In the 8th episode of Bizzarro Bazar: the most extraordinary lives of people born with extra limbs; a wax crucifix hides a secret; two specular cases of animal camouflage. [Be sure to turn on English captions.]
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Melvin Burkhart è stato, a suo modo, una leggenda. Ha lavorato nei principali luna park e circhi americani dagli anni ’20 fino al suo ritiro dalle scene nel 1989.
Nel mondo dei sideshow americani, lo spettacolo di Mel faceva parte dei cosiddetti working act, ossia quelle esibizioni incentrate sulle abilità dell’artista piuttosto che sulle sue deformità genetiche o acquisite. Ma quello che davvero lo distingueva da tanti altri performer specializzati in una singola prodezza, era l’incredibile ecletticità del suo talento: nella sua lunghissima carriera, Burkhart ha ingoiato spade, lanciato coltelli, sputato fuoco, combattuto serpenti, eseguito innovativi numeri di magia, resistito allo shock della sedia elettrica.
È stato anche la prima “Meraviglia Anatomica” della storia del circo, grazie alla sua capacità di risucchiare lo stomaco dentro la gabbia toracica, allungare il collo oltre misura, far protrudere le scapole in maniera grottesca, torcere la testa quasi a 180°, “rigirare” lo stomaco sul suo stesso asse. Mel sapeva anche sorridere con metà faccia, mentre l’altra metà si accigliava preoccupata (provate a coprire alternativamente con una mano la foto qui sotto per rendervi conto della sua incredibile abilità).
Le sue specialità erano talmente tante che, durante la Grande Depressione, Burkhart riuscì a sostenere da solo ben 9 dei 14 numeri proposti dal circo per cui lavorava. Praticamente un one-man show, tanto che alle volte qualcuno fra il pubblico lo punzecchiava ironicamente gridandogli: “Vedremo qualcun altro, stasera, oltre a te?”
Ma il suo maggiore contributo alla storia dei circhi itineranti è senza dubbio il numero chiamato The Human Blockhead – ovvero, la “Testa di Legno Umana”. La genesi di questo stunt, come tutto quello che concerneva Burkhardt, è piuttosto eccentrica. Ad un certo punto della sua vita, Melvin si era lasciato prendere dalla velleità di diventare un pugile professionista; purtroppo però, dopo la sesta sconfitta consecutiva, si ritrovò con i denti rotti, il labbro tumefatto e il naso completamente fracassato. Finito sotto i ferri del chirurgo, Burkhart stava contemplando la rovina della sua carriera agonistica mentre il medico, con pinze ed altri strumenti, estraeva dalle sue cavità nasali dei sanguinolenti pezzi di osso. Eppure, mentre veniva operato, ecco che piano piano si faceva strada in lui un’illuminazione: i lunghi attrezzi del medico entravano così facilmente nel naso per rimuovere i frammenti di turbinati fratturati, che forse si poteva sfruttare questa scoperta e costruirci attorno un numero!
Detto fatto: Melvin Burkhart divenne il primo performer ad esibirsi nell’impressionante atto di piantarsi a martellate un chiodo nel naso.
Lo spettacolo dello Human Blockhead fa leva sulla concezione errata che le nostre narici salgano verso l’alto, percorrendo la cartilagine fino all’attaccatura del naso: l’anatomia ci insegna invece che la cavità nasale si apre direttamente dietro i fori del naso, in orizzontale. Un chiodo o un altro oggetto abbastanza sottile da non causare lesioni interne può essere inserito nel setto nasale senza particolari danni.
Proprio come accade per i mangiatori di spade, non c’è quindi alcun trucco: si tratta in questo caso di comprendere fino a dove si può spingere il chiodo, come inclinarlo e quale forza applicare. La parte più lunga e difficile sta nell’allenarsi a controllare ed inibire il riflesso dello starnuto, che potrebbe risultare estremamente pericoloso; altri rischi includono infezioni alle fosse nasali, ai seni paranasali e alla gola, rottura dei turbinati, lacerazioni della mucosa e via dicendo (nei casi più estremi si potrebbe arrivare addirittura a danneggiare lo sfenoide). Un lungo periodo di pratica e di studio del proprio corpo è necessario per imparare tutte le mosse necessarie.
Mel Burkhart, però, non era affatto geloso delle sue invenzioni, anzi: con generosità davvero inusuale per il cinico mondo dello show business, insegnava tutti i suoi trucchi ai giovani performer. Così, lo Human Blockhead divenne uno dei grandi classici della tradizione circense, replicato ed eseguito infinite volte nelle decadi successive.
Anche oggi, dopo che nel 2001 Melvin Burkhart ci ha lasciato all’età di 94 anni, innumerevoli performer e fachiri continuano a piantarsi chiodi nel naso, nella cornice degli ultimi, rari sideshow – così come nella loro moderna controparte, i talent show televisivi da “guinness dei primati”. Moltissime le varianti rispetto al vecchio e risaputo chiodo: c’è chi nel naso inserisce coltelli, trapani elettrici funzionanti, lecca-lecca, ganci da macellaio, e chi più ne ha più ne metta. Ma nessuno di questi numeri può replicare la sorniona e consumata verve del vecchio Mel Burkhart che, a chi gli chiedeva se ci fosse un trucco o un segreto, rispondeva serafico: “Uso un naso finto”.
Ariana è un’artista newyorkese affetta da una patologia della cute chiamata dermografismo: si tratta di una reazione abnorme agli stimoli e agli urti violenti. Se Ariana sbatte accidentalmente contro un tavolo, sulla sua cute si forma immediatamente un ponfo di colore rosso o rosa acceso che non se ne va prima di mezz’ora. Se si passa sulla pelle un oggetto acuminato, come ad esempio la punta di una matita, laddove alla maggior parte di noi resterebbe una sottile linea bianca che presto scompare, a lei rimane una striatura in rilievo per venti minuti buoni.
Questo tipo di affezione, che non è grave di per sé (a meno che non sia un sintomo di patologie più serie) e si può curare con antistaminici, non provoca né dolore né prurito ad Ariana – l’unico effetto negativo sono questi segni antiestetici che solcano periodicamente la sua pelle. Così la giovane artista ha deciso di trasformarli nel loro contrario, in un esercizio estetico puro.
Nella sua serie di fotografie intitolata Skin, la Russell ha trasformato il suo corpo in una vera e propria tela d’artista, in un laboratorio aperto in cui provare nuove forme e inedite decorazioni. Grazie alla sua peculiare anomalia, Ariana ha la possibilità di testare diversi materiali e diverse “fantasie” su di sé: la reazione cutanea dura più o meno mezz’ora, dandole così tutto il tempo per scattare delle foto e, se necessario, replicare il suo “quadro di pelle” per ottenere migliori risultati.
Le fotografie di Ariana Page Russell, che ricordano una versione ben più innocua delle scarificazioni, si iscrivono così nel più vasto filone della body art, ma con un elemento assolutamente personale; tutto questo, infatti, sarebbe impensabile se non fosse per la sua “malattia”, trasformata dall’artista in un tratto unico e inequivocabile della propria identità e del proprio stile.
A volte, sembrano dire questi temporanei “abbellimenti” decorativi sul corpo dell’artista, sta soltanto a noi decidere se una cosa è venuta per nuocere o meno; cosa è bene o cosa è male per noi; e ciò che per una persona è un problema, un fastidio o peggio ancora un handicap, per un’altra può rivelarsi uno stimolo positivo e carico di frutti.
La performance art, nata all’inizio degli anni ’70 e viva e vegeta ancora oggi, è una delle più recenti espressioni artistiche, pur ispirandosi anche a forme classiche di spettacolo. Nonostante si sia naturalmente inflazionata con il passare dei decenni, a volte è ancora capace di stupire e porre quesiti interessanti attraverso la ricerca di un rapporto più profondo fra l’artista e il suo pubblico. Se infatti l’artista classico aveva una relazione superficiale con chi ammirava le sue opere in una galleria, basare il proprio lavoro su una performance significa inserirla in un adesso e ora che implica l’apporto diretto degli spettatori all’opera stessa. Così l’obiettivo di questo tipo di arte non è più la creazione del “bello” che possa durare nel tempo, quanto piuttosto organizzare un happening che tocchi radicalmente coloro che vi assistono, portandoli dentro al gioco creativo e talvolta facendo del pubblico il vero protagonista.
Dagli anni ’70 ad oggi il valore shock di alcune di queste provocazioni ha perso molti punti. Le performance sono divenute sempre più cruente per riflettere sui limiti del corpo, generando però un’assuefazione generale che è una vera e propria sconfitta per quegli artisti che vorrebbero suscitare emozioni forti. Ancora oggi ci si può imbattere però in qualche idea davvero coinvolgente ed intrigante. Fanno infatti eccezione alcuni progetti che pongono davvero gli spettatori al centro dell’attenzione, permettendo loro di operare scelte anche estreme.
È il 1974 quando Marina Abramović, la “nonna” della performance art, mette in scena il suo “spettacolo” più celebre, intitolato Rhythm 0. L’artista è completamente passiva, e se ne sta in piedi ferma e immobile. 72 oggetti sono posti su un tavolo, un cartello rende noto al pubblico che quegli oggetti possono essere usati su di lei in qualsiasi modo venga scelto dagli spettatori. Alcuni di questi oggetti possono provocare piacere, ma altri sono pensati per infliggere dolore. Fruste, forbici, coltelli e una pistola con un singolo proiettile. Quello che Marina vuole testare è il rapporto fra l’artista e il pubblico: consegnandosi inerme, sta rischiando addirittura la sua vita. Starà agli spettatori decidere quale uso fare degli oggetti posti sul tavolo.
All’inizio, tutti i visitatori sono piuttosto cauti e inibiti. Man mano che passa il tempo, però, una certa aggressività comincia a farsi palpabile. C’è chi taglia i suoi vestiti con le forbici, denudandola. Qualcun altro le infila le spine di una rosa sul petto. Addirittura uno spettatore le punta la pistola carica alla testa, fino a quando un altro non gliela toglie di mano. “Ciò che ho imparato è che se lasci la decisione al pubblico, puoi finire uccisa… mi sentii davvero violentata… dopo esattamente 6 ore, come avevo progettato, mi “rianimai” e cominciai a camminare verso il pubblico. Tutti scapparono, per evitare un vero confronto”.
1999. Elena Kovylina sta in piedi su uno sgabello, con un cappio attorno al collo. Indossa un cartello in cui è disegnato un piede che calcia lo sgabello. Per due ore rimarrà così, e starà al pubblico decidere se assestare una pedata allo sgabello, e vederla morire impiccata, oppure se lasciarla vivere. Sareste forse pronti a scommettere che nessuno avrà il coraggio di provare a calciare lo sgabello. Sbagliato. Un uomo si avvicina, e toglie l’appoggio da sotto i piedi di Elena. Fortunatamente, la corda si rompe e l’artista sopravvive.
L’artista iracheno Wafaa Bilal, colpito profondamente dalle sempre più pressanti dichiarazioni di odio xenofobo verso la sua cultura, definita “terrorista” e “animalesca”, decide nel 2005 di sfruttare internet per un progetto d’arte che riceve ampia risonanza. Per un mese Wafaa vive in una stanzetta simile a quella di una prigione, collegato al mondo esterno unicamente tramite il suo sito. Una pistola da paintball è collegata con il sito, e chiunque accedendovi può direzionare l’arma e sparare dei pallini di inchiostro verso l’artista. Un mese sotto il continuo fuoco di qualsiasi internauta annoiato. Il titolo del progetto è “Spara a un iracheno”, e vuole misurare l’odio razziale su una base spettacolare. Le discussioni in chat che l’artista conduce aiutano il pubblico a chiarire motivazioni e moventi delle più recenti “sparatorie”, con il risultato che molti utenti dichiarano che quel progetto ha “cambiato loro la vita”, oltre a fruttare numerosi premi all’artista mediorientale.
Eccoci arrivati ai giorni nostri. L’artista russo Oleg Mavromatti è già assurto agli onori della cronaca per un film indipendente in cui si fa crocifiggere realmente. La crocifissione non è una prerogativa esclusiva di Gesù Cristo, rifletteva l’artista, e infatti sul suo corpo, durante il supplizio, era scritto a chiare lettere “Io non sono il vostro Dio”. Ma non è bastato e, condannato sulla base di una legge russa che tutela la religione dalle offese alla cristianità, Oleg ha dovuto autoesiliarsi in Bulgaria.
Ha iniziato da poco un nuovo progetto intitolato Ally/Foe (Alleato/Nemico): il suo corpo, attaccato a cavi elettrici, è sottoposto a scariche sempre maggiori, come su una vera e propria sedia elettrica da esecuzione. Unica variabile: saranno gli utenti che, tramite internet, decideranno con diverse votazioni quante e quali scosse dovrà subire. Quello che l’artista vuole veicolare è una domanda: quando la gente ha la piena libertà di azione, come la utilizza? Se aveste l’opportunità di decidere della vita di un’altra persona, come sfruttereste questo potere?
Oleg è sicuro che questo tipo di libertà verrà utilizzata dagli internauti per farlo sopravvivere – ma è pronto a subire seri danni o addirittura a morire se il suo sacrificio dovesse dimostrare una verità sociologica tristemente diversa.