Un buco allo stomaco

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Il Canada, all’inizio dell’800, era una terra più selvaggia e incontaminata di quanto non lo sia ancora oggi. La Francia napoleonica aveva ormai definitivamente rinunciato alle sue colonie in Nord America, lasciandole in mano all’Impero Britannico; il governo coloniale inglese aveva dunque cominciato a regolamentare il commercio di pelli in Basso Canada, uno dei mercati all’epoca più lucrativi. Quelli che un tempo erano chiamati coureur des bois – contrabbandieri che intrattenevano dei rapporti con le tribù di Nativi Americani, dalle quali acquistavano le pellicce di castoro – vennero messi in regola, e assunsero il più rispettabile nome di voyageur. I voyageur si muovevano in team, e conducevano le grandi canoe-cargo lungo i fiumi del Canada, trasportandole via terra qualora incontrassero rapide o cascate; il lavoro era pesante, ma anche ricco di avventura e pericolo, tanto che i voyageur avevano un loro esclusivo bagaglio di leggende e canzoni.

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Uno di questi “viaggiatori” si chiamava Alexis Bidagan, detto St. Martin.
Nato nel 1802 a Berthier (per inciso, la stessa piccola cittadina che quasi 150 dopo avrebbe visto crescere il pilota Villeneuve), Alexis era canadese di terza generazione. Suo nonno proveniva da Bayonne nei Pirenei, suo padre si chiamava Joseph Pierre Bidagan e sua madre Marie Des Agnes Angelique Guibeau. Un suo fratello omonimo era nato nel 1794, ma era morto a pochi anni di età. Queste sono le sole informazioni biografiche che abbiamo di lui, a partire dal suo certificato di nascita.
Povero, senza un’istruzione, Alexis St. Martin (come si faceva chiamare) batteva foreste, fiumi e laghi della provincia del Quebec per conto della American Fur Company: ma il suo nome sarebbe rimasto completamente sepolto nelle pieghe della storia, se non fosse stato per quel fatidico incidente occorso il 6 giugno del 1822.

Quella mattina Alexis si trovava all’interno di un negozio sull’isola Mackinac, nel bel mezzo dello Huron, uno dei passaggi strategici nella regione dei Grandi Laghi per il commercio di pelli. A meno di un metro da lui stava in piedi un uomo che imbracciava un fucile caricato per la caccia alle anatre. Accidentalmente, il moschetto fece fuoco e la scarica di pallini colpì Alexis in pieno fianco. I proiettili gli strapparono i muscoli, alcune parti di costole andarono in frantumi, e l’imbottitura della sua giacca e i pezzi di vestiti vennero sparati dentro al suo corpo. Mentre si accasciava con la giacca in fiamme, gli astanti che cercarono di prestargli soccorso capirono immediatamente che per lui non c’erano più speranze.

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Dal vicino fortino dell’Esercito Americano venne chiamato di gran carriera il medico militare, Dr. William Beaumont, che arrivò sulla scena a pochi minuti dall’incidente. Quello che gli si parò davanti era davvero un caso disperato. Dopo aver rimosso i brandelli di vestiti, pulito la carne e spuntato in maniera più regolare i bordi della ferita, il medico esaminò meglio il danno causato:

La ferita era stata ricevuta appena sotto il seno sinistro e aveva, in quel momento, tutto l’aspetto d’essere mortale. Un larga parte del fianco era esplosa, le costole erano fratturate e vi erano aperture nelle cavità del petto e dell’addome, attraverso le quali protundevano porzioni di polmoni e stomaco, di molto lacerati e bruciati, rendendo il caso terribilmente disperato. Il diaframma era lacerato e una perforazione si era aperta direttamente nella cavità dello stomaco, attraverso cui scivolava fuori il cibo della colazione.

Dopo aver tamponato la ferita e somministrato un catartico al paziente, il medico confidò ad uno dei presenti: “quest’uomo non sopravvivrà trentasei ore; verrò a visitarlo ogni tanto“. Ma Alexis St. Martin, è il caso di dirlo, aveva la pelle più dura di quanto ci si sarebbe potuti aspettare.

Nei diciassette giorni successivi, qualsiasi cibo ingerisse per bocca usciva subito dall’apertura nel suo stomaco. Così il Dr. Beaumont lo alimentò con clisteri nutritivi, finché St. Martin non cominciò a riprendersi lentamente; gli intestini ricominciarono la loro regolare attività, e la quarta settimana Alexis iniziò a mangiare normalmente.
Durante la quinta settimana, successe qualcosa di davvero particolare: il foro nello stomaco di St. Martin e il foro nella pelle del fianco aderirono e si fusero assieme, creando una fistola gastrica permanente grande più o meno come una moneta. Certo, lo stomaco era in questo modo sempre aperto verso l’esterno; ma almeno il cibo non sarebbe scivolato fra un buco e l’altro, finendo per perdersi nella cavità addominale con conseguenze facilmente immaginabili. In questo modo, “tappando” con garze e bendaggi la fistola, la digestione del paziente poteva svolgersi in maniera naturale.

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Ovviamente il ricovero fu lungo e difficoltoso. Tre mesi dopo, Beaumont stava ancora estraendo pallini di piombo dagli ascessi intorno alla ferita, rimuovendo pezzi instabili di costole e cartilagini. Dopo dieci mesi, nonostante le sue condizioni migliorassero, St. Martin era ancora messo piuttosto male, e non essendo in grado di lavorare le autorità locali decisero che sarebbe stato rispedito nella sua terra natale. Ma Beaumont sapeva che Alexis non avrebbe retto il lungo viaggio, e lo accolse in casa sua, continuando a curarlo.

Passarono quasi due anni dall’incidente quando, nell’aprile del 1824, Beaumont riuscì a far entrare St. Martin nell’Esercito Americano come suo impiegato. Alexis si dedicò quindi ad ogni tipo di lavoro in casa, dalle pulizie, al lavoro nei campi, al tagliare la legna; si era ristabilito talmente bene che, a parte il bendaggio sullo stomaco, che doveva tenere costantemente pulito, non si lamentò mai una sola volta per il dolore o la fatica.

Se fino ad ora il Dr. Beaumont vi è sembrato un uomo gentile e premuroso – cosa che probabilmente sarà anche stata vera – da questo momento in poi il suo rapporto con il paziente prende una piega che ai nostri occhi moderni è certamente poco piacevole; ma occorre ricordare che stiamo parlando della prima metà dell’800, quando la professione medica non aveva gli stessi standard etici di oggi. Così, invece di suturare la fistola del povero e ignorante trasportatore di pellame ormai completamente ristabilitosi, e lasciarlo andare per la sua strada, il Dr. Beaumont cominciò a vedere in lui un’opportunità scientifica unica.

Questo caso permette in maniera eccellente di sperimentare sui fluidi gastrici, e il processo della digestione. Non causerebbe dolore, né provocherebbe il minimo fastidio, l’estrarre un campione di fluido ogni due o tre giorni, dacché frequentemente e in maniera spontanea esce in considerevoli quantità; e si potrebbero introdurre varie sostanze digeribili nello stomaco, ed esaminarle facilmente durante l’intero processo di digestione. Potrei, dunque, essere in grado di svolgere alcuni interessanti esperimenti al riguardo.

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Nel 1825 Beaumont diede inizio agli esperimenti sullo stomaco che continueranno, a fasi alterne, fino al 1833. Il dottore inseriva pezzi di cibo direttamente attraverso la fistola, per poi estrarli tramite un filo al quale erano stati legati in precedenza; nonostante i buoni propositi del medico, le sue manipolazioni non erano prive di effetti collaterali e in alcuni casi provocavano nella “cavia umana” reazioni decisamente poco piacevoli – nausea, difficoltà respiratorie, vertigini, offuscamento della vista, se non dei veri e propri dolori lancinanti.
Così non c’è da sorprendersi che il paziente, per tre volte nel corso di quegli otto anni, decidesse di interrompere gli esperimenti nonostante le proteste di Beaumont, e tornasse a casa dalla moglie Marie e dai figli. Salvo scoprirsi, poco dopo, talmente povero da dover accondiscendere nuovamente alle pressanti richieste del ricercatore.

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Dal 1833 in poi, i rapporti fra i due si guastarono. St. Martin si stabilì in Quebec, e per i vent’anni successivi Beaumont cercherà disperatamente di farlo tornare da lui per riprendere gli esperimenti.
Dalla loro corrispondenza, emerge un rapporto emblematico della relazione che c’era all’epoca fra medico e paziente: Beaumont appare totalmente ossessionato dal buco nello stomaco di St. Martin, intollerante del fatto che un reietto della società possa rifiutarsi di contribuire al progresso scientifico, quando dovrebbe sentirsi onorato anche solo della compagnia di un esimio dottore; dall’altra St. Martin, nelle lettere dettate al suo parroco e inviate a Beaumont, rivela certamente rispetto e riconoscenza per il benefattore, ma anche la necessità di far fronte alle preoccupazioni materiali della sua famiglia, versante nella povertà più assoluta. Ma le richieste di Alexis di poter portare la moglie e i figli con sé (a spese del medico) non vennero ascoltate.
Fra le insistenze di Beaumont e le controproposte di St. Martin, i due uomini non troveranno mai un accordo, e non si vedranno più.

Nel frattempo, però, il Dr. William Beaumont pubblicò nel 1833 il suo Experiments and Observations on the Gastric Juice, and the Physiology of Digestion, un testo dall’importanza fondamentale per la comprensione dei processi digestivi, e le cui tabelle dietetiche rimarranno in uso per quasi un secolo. I suoi 240 esperimenti sullo stomaco di St. Martin provarono come la digestione fosse inconfutabilmente un processo chimico – un argomento su cui si discuteva da sempre.
Considerato oggi, nonostante tutto, un vero e proprio pioniere della fisiologia, Beaumont morì nell’aprile del 1853 a causa delle ferite riportate un mese prima, scivolando su alcuni gradini ricoperti di ghiaccio.

A quel punto cominciò forse la fase più triste della vita di Alexis St. Martin. Senza un soldo e dipendente dall’alcol, egli accettò l’invito di un ciarlatano che si faceva chiamare “Dr. Bunting” per un tour di più di dieci città negli Stati Uniti, esponendo il suo straordinario buco nello stomaco per racimolare un po’ di soldi. I medici che assistettero ad alcune tappe del tour conclusero che Bunting era tutto fuorché un dottore, e che l’ormai sessantenne St. Martin che esibiva il suo stomaco perforato era soltanto un povero ubriaco. L’attenzione della stampa fece rizzare le orecchie perfino al celeberrimo imprenditore circense P.T. Barnum, ma Alexis non venne mai ingaggiato.

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St. Martin si ritirò definitivamente a St. Thomas de Joliette, Quebec, e qui morì il 24 giugno 1880. Alla messa per il suo funerale, la bara restò fuori dalla chiesa, per il troppo odore: la famiglia aveva infatti lasciato che il corpo si decomponesse in maniera irreparabile, di modo che i ladri di cadaveri non trafugassero le spoglie per portarle in segreto alla comunità medica. Dal giorno in cui Alexis era morto, la famiglia aveva dovuto subire le pressioni dei numerosi medici impazienti di poter eseguire un’autopsia, o di conservare il favoloso “stomaco a tre buchi” in un museo. Per ulteriore sicurezza, la bara venne posta ad otto piedi di profondità nel camposanto, invece che ai regolari sei piedi.

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A ottant’anni dalla morte di Alexis St. Martin, la Società di Fisiologia Canadese gli pagò un commovente tributo postumo con una solenne cerimonia, rintracciando i suoi eredi e infine la sua tomba, su cui oggi è visibile una targa dedicata all’uomo che “attraverso la sua afflizione, servì l’umanità intera“.

Puntaspilli e fontane… umani

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Human pincushion. Puntaspilli umani. Questo è il nome che veniva dato a quegli artisti che, all’interno dei sideshow, si conficcavano spilli e lame nella carne. Si trattava di un tipo di spettacolo estremo, affine a quello dei fachiri mediorientali, che come spesso accadeva nell’ambito circense faceva bella mostra dei limiti insospettabili del corpo umano.

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Esattamente come succedeva per i mangiatori di spade, anche qui non si trattava di un trucco: i performer si bucavano veramente la pelle, avendo scoperto i punti che in misura minore rispondevano alla violenza degli spilloni, e si procuravano delle ferite superficiali non molto distanti dagli odierni piercing. Ma all’epoca un simile spettacolo causava spesso malori nel pubblico, se non (a detta degli organizzatori) dei veri e propri infarti.

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Ma, tra tutte le decine di “puntaspilli umani” che calcavano i palcoscenici di mezzo mondo, ce n’erano un paio di davvero incredibili. Erano le “fontane umane”, come ad esempio il misterioso Mortado.

La vita di Mortado rimane in gran parte sconosciuta: secondo la biografia che veniva raccontata nel sideshow, egli era nato a Berlino ed aveva combattuto durante la Prima Guerra Mondiale; si era esibito per la prima volta nel gennaio del 1929 prima di incontrare un agente di New York che gli aveva fatto firmare un contratto con il Dreamland Circus per la stagione estiva del 1930. Ma è difficile prendere per oro colato queste informazioni, visto che la stessa biografia sosteneva che le sue ferite fossero il risultato delle torture di fantomatici “selvaggi nativi”.

Fatto sta che Mortado aveva dei buchi nei palmi delle mani e dei piedi: quando non stava recitando sul palco, manteneva queste ferite aperte inserendovi dei tappi di sughero. Una volta iniziato lo spettacolo, si sedeva su un trono speciale dotato di tubi di rame che, inseriti nelle ferite aperte, lo trasformavano in una vera e propria fontana umana.

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Mortado, di tanto in tanto, proponeva una crocifissione biblica in diretta. Piazzava delle piccole sacche di liquido rosso nelle sue ferite, e lasciava che un assistente gli piantasse dei chiodi nelle mani e nei piedi: i sacchetti si rompevano, il sangue finto scorreva, e diverse persone nel pubblico svenivano.

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Mentre la fama di Mortado diminuiva, fino a farlo scomparire nell’oblio, un altro uomo diveniva celebre per le sue doti sovrannaturali: l’olandese Mirin Dajo.

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Il suo nome d’arte, in esperanto, significa “il meraviglioso”. Era nato nel 1912 a Rotterdam, con il nome di Arnold Gerrit Henskes. Mirin Dajo portò l’arte del puntaspilli umano a vette inarrivabili, eppure nascondeva un segreto molto più interessante.

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Il suo spettacolo era davvero estremo: Mirin Dajo, con l’aiuto di un assistente, si faceva trapassare da una vera spada. La lama attraversava diversi organi vitali, senza sortire effetti nefasti. Le ferite, che avrebbero portato alla morte certa qualsiasi altro essere umano, sembravano non preoccupare Dajo che riusciva a camminare e muoversi perfino quando la spada aveva infilzato reni, fegato, polmoni o (secondo alcuni testimoni) addirittura il cuore. Senza la minima traccia di sangue.

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In diverse occasioni alle lame vennero sostituiti dei tubi che, un po’ come faceva Mortado, pompavano acqua rendendo il corpo di Dajo una spettacolare fontana.

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Tra i fachiri orientali non è inusuale un tipo di impresa simile: ma normalmente essi si trapassano gli strati grassi e “sicuri” del corpo, là dove una spada risulta, se non innocua, perlomeno non fatale. Mirin Dajo, invece, si bucava proprio nei punti più pericolosi. Come faceva? questione di fortuna, di fede, o di un apparato biologico unico?
Venne sottoposto a diversi test medici, a Basilea, per cercare di comprendere quale fosse il segreto della sua peculiare abilità. I dottori dell’epoca, nonostante le radiografie e le analisi, non riuscirono a capire come potesse Dajo sopravvivere a simili ferite traumatiche.

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Ma Mirin Dajo aveva uno scopo ben più nobile. Era estremamente religioso, e convinto di essere in contatto con tre angeli custodi con i quali comunicava telepaticamente: si era risoluto ad entrare nel mondo dello spettacolo non perché lo amasse, ma semplicemente perché gli sembrava il modo più facile e veloce per diffondere il messaggio che sentiva di dover consegnare all’umanità. Un messaggio di pace, di amore e di abbandono del materialismo. Dopo ogni performance, cercava di impartire un breve e ispirato discorso al suo pubblico. Era sicuro che, di fronte al suo corpo indistruttibile, la gente avrebbe cominciato a credere a una forza che andava al di là della pura materia. Che il suo esempio sarebbe stato un simbolo dell’uomo che resiste alla morte, e avrebbe reso futili le guerre, l’odio, la violenza.

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Purtroppo si trovò ben presto frustrato dallo show business, che non sapeva che farsene delle sue prediche misticheggianti; la sua carriera durò soltanto tre anni (come quella di Cristo, noteranno i più cinici), prima che Mirin Dajo morisse il 26 maggio del 1948, a causa di una perforazione dell’arteria aortica, forse proprio in seguito a uno dei suoi spettacoli “sovrumani” in cui aveva ingerito un chiodo che gli risultò fatale.

Auto trapanazione

Fino a dove sareste disposti ad arrivare, pur di “ampliare la vostra coscienza”? Potreste scegliere la strada più lunga, la meditazione, lo yoga, lo zazen e via dicendo. Oppure potreste decidere di prendere la “scorciatoia” delle sostanze psicoattive, e cercare di “liberare la mente” attraverso lo yage o i funghetti mescalinici, o l’acido lisergico. Ma arrivereste mai al punto di prendere il vostro fido trapano Black&Decker a percussione, puntarvelo alla fronte e praticare un bel foro nel cranio, dal quale si possa vedere la dura mater che ricopre il cervello?

La trapanazione è stata praticata fin dal Neolitico. Era una pratica relativamente comune, con la quale si cercava di far “uscire” gli spiriti maligni dalla testa del malato. Secondo alcune interpretazioni dei dipinti rupestri, pare che i nostri antenati fossero convinti che praticare un foro nel cranio potesse curare da emicranie, epilessia o disordini mentali. L’intervento, popolare nelle aree germaniche durante il Medio Evo, sembra inoltre aver avuto un’alta percentuale di sopravvivenza – a giudicare dai bordi soffici dei fori sui teschi ritrovati, le ferite stavano cominciando a guarire:  sette persone su otto si riprendevano dall’operazione.

Flashforward al 1964. I tre protagonisti di questa storia si chiamano Bart, Amanda e Joseph.

Bart Huges, un giovane olandese che non aveva mai potuto finire gli studi di medicina per via del suo uso di stupefacenti, pubblica un incartamento underground intitolato Il meccanismo del Volume del Sangue al Cervello, conosciuto anche come Homo Sapiens Correctus. In questo piccolo, psichedelico saggio Huges parla di come il cervello del bambino sia così ricettivo perché le ossa del cranio sono elastiche e la fontanella alla cima della testa permette al cervello di “respirare”, ossia di sostenere la pressione del sangue proveniente dal cuore con una sua propria “pulsazione”. Crescendo, però, la fontanella si salda e le ossa si solidificano. Il nostro cervello rimane così rinchiuso in una vera e propria prigione. Praticando un foro nel cranio, si allenta la pressione del cervello e lo si libera, dandogli uno sfogo per “respirare” e rendendo possibile una sorta di sballo permanente, oltre che un ampliamento della coscienza senza precedenti. Bart Huges praticò su se stesso la trapanazione, l’anno successivo, nel 1965. L’operazione durò 45 minuti, ma per togliere il sangue dai muri occorsero 4 ore.

Con le sue bende che coprivano l’impressionante foro, praticato all’altezza del terzo occhio, Bart Huges divenne il guru della trapanazione, auspicando che tutti gli ospedali la praticassero gratuitamente, e arrivando a opinare che in un futuro non troppo lontano il buco in testa venisse praticato a tutti, a una certa età, per creare un’umanità evoluta e sensitiva.

Ora, penserete, in un mondo normale nessuno darebbe credito a un guru di questo tipo, e soprattutto alle sue fantasticherie pseudoscientifiche. Ma questo non è un mondo normale, e men che meno lo era quello dei favolosi Sixties, in cui la liberazione della mente era uno degli scopi principali dell’esistenza, assieme al libero amore e alla musica rock. Huges cominciò con il farsi un adepto, Joseph Mellen, un hippie piuttosto fatto che però ebbe il merito di fargli conoscere Amanda Feilding. Fra i due scoccò subito la scintilla della passione. Bart e Amanda convinsero il povero Joseph a trapanarsi – ma se Bart aveva usato un trapano elettrico, Joseph avrebbe dovuto usare un trapano a mano, “per convincere le autorità che anche le popolazioni del terzo mondo avrebbero potuto godere della tecnica”. Joseph, che aveva forse poca personalità ma di certo molta buona volontà, provò a bucarsi la testa con quel trapano, senza riuscirvi, forse anche a causa della quantità impressionante di LSD che si era calato per “calmare i nervi”.

Mellen ci riprovò per altre quattro volte, nell’arco dei quattro anni successivi, talvolta assistito da Amanda (che aveva nel frattempo lasciato Bart, e si era sposata con lui). Una volta, ancora strafatto di LSD, si era trapanato fino a svenire ed essere ricoverato d’urgenza. Un’altra volta aveva sentito “un sacco di bolle corrermi dentro la testa”, ma visto che l’estasi prevista non arrivava, aveva concluso che  il buco praticato doveva per forza essere troppo piccolo. Un’altra volta si ruppe il trapano, Joseph dovette interrompere l’operazione a metà, andare a chiedere a un vicino di riparargli l’utensile, e poi riprendere il “lavoro”. Infine, dopo tanti tentativi tragicomici, Mellen riuscì ad ottenere il suo bel buco, e il più grande e potente sballo della sua vita (a suo dire). Amanda, imparando dagli errori del marito, decise tre mesi dopo di tentare anche lei.

Filmata da Joseph, la sua fu un’operazione sopraffina, e divenne ben presto un filmato d’arte underground che ancora oggi pochi hanno avuto la fortuna (?) di vedere: Heartbeat In The Brain (1970). Il filmato, esplicito e duro, ebbe una certa eco negli ambienti artistici nei quali la Feilding era conosciuta.

Amanda Feilding è sempre stata più ambigua sul risultato della sua auto trapanazione; ha continuato a sostenerne gli effetti benefici con strenua convinzione, ma ha anche spesso sottolineato la “soggettività” delle sue posizioni. (A onor del vero, bisogna sottolineare che nessuno di questi ferventi fautori della trapanazione ha mai sostenuto l’auto trapanazione: vi sono arrivati dopo che nessun chirurgo si era prestato a soddisfare le loro richieste).

Dopo vent’otto anni assieme e due figli, Mellen e Fielding si separarono. Risposati, ognuno di loro convinse il rispettivo nuovo coniuge a farsi trapanare. In tutto, le persone trapanate al mondo dovrebbero essere circa una ventina. Fino a qualche anno fa era attiva anche una Church Of Trepanation, con sede in Messico, che proponeva per un modico prezzo una trapanazione operata da un chirurgo messicano compiacente. Oggi si è trasformata in un più sobrio Gruppo per la Trapanazione, con un sito ad appoggio delle teorie in favore di questa pratica.

Per saperne di più:

Trapanazione su Wikipedia (inglese) – Intervista-racconto ad Amanda Feilding – il documentario A Hole in The Head

L’uomo che insegnò al suo buco del culo a parlare

Tratta dal Pasto Nudo, eccovi una delle routine di Burroughs più celebri, e una delle meglio riuscite nel delicato equilibrio fra grottesco, osceno, ironico e drammatico. Si tratta di una rivisitazione omosessuale del mito della vagina dentata, già affrontata su questo blog. Buona lettura.

L’uomo che insegnò al suo buco del culo a parlare

Dr. Benway: “Perché non un blob per tutti gli usi? Ti ho mai raccontato dell’uomo che insegnò al proprio buco del culo a parlare? Il suo intero addome si muoveva su e giù, capisci, scoreggiando parole. Come nient’altro che avessi mai sentito.

“Questa voce dal culo aveva una specie di frequenza intestinale. Ti colpiva laggiù come quando devi andare di corpo. Hai presente quando il buon vecchio colon ti dà di gomito, e senti quella specie di freddo dentro, e sai che tutto quello che puoi fare è correre a liberarti? Be’ questa voce ti beccava proprio laggiù, un gorgogliante, denso suono stagnante, un suono che potevi odorare.

“Questo tizio lavorava in un luna park, capisci, e a prima vista sembrava una specie di innovativo spettacolo da ventriloquo. Anche divertente, all’inizio. Faceva un numero intitolato “Il buco migliore”, che era un portento, te lo assicuro. L’ho dimenticato quasi del tutto, ma era brillante. Cose tipo, “Sei ancora lì sotto, vecchio mio?” “No! Sono dovuto andare di corpo”.

Dopo un po’ il buco del culo cominciò a parlare per conto suo. Lui saliva sul palco senza aver preparato nulla, e il suo culo improvvisava e gli restituiva le battute ad ogni colpo.

“Poi gli spuntarono delle specie di piccoli uncini incurvati, che raspavano come denti, e cominciò a mangiare. All’inizio lui pensò che fosse carino, e ci imbastì sopra un numero, ma il buco del culo si faceva strada mangiando attraverso i suoi pantaloni, e si metteva a parlare per strada, urlando che voleva parità di diritti. Si ubriacava, anche, e aveva certe sbornie tristi in cui frignava che nessuno lo amava, e che voleva essere baciato proprio come ogni altra bocca. Alla fine parlava sempre, giorno e notte, potevi sentire da isolati di distanza che lui gli gridava di stare zitto, e lo picchiava con il pugno, ci ficcava su le candele, ma non serviva a niente e il buco del culo ribatteva: ‘Sei tu che starai zitto, alla fine. Non io. Perché non abbiamo più bisogno di te, qui attorno. Posso parlare e mangiare e cacare‘.

“Poco dopo lui cominciò a svegliarsi la mattina con una gelatina trasparente come la coda di un girino sulla bocca. Questa gelatina era quella che gli scienziati chiamano T.n-D., Tessuto non Differenziato, che può crescere trasformandosi in qualsiasi tipo di carne su un corpo umano. Lui la strappava dalla bocca e i lembi gli rimanevano attaccati alle mani come nafta incendiata e lì crescevano, crescevano in ogni punto in cui cadeva una goccia. Quindi alla fine la sua bocca restò sigillata, e la sua intera testa si sarebbe amputata spontaneamente — (sai che c’è una malattia che attecchisce in alcune parti dell’Africa e solo tra popolazioni di colore, che porta alla caduta spontanea del mignolo del piede?) — se non fosse stato per gli occhi, capisci. L’unica cosa che il buco del culo non poteva fare era vedere. Aveva bisogno degli occhi. Ma le connessioni nervose erano bloccate e infiltrate e atrofizzate così che il cervello non potesse più dare ordini. Era intrappolato nel cranio, sigillato dentro. Per un po’ si poteva vedere la silenziosa, disperata sofferenza del cervello dietro gli occhi, poi infine il cervello deve essere morto, perché gli occhi si spensero… e in loro non c’era più sentimento di quanto ve ne sia nell’occhio di un granchio sulla punta d’una antenna”.

Il buco in faccia

Ecco un anziano signore che (probabilmente come effetto postumo di un’asportazione chirurgica) è rimasto con un impressionante foro al posto dell’occhio sinistro; il buco rende possibile vedere perfino il nervo ottico.

E, se ve lo state chiedendo, sì, è ancora in grado di farsi una doccia.

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