Il Movimento Panico

 
“Il Panico non è un movimento, non è una filosofia,
non è un’estetica, non è una definizione,
non è un manifesto, non è un’arte, non è scienza,
non è questo e non è nemmeno quest’altro.”

Cos’è il Panico? È terrore, risata, strumento paradossale per la ricerca interiore. È violentare il simbolo per rivoltarlo come un calzino, e rendere evidente il suo significato ermetico. Jodorowsky, Arrabal, Topor: tre artisti geniali, coltissimi, eclettici, diversi fra loro eppure portati ad incontrarsi da un’affinità elettiva e dall’amore per il surrealismo.

Jodorowsky, il ciarlatano sacro, il santone-clown; Arrabal, il poeta folle e visionario; Topor, l’illustratore cinico e beffardo, discepolo di Sade e del Grand Guignol. Nel 1962 questi tre universi iperbolici danno vita al Panico, una corrente post-surrealista di cui si autoproclamano unici membri. Dopo poco lo rinnegano, lo abbracciano nuovamente, lo dichiarano morto, ma continuano a definire “paniche” le loro opere singole e più personali. Non c’è un vero modo per definire cosa sia il Panico, perché gli stessi autori hanno fatto di tutto per porsi al di là di ogni categoria.

Di certo il Panico, che sia declinato in un’opera teatrale, in un happening, in un romanzo o in un film, è innanzitutto destabilizzante, violento, grottesco. Unisce, in maniera talvolta blasfema, il lercio e il sublime, sembra ricercare il sacro nel sangue e negli escrementi, e per contro ridicolizzare l’iconografia religiosa/culturale/consumistica occidentale. È innanzitutto sensazione ed emozione, un ritorno chiassoso e caotico al paganesimo. Il dio Pan, con la sua sessualità liberata e oscena, è certamente un nume tutelare; ma “panico” va inteso anche nel senso di “tutto”, un’arte che abbraccia l’intero essere umano, senza tralasciarne gli angoli più bui e scomodi, e ampliando la matrice bretoniana all’infinito.

L’arte panica si sviluppò inizialmente con happening e pièce teatrali che scioccarono il pubblico dell’epoca: gli attori erano spesso nudi, in preda a passioni animalesche e, cosa tutt’oggi controversa, sul palco non era raro che venissero uccisi degli animali, in una sorta di rituale liberatorio e sconvolgente. Portando all’estremo le intuizioni surrealiste (e psicoanalitiche), queste rappresentazioni teatrali sfidavano qualsiasi interpretazione e ricordavano in maniera inquietante delle grottesche orge pagane. Dopo queste prime controverse esibizioni, i tre autori si dedicarono ognuno ai territori che sentivano più congeniali.

Di Topor abbiamo già parlato in questo articolo: la sua crudeltà, spesso paragonata a quella di Sade, è in realtà attraversata da uno humor disperato e da un senso del corpo davvero unico. Ci concentreremo qui sugli altri due artefici del Panico.

Alejandro Jodorowsky, ispirato dall’esperienza panica, si butta a capofitto e senza risparmiarsi in tutte le sfaccettature della sua variopinta personalità: diventa apprezzato regista, elabora tesi eretiche sui tarocchi e sulla cabala, studia il buddismo zen in Giappone, sceneggia alcuni meravigliosi fumetti illustrati da Moebius, e infine si reinventa romanziere e psicomago prestato alla new-age. Ma la ricerca spirituale per lui non è certo tutta “luce” ed “energie positive”, anzi… Il suo percorso iniziatico non ha mai avuto mezzi termini, è sempre passato per il deforme, il sangue, la morte; e allo stesso tempo la sua formazione di clown e di mimo lo ha costantemente tenuto legato ad un amore per la baracconata, per lo spettacolo circense.

“Jodo”, l’imbonitore sacro, ha firmato negli anni almeno tre film fondamentali: El Topo (1970), western esoterico e anomalo; La Montagna Sacra (1973), perla di misticismo e simbolismi capovolti; Santa Sangre (1989), storia di un amore edipico e omicida dalle infinite invenzioni poetiche e sorprendenti. Ecco il trailer internazionale de La Montagna Sacra.

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Nella Montagna Sacra, il tono allegorico del film è chiaro fin dall’inizio: tarocchi, misticismo, spiritualità. Per entrare nel film bisogna spogliarsi di ogni identità (il rituale della rasatura  dei capelli). Anche il Cristo replicato ci parla di identità negata (nella riproducibilità infinita c’è la perdita della singolarità, dell’identità), e il protagonista dovrà lasciare cadere ogni velo di illusione fino al finale metafilmico, in cui si scoprirà il set stesso, con tanto di regista e assistenti dietro la macchina da presa. La “montagna sacra” è la pietra filosofale, il luogo ascetico in cui tutte le nostre illusioni vengono a cadere: la storia dell’uomo, a cui diamo tanta importanza, è visualizzata come uno scontro fra animali; i simboli sacri sono sbeffeggiati; il corpo è al centro della riflessione metafisica.

Santa Sangre affronta invece temi diversi: il circo, la morte, la crescita e l’impossibilità di liberarsi della sudditanza dalla figura materna.
Da quest’ultimo film vi presentiamo tre estratti che testimoniano il talento visionario e fantasioso del regista cileno.

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Fernando Arrabal è innanzitutto poeta. La sua raccolta di poesia “panica” più celebre è La pietra della follia (1963), una serie di strane e misteriose variazioni, piuttosto ossessive, rivolte all’interno della mente e dei suoi fantasmi. Al cinema, Arrabal è ancora più estremo di Jodorowsky. J’irai comme un cheval fou (1973) narra dello strano incontro fra un matricida e un eremita dai poteri soprannaturali (capace di far venire la notte battendo le mani, di nutrirsi di sabbia, e di volare) che vive nel deserto. La tematica edipica, fondamentale per Arrabal, era già stata esplorata nel suo primo film, Viva la muerte! (1971): il bambino protagonista ha appena appreso della fucilazione di suo padre ad opera del regime franchista, e in una sequenza onirica di rara violenza vede se stesso e sua madre – di cui è segretamente innamorato – all’interno di un macello. Un toro viene sgozzato, e la madre imbrattata di sangue taglia i testicoli dell’animale, incitando suo figlio a “evirare” suo padre per divenire uomo, di fronte a una banda al completo che suona una marcia di paese. Si tratta di una sequenza davvero estrema, e ne sconsigliamo VIVAMENTE la visione ai lettori impressionabili, e agli animalisti. (A questo proposito, ricordiamo che si tratta di un film realizzato in un’epoca in cui i diritti per gli animali erano ancora agli albori; e che probabilmete il toro sarebbe stato macellato comunque).

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Al di là dell’efferatezza visiva e delle questioni morali più moderne, è innegabile la potenza simbolica di questo rituale di passaggio: ogni viaggio spirituale è intriso di dolore e deve scontare una quota di necessaria crudeltà, di (auto)immolazione, di distruzione catartica. Tutto il film si snoda su due livelli paralleli, la vita reale del ragazzino e le visioni del suo inconscio, forse ancora più vere: come scriveva Alberto Moravia, “l’inconscio è pieno di mostri che Arrabal ha evocato con esattezza in un contesto che li giustifica. L’avere stabilito un rapporto dialettico tra i mostri dell’inconscio e la vita morale mi pare uno dei meriti principali di questo film eccezionale”.

In fondo, forse il tema costante di tutti i racconti panici è proprio il viaggio alla scoperta di se stessi. L’intero corpus creativo di questi autori – al di là delle evidenti intenzioni anarchiche e iconoclaste – passa per la ricognizione e l’accettazione dei lati più oscuri dell’esistenza. Per loro le pulsioni edipiche, la coprofilia, il sadismo, la morte, il cannibalismo sono archetipi potenti in grado di parlarci anche oggi, e paradossalmente di curare l’anima.
L’essenza del movimento panico ha proprio questo scopo: liberare l’uomo moderno dalle catene emotive che lo ingabbiano, ricercando una trance euforica infantile, ribelle, estrema.

La collana Giunti Citylights ha pubblicato una serie di testi panici nella raccolta Panico!, a cura di Antonio Bertoli, acquistabile qui.

Grand Guignol

A vederlo da fuori, non faceva chissà quale impressione: era un teatrino posto alla fine di un vicolo cieco nel 9° arrondissement, e poteva contenere soltanto 300 persone: una miseria, rispetto agli altri teatri parigini. Eppure il Grand-Guignol registrava il tutto esaurito, ogni sera, ad ognuno dei suoi spettacoli distribuiti su diversi orari.

No, non c’erano affascinanti donnine nude in quegli spettacoli. Niente cabaret o gonne rialzate come al Moulin Rouge. Quello che il Grand-Guignol offriva era davvero unico: dalla data della sua apertura, nel 1897, il suo fondatore Oscar Métenier aveva deciso che il suo teatro avrebbe mostrato la faccia della realtà che il teatro borghese “alto” non avrebbe mai potuto rappresentare. Cominciò così ad adattare per il suo teatro quella “Mademoiselle Fifi” protagonista di un romanzo di Maupassant. Si trattava della prima prostituta protagonista su un palcoscenico. Risultato: il Guignol venne temporaneamente chiuso dalla polizia per motivi di censura. Nella seguente pièce “Lui!”, Métenier piazzava in una stanza d’hotel un’altra prostituta e un criminale.

A sostituire Métenier alla direzione del teatro arrivò quasi subito Max Maurey: fu lui che ebbe l’illuminazione – il Grand-Guignol si sarebbe trasformato in una casa dell’orrore! I suoi protagonisti sarebbero stati i derelitti – prostitute, uomini di malaffare, malviventi, trafficanti, assassini. Le storie che li vedevano protagonisti dovevano essere ancora più sordide: tradimenti, vendette, infanticidi, torture, accoltellamenti, decapitazioni, e tutto un armamentario di crudeltà assortite. Maurey decise che avrebbe misurato la riuscita di ogni spettacolo dal numero di svenimenti in sala…

Assunse così il drammaturgo André De Lorde, che scrisse e mise in scena centinaia di questi drammi nerissimi; sul palcoscenico, grazie all’uso di effetti speciali (talvolta raffazzonati, ma talvolta fin troppo convincenti), si poteva vedere una vecchia a cui veniva premuta la faccia sulla piastra ardente della cucina… una bella donna trafitta da una dozzina di coltelli… sgozzamenti fra mariti e mogli, regolamenti di conti fra luridi individui, cadaveri, urla, sangue finto e molto, molto sensazionalismo.

La formula era davvero magica. Per appagare questo segreto e inconfessabile piacere, i parigini riempivano la sala più volte a sera. Pian piano il tema centrale degli spettacoli del Grand-Guignol divenne la follia (che in quel periodo si iniziava appena a studiare), declinata in mille manie e perversioni diverse: c’era il necrofilo che disseppelliva i corpi, c’era la tata che provava l’impulso di strangolare i bambini che teneva in custodia, ecc. Allo stesso modo altre malattie fecero fortuna all’interno delle pièce: la rabbia sopra a tutte, ma anche la lebbra (faceva sempre effetto vedere gli attori che perdevano pezzi di corpo), o la vergognosa sifilide.

Nei suoi quasi 70 anni di attività, il Grand-Guignol ebbe anche la sua star: Paula Maxa.

Lungo la sua carriera al Grand-Guignol, Maxa, “la donna assassinata più volte al mondo”, subì una serie di torture senza pari nella storia del teatro: le spararono, con il fucile e con la pistola, le fecero lo scalpo. Fu strangolata, sventrata, stuprata, ghigliottinata, impiccata, squartata, bruciata, dissezionata, tagliata in 83 pezzi da una spada invisibile spagnola, morsa da uno scorpione, avvelenata con l’arsenico, divorata da un puma, strangolata con una collana di perle, e frustata.

Oltre a questo, fu soggetta ad una spettacolare mutazione che un critico teatrale dell’epoca descrisse così: “Per duecento notti di fila, lei semplicemente si decompose sul palcoscenico di fronte a una platea che non avrebbe scambiato il proprio posto con tutto l’oro delle Americhe. L’operazione durava due minuti buoni, durante i quali la giovane donna si trasformava a poco a poco in un cadavere orribile”.

Ma poi arrivò la Seconda Guerra Mondiale, che tolse l’innocenza a tutti e tutto. Se il pubblico aveva potuto essere spaventato in modo fanciullesco dagli orrori del Grand-Guignol, dopo il conflitto non fu più possibile. Nel 1962, dopo un’ultima stanca stagione, il teatro chiuse i battenti per sempre. Il suo ultimo direttore, Charles Nonon, spiegò le motivazioni della sua decisione: “Non avremmo mai potuto competere con Buchenwald. Prima della guerra, tutti credevano che quello che succedeva sul palcoscenico era puramente immaginario; ora sappiamo che queste cose sono possibili – anzi, che può esserci anche di peggio”.

Sombra Dolorosa

Il cortometraggio Sombra Dolorosa (2004) di Guy Maddin è un delirante pastiche nel classico stile del geniale regista canadese: narra la storia di Paramo, una vedova messicana che, per scongiurare il suicidio della figlia, deve sfidare il lottatore El Muerto (il divoratore di anime) prima della fine dell’eclisse solare. Una volta battuto, El Muerto dovrà mangiare il corpo del marito defunto di Paramo e “liberare” la sua anima, che entrata nel corpo di un mulo potrà cominciare il suo infinito girovagare per il mondo.

Con il suo “consueto” stile che unisce espressionismo tedesco, avanguardia russa e arte costruttivista, Maddin riesce (per una volta anche in un filmato a colori, lui che usualmente utilizza solo il bianco e nero) a coniugare l’atmosfera da film muto con il suo inconfondibile montaggio frammentario e “neurologico”. Un artista ancora ingiustamente poco conosciuto da noi, Maddin è autore di lugometraggi poetici e originalissimi, come The Saddest Music In The World (2003), Tales From The Gimli Hospital (1988) e My Winnipeg (2007).

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L’atto di vedere con i propri occhi

Stan Brakhage è riconosciuto come uno dei registi più importanti del ventesimo secolo.

I suoi film sono opere d’arte di pura avanguardia. Brakhage la pellicola la viveva, la martoriava, ne provocava (e ne curava) le ferite come si trattasse del più alto atto d’amore. Per molti dei suoi corti sperimentali dipingeva direttamente sul fotogramma, con certosina precisione, lanciandoci sopra macchie di colore alla Pollock – con il risultato di poter vedere in sala 24 dipinti diversi al secondo, un’esperienza psichedelica.

Le sue tecniche salienti, oltre alla pittura direttamente sulla celluloide, sono l’abrasione della pellicola, la sua graffiatura, gli stacchi veloci, le esposizioni multiple, la macchina a spalla e il frequente uso del montaggio “in camera”, cioè realizzato al momento della ripresa, senza successive modifiche in sala di montaggio. I titoli di testa di Seven, per capirci, non sarebbero forse esistiti senza il suo stile.

Interessato alla mitologia e ispirato dalla musica, dalla poesia e dai fenomeni della percezione, Brakhage cercò di rivelare l’universale nel particolare, esplorando in maniera lirica ed emotiva temi come la nascita, la morte, la sessualità e l’innocenza.

Nel 1971 Brakhage firmò uno dei suoi film più controversi e ammirevoli: The Act Of Seeing With One’s Own Eyes, vale a dire L’atto di vedere con i propri occhi. Il titolo si riferisce chiaramente all’etimologia della parola autopsia.

Realizzato in un obitorio di Pittsburgh, il film è girato in 16mm, dura 32 minuti ed è privo di sonoro. Mostra delle immagini riprese da Brakhage durante alcuni esami autoptici.

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Stan Brakhage - The Act Of Seeing With One's Own Eyes (1971)[(040483)06-24-32]

Molti di noi sono a disagio con il proprio corpo, e la maggior parte dei tabù sociali che ci sono stati tramandati sono proprio relativi alla nostra fisicità (sesso, sangue, scatologia, ecc.). In questo film, ciò che spinge e sostiene la ricerca dell’autore è proprio la necessità di vedere cosa sia questo nostro corpo che ci spaventa e ci disgusta, di scoprirne l’intima natura, quella che rifiutiamo di accettare.

Stan Brakhage - The Act Of Seeing With One's Own Eyes (1971)[(043158)06-29-10]

Brakhage fa due scelte essenziali: come prima cosa, elimina il sonoro. Il film è completamente muto. Non possiamo conoscere la “musica” di quei corpi sezionati, e talvolta siamo addirittura grati di questa scelta. Sappiamo che i rumori di uno stomaco che si apre non risulterebbero gradevoli alle nostre orecchie. Eppure questa decisione si rivela ancora più forte e incisiva, perché restiamo da soli in silenzio, e possiamo ascoltare le nostre reazioni a ciò che vediamo. Il film diviene così un’esperienza fondamentale, un confronto intimo con ciò che crediamo. Possiamo ascoltarci mentre pensiamo.

Stan Brakhage - The Act Of Seeing With One's Own Eyes (1971)[(016299)07-07-32]

In secondo luogo, Brakhage riprende i cadaveri attraverso inquadrature per lo più molto strette: il film si compone quasi interamente di dettagli.  La scelta di limitare i piani più larghi, quelli che ci fanno comprendere senza ombra di dubbio quello che sta succedendo, ha come effetto una sorta di straniamento: dopo i primi dieci minuti, è come se assistessimo a una moltitudine di carni lacerate, una miriade di colori inusitati (il rosso del sangue, il blu delle vene, il giallo degli strati lipidici), come se stessimo spiando un paesaggio alieno. Eppure stiamo guardando dentro di noi. Siamo colpiti da una sequenza di forme strane, di geometrie impossibili, di escrescenze carnose a cui non sappiamo dare una collocazione o un nome.

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Tutto questo pone The Act of Seeing su un piano radicalmente differente rispetto ai filmati autoptici medici: senza che una sola parola venga detta, alcuni interrogativi essenziali ci assalgono. Quello che inizialmente sembra un atto sacrilego, che viola il corpo così come lo conosciamo, diviene un momento di scoperta interiore. In un momento che sembra negare ogni individualità, può capitare di scoprire in noi stessi una pietà che credevamo perduta.

C’è una sequenza celebre che è spesso additata come la più pregna di significato: si tratta dell’attimo in cui per procedere allo scalottamento cranico e all’analisi del cervello, viene praticata un’incisione in alto sulla fronte, e la faccia dei cadaveri viene letteralmente rivoltata in avanti, sopra al mento, esponendo la carne che vi sta sotto. In quel momento, sembra quasi che qualsiasi rimasuglio di identità venga cancellato e quell’essere un tempo vivo e senziente sia divenuto pura carne, priva di qualsiasi connotato umano.

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Eppure, non è tutto così semplice. Il miracolo che Brakhage compie è quello di lasciare indeterminato l’esito della sua analisi: in altre parole, essendo il film piuttosto lungo (32 minuti), nella testa dello spettatore si affastellano una quantità di sensazioni, emozioni e riflessioni, difficilmente raccontabili. Una serie infinita di domande dalla risposta nebulosa.

Stan Brakhage - The Act Of Seeing With One's Own Eyes (1971)[(022734)06-26-50]

Cos’è, questo corpo che abitiamo? Perché ci provoca così tanta repulsione vedere il suo interno? Perché troviamo che un corpo visto dall’esterno sia rispettabile, addirittura un’opera divina, e quello che esso racchiude sia al contrario osceno? Quale incredibile paesaggio dischiude lo spazio di materia che abbiamo in prestito?

Stan Brakhage - The Act Of Seeing With One's Own Eyes (1971)[(021896)07-08-29]

Ci troviamo di fronte alla morte più vera, quella ineluttabile del disfacimento della carne. Proviamo disgusto per questo corpo sconsacrato, violentato, e allo stesso tempo stupore per la complessità del nostro fisico; quello che è sostanzialmente un involucro vuoto, a volte ci sembra quasi parlarci di un disegno preciso; alla fine del film, penso che il sentimento prevalente sia quello della meraviglia.

Alla meraviglia, si sa, non c’è risposta.

Credo che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, dovrebbe assistere a un’autopsia. Così come a una nascita.

Per vedere con i propri occhi.