me impressed, now there is a big news.
From this year Bizzarro Bazar will actually take an active part in promoting “strange, macabre and wonderful” art!

Together with curator Eliana Urbano Raimondi, I founded L’Arca degli Esposti, an artistic and cultural association based in Palermo.
L’Arca degli Esposti (which means “The Ark of the Exposed”) has the mission to give visibility to those artists who are eccentric and “heretical” with respect to the art system.

I quote from the presentation on our website:

The “exposed” or “exhibited”, therefore, are the artists promoted by the association by virtue of their stylistic independence and the courageous and unique iconography they put forth. Exposed, as selected for the exhibitions organized by the association; exposed as the illegitimate infants who once were abandoned on foundling wheels; exposed because they have the audacity to express a heterodox position with respect to market trends.

With this almost adoptive intent, L’Arca degli Esposti declares its vocation to the elitist custody of the “mirabilia”: the same one that gave life to ancient wunderkammern — symbolized in our logo by the nautilus, a sea creature whose shell is based on the infinite wheel spiral of golden growth, traveling through the waters like a vessel to new worlds.

L’Arca degli Esposti, as I said, is based in Palermo but operates throughout the national territory.
Our first fall season starts on October 12th with Il sogno di Circe (“Circe’s dream”), a collective exhibition that will see a selection of works by Ettore Aldo Del Vigo, Adriano Fida and Fabio Timpanaro.

What these three extraordinary contemporary artists have in common is a dreamlike transfiguration of the human figure; for this reason we chose to summon as our tutelary deity Goddess Circe and her hypnagogic visions, which faded and transcended the nature of the body.
Here are some examples of their production:

On November 14 we will move to Rome inside the sumptuous wunderkammer of my friend Giano Del Bufalo, with whom I have organized several events in the past.


Here for two weeks you will be able to see REQVIEM, a collective exhibition focused on death and the corruption of the body.

In REQVIEM the pictorial, sculptural and photographic works of ten international artists will enteratain a dialogue with the oddities and mirabilia present in the gallery.
The selection of artists is high-profile: Agostino Arrivabene, Philippe Berson, Nicola Bertellotti, Pablo Mesa Capella, Tiziana Cera Rosco, Pierluca Cetera, Gaetano Costa, Olivier De Sagazan, Sicioldr and Nicola Vinci.

Together with Eliana Urbano Raimondi — to whose brilliant work goes most of the credit for this dream come true — we are already preparing many other exhibitions, conferences and seminars focused on weird, dark and alternative culture; we are also trying to bring some really great artists to Italy for the first time, and I must say that I’m beyond excited… but I shall keep you posted.

For the moment I invite you to follow the initiatives of the Arca on the association’s website, on our Facebook page and Instagram; and, if you happen to be around, I look forward to see you on these first two, fantastic dates!

Verità e menzogne

Talvolta, la menzogna dice meglio della verità ciò che avviene nell’anima.
(Maksim Gorkij)

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Nello straordinario film-saggio F for Fake (1974), ad un certo punto Orson Welles annuncia che tutto quello che si vedrà durante i seguenti sessanta minuti sarà assolutamente vero. Mentre il film prosegue, raccontando varie vicende di falsari di opere d’arte, lo spettatore si dimentica di questo proclama, finché un sornione Welles non ricompare ricordandoci di aver promesso di dire la verità soltanto per un’ora, e che quell’ora è scaduta da un pezzo. “Per gli ultimi 17 minuti, ho mentito spudoratamente“.

Realtà e finzione, vero e falso.
Il dualismo fra questi opposti, come tutti i dualismi, viene da lontano. Ed è soggetto al principio di non-contraddizione della logica aristotelica, che afferma che una cosa non possa essere contemporaneamente A e non-A. Vale a dire, è impossibile che qualcosa sia vera e falsa allo stesso tempo.
Riconoscere le menzogne dalla verità ci sembra una qualità fondamentale. Eppure talvolta può accadere che le acque si confondano, e la certezza dell’assioma “se non è vero, allora è falso” venga messa in discussione. Addentriamoci nei meandri di questi territori di confine, cominciando da una prima domanda: è sempre possibile tracciare una linea sicura e precisa che separi il falso dal vero?

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Tramonto a Montmajour, uno dei più famosi falsi Van Gogh, è in realtà un vero Van Gogh. Il dipinto, acquistato dall’industriale norvegese Christian Mustad nel 1908, era stato esposto nella casa dell’imprenditore finché un ambasciatore francese non l’aveva “smascherato” come falso. Mustad, preso dalla vergogna d’essere stato ingannato, lo nascose in soffitta e così per quasi un secolo il dipinto passò di solaio in solaio. Sottoposto alla commissione del Van Gogh Museum negli anni ’90, il dipinto venne giudicato falso; ma dopo una seconda investigazione durata ben due anni, il 9 settembre 2013 gli esaminatori annunciarono che si trattava proprio di un autentico Van Gogh.

Questa non è certo l’unica opera di valore riconosciuta solo tardivamente; gli esempi sono innumerevoli, dai mobili del XVI secolo scambiati per falsi ottocenteschi alle imitazioni pittoriche che si scoprono essere invece originali. Nel mondo dell’arte la questione dell’attribuzione è complessa, spinosa e delicata, e ci interroga sulla difficoltà non soltanto di smascherare il falso, ma perfino di comprendere cosa sia autentico. Quanti veri capolavori sono ritenuti di scarso valore o bollati come plagi, e magari giacciono abbandonati in qualche cantina? E quanti dei dipinti nei musei d’arte di tutto il mondo – sì, proprio quelli che avete ammirato anche voi in qualsiasi mostra – sono in realtà dei falsi?
Secondo gli esperti, nel vasto mercato dell’arte almeno un’opera su due sarebbe falsa; nemmeno i musei si salvano, perché circa il 20% dei quadri delle maggiori collezioni museali nei prossimi 100 anni saranno probabilmente riattribuiti ad altri autori. In molti casi si determinerà con maggiore certezza ad esempio che il dipinto è stato eseguito da assistenti o allievi del Maestro in questione, oppure che si tratta di veri e propri quadri contraffatti a fini di truffa, ma in altri casi si scoprirà magari il contrario – come è accaduto alla National Gallery di Washington quando un quadro del valore di 200.000 sterline attribuito a Francesco Granacci è stato riconosciuto come possibile opera di Michelangelo: se fosse vero, la quotazione schizzerebbe di colpo ai 150 milioni di sterline.

Ed eccoci alla nostra seconda domanda. È evidente quanto, per le istituzioni che acquistano e gestiscono simili tesori, la distinzione fra autentico e falso sia di prioritaria importanza. Ma per il pubblico? Emozionarsi di fronte ad un finto Tiziano è un’esperienza meno valida che farlo di fronte a un’opera autentica?

Non lo pensano i curatori del Fälschermuseum di Vienna, che propone soltanto dipinti fasulli: vi si possono ammirare, fra gli altri, falsi Klimt, Van Gogh, Rembrandt, Matisse, Chagall e Monet. Questo Museo dei Falsi, unico nel suo genere, ospita la sua collezione “criminale” all’interno di un approfondito percorso  dedicato alla storia del plagio, e relative curiosità – dal falsario che riuscì a vendere un falso Vermeer a Hermann Göring durante la Seconda Guerra Mondiale, a quello che inserì nei suoi quadri delle “bombe a orologeria” e anacronismi, fino ai sorprendenti “finti falsi dipinti”.

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In altri casi, il gioco è più scoperto ma non meno intrigante.
A Istanbul, nel quartiere di Cukurcuma, si trova una palazzina rossa. Alla fine degli anni ’70 qui si è consumata l’ossessiva storia d’amore fra il ricco trentenne Kemal e la bella ma povera Füsun. Per otto anni, dal 1976 al 1984, Kemal ha raccolto ogni genere di oggetti legati all’amata, dei memento che gli potessero ricordare il loro impossibile sentimento: fermacapelli, fazzoletti, ritagli di giornale, spille, fino a catalogare minuziosamente tutti i 4.213 mozziconi di sigaretta fumati dalla ragazza. Questa collezione costituisce oggi il Museo dell’Innocenza, ospitato nella medesima palazzina, un commovente e perenne tributo all’agonia di un amore.
Eppure Kemal e Füsun non sono mai esistiti.

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Essi sono i personaggi di fantasia creati da Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura nel 2006, uno dei più noti scrittori turchi, per il suo romanzo Il Museo dell’Innocenza (2008). Aperto nel 2012, il Museo è la versione “materiale” del libro, un’imponente raccolta di tutti gli oggetti descritti sulla pagina: ciascuna delle 83 vetrine rimanda ad un capitolo del romanzo. Dice l’autore: “la storia è pura invenzione, così come il museo. E neppure le sigarette sono del tutto autentiche. Se lo fossero, il tabacco si deteriorerebbe in sei mesi. Con un sostanza chimica ho riempito le cartine con del tabacco turco e, una volta fumate elettronicamente, gli ho dato varie forme che potessero rendere la psicologia di una ventenne immersa nell’infelicità di una storia d’amore travolgente“. Il Museo, che in un dettagliato gioco di rimandi con il libro svela la sua natura finzionale, non è per questo meno coinvolgente e riesce – in maniera forse perfino più intuitiva e toccante di quanto potrebbe fare una mostra storica – a raccontare la vita di ogni giorno della Istanbul di quegli anni (per un approfondimento sui risvolti concettuali, consigliamo questo articolo di Mariano Tomatis).

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Ancora più estremo è l’esempio del Museum Of Jurassic Technology di Los Angeles (di cui abbiamo già parlato in questo post): un museo scientifico in cui è impossibile distinguere la finzione dalla realtà, e in cui notizie assolutamente vere vengono presentate fianco a fianco con esposizioni fantasiose, ma comunque plausibili. Dei pannelli illustrano astruse e complicatissime teorie fisiche di cui nessuno ha mai sentito parlare; un macchinario impossibile ed esoterico è semplicemente etichettato come “Macchina della verità”, ma un secondo cartello avverte che è fuori servizio; alcune teche contengono delle microsculture eseguite su chicchi di riso: eppure quando avviciniamo gli occhi alla lente d’ingrandimento per ammirare, per esempio, il volto di Cristo scolpito nel chicco, l’immagine è stranamente confusa e non capiamo davvero cosa stiamo osservando, e così via… La vertigine è inevitabile, e il senso di spaesamento diviene poco a poco una vera e propria esperienza della meraviglia e del mistero.

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Abbiamo aperto questa breve ricognizione del confine fra verità e menzogne con Orson Welles, e non a caso.
Il cinema infatti esiste grazie alla finzione, ed ha forse più punti in comune con l’illusionismo che con il teatro. E, anche in campo cinematografico, le cose si fanno davvero interessanti quando il pubblico non è a conoscenza del trucco.

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Prendiamo ad esempio i film documentari di Werner Herzog: il grande regista, famoso per la temerarietà e per il talento visionario, è noto anche per i pochi scrupoli con cui inserisce delle sequenze di fiction all’interno di reportage peraltro scrupolosi. In Rintocchi dal profondo (1993), incentrato sulla spiritualità in Siberia, vediamo ad un certo punto degli uomini che strisciano sulla superficie ghiacciata di un lago, nella speranza di scorgere dei bagliori subacquei della mitica Città Perduta di Kitezh, che secondo la leggenda si è inabissata proprio in quel lago.

Ho sentito parlare di questo mito quando ero lì. Si tratta di una credenza popolare. […] Volevo riprendere i pellegrini che si trascinavano qua e là sul ghiaccio, cercando la visione della città perduta, ma siccome non c’erano pellegrini intorno, ho assunto due ubriachi della città vicino e li ho messi sul ghiaccio. Uno di loro ha la faccia dritta sulla superficie gelata e guarda come se fosse in uno stato di meditazione profonda. La pura verità è che era completamente ubriaco e si è addormentato, lo abbiamo dovuto svegliare a fine riprese“.

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Ma, per quanto scandalosa possa sembrare questa pratica all’interno di un documentario (che, secondo le regole classiche, dovrebbe attenersi ai “fatti”, alla “verità”, al realismo), lo scopo di Herzog non è assolutamente quello di rendere più spettacolare il suo film, o di imbrogliare lo spettatore. Il suo intento è quello di raccontare l’essenza di un popolo proprio grazie ad una menzogna.

Potrebbe sembrare un inganno, ma non lo è. […] Questo popolo esprime la fede e la superstizione in modo estatico. Credo che per loro la linea di demarcazione tra fede e superstizione sia labile. La domanda è: come riuscire a cogliere lo spirito di una nazione in un film di un’ora e mezza? In un certo senso la scena dei pellegrini ubriachi è l’immagine più profonda che si può avere della Russia. L’affannosa ricerca della città perduta rappresenta l’anima di un’intera comunità. Credo che la scena colga il destino e lo spirito della Russia, e chi conosce questa nazione e i suoi abitanti sostiene che questa sia la scena più bella del film. Anche quando svelo che non si tratta di pellegrini ma di comparse, continuano ad amare quella scena perché racchiude una sorta di verità estatica“.

Una verità che, in questo caso, risplende ancora più luminosa attraverso la finzione.

Durante la proiezione di F for Fake in un cineclub di provincia, un nostro caro amico confessò a una ragazza che la sua decennale amicizia per lei non era sincera. In realtà, l’aveva sempre segretamente amata. La loro relazione sentimentale cominciò così, con una verità sussurrata nel bel mezzo di un film sulle menzogne.
È una storia vera o falsa? Che importa, se ha una sua bellezza?

(Grazie, finegarten!)

Wunderkammer alla Biennale

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C’è tempo ancora fino al 29 settembre per visitare l’esposizione Wunderkammer, allestita nella prestigiosa cornice secentesca di Palazzo Widmann a Venezia.

La mostra è arrivata in Italia dopo il successo dell’edizione belga, e propone una selezione di opere di più di 20 artisti che danno vita ad una “Camera delle meraviglie” in chiave contemporanea, ispirandosi a quei collezionisti che tra il XVI ed il XVIII secolo erano soliti raccogliere e conservare oggetti stravaganti ed eccezionali realizzati dall’Uomo o dalla Natura.

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Grazie alle luci soffuse ed ad un ipnotizzante sottofondo musicale, si ritrova la stessa atmosfera delle antiche wunderkammer rinascimentali: ma la raccolta di oggetti d’arte, sculture, installazioni, fotografie, pitture, non vuole essere semplicemente un’ideale continuazione, quanto piuttosto una rilettura di quello che significava nei secoli scorsi entrare in uno di questi antesignani dei musei, nella confusione di Naturalia e Artificialia. Se, allora, il senso di meraviglia era dato dalle mille forme inaspettate ed ignote che poteva assumere il mondo attorno a noi, oggi un sentimento simile viene invece veicolato dalla riflessione sull’ibridazione, sulla mutazione, l’androginia, e sui rapporti uomo-ambiente. Qui non è unicamente la Natura ad essere messa al centro della produzione artistica, ma soprattutto l’uomo nei suoi rapporti con essa, e nella sua identità ormai proteiforme.

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Spiega il curatore Antonio Nardone: “Siamo abituati a vedere le opere contemporanee da sole, sulle pareti bianche dei musei e delle gallerie. Qui, le presento riunite in maniera variegata e, soprattutto, accompagnate da testi completamente immaginari, come Il corno di Unicorno o Il sangue di drago, che si trovavano nelle camere delle meraviglie. Il visitatore, al di là della lettura proposta, diventa “protagonista” sviluppando la propria interpretazione dell’opera.”

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Ecco la lista degli artisti (alcuni dei quali particolarmente controversi) che partecipano con le loro opere all’esposizione: Pascal Bernier, Isobel Blank, Stefano Bombardieri, Ulrike Bolenz, Charley Case, Marcello Carrà, Eric Croes, Dany Danino, Wim Delvoye, Laurence Dervaux, Yves Dethier & Olivia Droeshaut, Jacques Dujardin, Jan Fabre, Alessandro Filippini, Manuel Geerinck, Roberto Kusterle, Jean-Luc Moerman, Michel Mouffe, Ivan Piano, Vincent Solheid, Bénédicte van Caloen, Patrick van Roy, Sofi van Saltbommel.

PASCAL-BERNIER

La mostra è aperta tutti i giorni dalle 11 alle 19, presso il Palazzo Widmann, Calle Larga Widmann (Rialto-Ospedale), Venezia. Ecco il sito ufficiale dell’esposizione. L’intervista integrale al curatore è su Espoarte.

Bizzarro Bazar su ILLUSTRATI

Qualche giorno fa vi avevamo avvertiti che era in arrivo una bella novità.

Ebbene, finalmente possiamo svelarvela: Bizzarro Bazar approda da oggi sulla carta stampata, con una rubrica fissa all’interno della rivista più straordinaria e meravigliosa che ci sia: ILLUSTRATI!

Se non la conoscete, dovreste. È di grande formato, piacevole al tatto, è colorata, folle, visionaria, è un’importante vetrina per talenti artistici vecchi e nuovi, e se tutto questo non bastasse, è gratis. Entrare a far parte di un simile progetto non può che riempirci di entusiasmo.

Il tema di questo numero, in linea con il rientro scolastico settembrino, è “Cara maestra”. Illustratori, disegnatori, grafici, artisti si passano il testimone di pagina in pagina affrontando liberamente il soggetto.

La rivista bimestrale, pubblicata da Logos Edizioni, sarà disponibile nelle vostre librerie preferite a partire da questo week-end. Nel frattempo, è già consultabile gratuitamente online, scaricabile in formato PDF oppure ordinabile – il tutto sulla pagina ufficiale di ILLUSTRATI.

E, se la rivista vi dovesse piacere, non mancate di visitarne la pagina Facebook. Buona lettura a tutti!

Sculture tassidermiche – II

Continuiamo la nostra panoramica (iniziata con questo articolo) sugli artisti contemporanei che utilizzano in modo creativo e non naturalistico le tecniche tassidermiche.

Jane Howarth, artista britannica, ha finora lavorato principalmente con uccelli imbalsamati. Avida collezionista di animali impagliati, sotto formalina e di altre bizzarrie, le sue esposizioni mostrano esemplari tassidermici adornati di perle, collane, tessuti pregiati e altre stoffe. Jane è particolarmente interessata a tutti quegli animali poveri e “sporchi” che la gente non degna di uno sguardo sulle aste online o per strada: la sua missione è manipolare questi resti “indesiderati” per trasformarli in strane e particolari opere da museo, che giocano sul binomio seduzione-repulsione. Si tratta di un’arte delicata, che tende a voler abbellire e rendere preziosi i piccoli cadaveri di animali. La Howarth ci rende sensibili alla splendida fragilità di questi corpi rinsecchiti, alla loro eleganza, e con impercepibili, discreti accorgimenti trasforma la materia morta in un’esibizione di raffinata bellezza. Bastano qualche piccolo lembo di stoffa, o qualche filo di perla, per riuscire a mostrarci la nobiltà di questi animali, anche nella morte.

Pascal Bernier è un artista poliedrico, che si è interessato alla tassidermia soltanto per alcune sue collezioni. In particolare troviamo interessante la sua Accidents de chasse (1994-2000, “Incidenti di caccia”), una serie di sculture in cui animali selvaggi (volpi, elefanti, tigri, caprioli) sono montati in posizioni naturali ma esibiscono bendaggi medici che ci fanno riflettere sul valore della caccia. Normalmente i trofei di caccia mostrano le prede in maniera naturalistica, in modo da occultare il dolore e la violenza che hanno dovuto subire. Bernier ci mette di fronte alla triste realtà: dietro all’esibizione di un semplice trofeo, c’è una vita spezzata, c’è dolore, morte. I suoi animali “handicappati”, zoppi, medicati, sono assolutamente surreali; poiché sappiamo che nella realtà, nessuno di questi animali è mai stato medicato o curato. Quelle bende suonano “false”, perché quando guardiamo un esemplare tassidermico, stiamo guardando qualcosa di già morto. Per questo i suoi animali, nonostante l’apparente serenità,  sembrano fissarci con sguardo accusatorio.

Lisa Black, neozelandese ma nata in Australia nel 1982, lavora invece sulla commistione di organico e meccanico. “Modificando” ed “adattando” i corpi degli animali secondo le regole di una tecnologia piuttosto steampunk, Lisa Black si pone il difficile obiettivo di farci ragionare sulla bellezza naturale confusa con la bellezza artificiale. Crea cioè dei pezzi unici, totalmente innaturali, ma innegabilmente affascinanti, che ci interrogano su quello che definiamo “bello”. Una tartaruga, un cerbiatto, un coccodrillo: di qualsiasi animale si tratti, ci viene istintivo trovarli armoniosi, esteticamente bilanciati e perfetti. La Black aggiunge a questi animali dei meccanismi a orologeria, degli ingranaggi, quasi si trattasse di macchine fuse con la carne, o di prototipi di animali meccanici del futuro. E la cosa sorprendente è che la parte meccanica nulla toglie alla bellezza dell’animale. Creando questi esemplari esteticamente raffinati, l’artista vuole porre il problema di questa falsa dicotomia: è davvero così scontata la “sacrosanta” bellezza del naturale rispetto alla “volgarità” dell’artificiale?

Restate sintonizzati: a breve la terza parte del nostro viaggio nel mondo della tassidermia artistica!