The mysterious artist Pierre Brassau

In 1964 the Gallerie Christinae in Göteborg, Sweden, held an exhibition of young avantgarde painters.
Among the works of these promising artists from Italy, Austria, Denmark, England and Sweden, were also four abstract paintings by the french Pierre Brassau. His name was completely unknown to the art scene, but his talents looked undisputable: this young man, although still a beginner, really seemed qualified to become the next Jackson Pollock — so much so that since the opening, his paintings stole the attention from all other featured works.

Journalists and art critics were almost unanimous in considering Pierre Brassau the true revelation of Gallerie Christinae’s exhibit. Rolf Anderberg, a critic for the Posten, was particularly impressed and penned an article, published the next day, in which he affirmed: “Brassau paints with powerful strokes, but also with clear determination. His brush strokes twist with furious fastidiousness. Pierre is an artist who performs with the delicacy of a ballet dancer“.

As should be expected, in spite of the general enthusiasm, there was also the usual skeptic. One critic, making a stand, defiantly declared: “only an ape could have done this“.
There will  always be somebody who must go against the mainstream. And, even if it’s hard to admit, in doing so he sometimes can be right.
Pierre Brassau, in reality, was actually a monkey. More precisely a four-year-old African chimpanzee living in the Borås Zoo.

Showing primate’s works in a modern art exhibition was Åke “Dacke” Axelsso’s idea, as he was at the time a journalist for the daily paper Göteborgs-Tidningen. The concept was not actually new: some years before, Congo the chimp  had become a celebrity because of his paintings, which fascinated Picasso, Miro and Dali (in 2005 Congo’s works were auctioned for 14.400 punds, while in the same sale a Warhol painting and a Renoir sculpture were withdrawn).
Thus Åke decided to challenge critics in this provocative way: behind the humor of the prank was not (just) the will to ridicule the art establishment, but rather the intention of raising a question that would become more and more urgent in the following years: how can we judge an abstract art piece, if it does not contain any figurative element — or if it even denies that any specific competence is needed to produce art?

Åke had convinced the zoo keeper, who was then 17 years old, to provide a chimp named Peter with brushes and canvas. In the beginning Peter had smeared the paint everywhere, except on the canvas, and even ate it: he had a particularly sweet tooth, it is said, for cobalt blue — a color which will indeed be prominently featured in his later work. Encouraged by the journalist, the primate started to really paint, and to enjoy this creative activity. Åke then selected his four best paintings to be shown at the exhibit.

Even when the true identity of mysterious Pierre Brassau was revealed, many critics stuck by their assessment, claiming the monkey’s paintings were better than all the others at the gallery. What else could they say?
The happiest person, in this little scandal, was probably Bertil Eklöt, a private collector who had bought a painting by the chimpanzee for $90 (about $7-800 today). Perhaps he just wanted to own a curious piece: but now that painting could be worth a fortune, as Pierre Brassau’s story has become a classic anecdote in art history. And one that still raises the question on whether works of art are, as Rilke put it, “of an infinite solitude, and no means of approach is so useless as criticism“.


The first international press article on Brassau appeared on Time magazine. Other info taken from this post by Museum of Hoaxes.

(Thanks, Giacomo!)

Mary Toft

Il 19 novembre 1726 un breve ma insolito articolo apparve sul Weekly Journal, giornale inglese:

“Da Guildford ci arriva una strana ma ben testimoniata notizia. Che una povera donna che vive a Godalmin, vicino alla città, è stata il mese scorso aiutata da Mr. John Howard, Eminente Chirurgo e Ostetrico, a partorire una creatura che assomigliava ad un coniglio, ma con cuore e polmoni cresciuti fuori dal torace, 14 giorni dopo che lo stesso medico le aveva fatto partorire un coniglio perfettamente formato; e pochi giorni dopo, altri 4; e venerdì, sabato e domenica, un altro coniglio al giorno; e tutti e nove morti vedendo la luce. La donna ha giurato che due mesi fa, lavorando in un campo con altre donne, incontrarono un coniglio e lo rincorsero senza un motivo: questo creò in lei un desiderio così forte che (essendo incinta) abortì il suo bambino, e da quel momento non è capace di evitare di pensare ai conigli”.

Letta così sembra una di quelle leggende scaturite dall’idea, diffusa all’epoca, che qualsiasi cosa impressionasse la mente di una donna incinta (un sogno, o un animale veduto durante la gravidanza) poteva marchiare in qualche modo anche il feto, dando origine a difetti di nascita. Eppure questa storia si sarebbe presto tramutata in uno dei più grossi scandali medici degli albori.

La donna dell’articolo era Mary Toft, contadina di 24 o 25 anni, sposata e con tre figli. Come tutte le compaesane, Mary non aveva smesso il lavoro nei campi con la gravidanza; e quando, nell’agosto precedente, aveva avvertito dei dolori al ventre, si era accorta con orrore di aver espulso dei pezzi di carne. Poteva forse essere un aborto, ma stranamente la gravidanza continuò e quando il 27 settembre Mary partorì, uscirono soltanto delle parti che sembravano animali. Questi resti vennero inviati a John Howard, il medico citato nell’articolo, che inizialmente si dimostrò scettico. Si recò ciononostante a visitare Mary Toft ed esaminandola non trovò nulla di strano; eppure nei giorni successivi le doglie ricominciarono, e nuove parti di animali continuarono a essere espulse dall’utero della donna: gambe di gatto, gambe di coniglio, budella e altri pezzi di animali irriconoscibili.

A quel punto la storia stava cominciando a fare scalpore, anche perché la stampa esisteva da poco, ed era la prima volta che un caso simile veniva seguito contemporaneamente, “in diretta”, in tutta l’Inghilterra. Un altro chirurgo, Nathaniel St. André, si interessò al caso, e su ordine della Famiglia Reale si recò a Guildford, dove Howard aveva condotto Mary Toft offrendo a chiunque dubitasse della storia di assistere a uno degli straordinari parti. Nel frattempo la donna aveva infatti dato alla luce altri tre conigli, non completamente formati, che apparentemente scalciavano nell’utero prima di morire e venire espulsi.

St. André, arrivato a Guildford, potè quindi investigare il caso direttamente e restò impressionato: il 15 novembre, nel giro di poche ore, Mary Toft partorì il torso di un coniglio. St. André esaminò il torso, immerse i polmoni in acqua per vedere se l’animale avesse respirato aria (e infatti i polmoni galleggiavano) ed esaminò accuratamente la donna. La sua diagnosi fu che i conigli si sviluppavano sicuramente all’interno delle tube di Falloppio. Nei giorni seguenti dall’utero della donna uscirono un altro torso, la pelle di un coniglio e, pochi minuti dopo, la testa.

Il re Giorgio I, affascinato dalla storia, decise di inviare un altro medico a Guildford: si trattava di Cyriacus Ahlers – e questa fu la svolta. Ahlers, infatti, era segretamente scettico sull’intera vicenda, e tenne gli occhi ben aperti. Non trovò segni di effettiva gravidanza sulla donna, ma anzi notò una cosa piuttosto sospetta: prima dei famosi parti, la donna sembrava stringere le ginocchia come per impedire che qualcosa cadesse. Ahlers cominciò a dubitare anche di Howard, l’ostetrico, che si rifiutava di lasciare che fosse Ahlers ad assistere la donna durante le contrazioni. Non lasciò trapelare i suoi dubbi, ma disse a tutti i presenti di credere alla storia, e con una scusa lasciò Guildford, portando con sé alcuni pezzi di coniglio. Esaminandoli con più cura, scoprì che sembravano essere stati macellati con uno strumento da taglio, e notò tracce di grano e paglia nei loro intestini, come se provenissero da un allevamento. Riportò tutto questo al Re e in poco tempo lo scandalo esplose.

Mary fu portata a Londra e alloggiata in carcere, per ulteriori esami, e nella comunità scientifica si formarono immediatamente due fazioni: da una parte gli scettici, Ahlers in prima linea; dall’altra Howard e St. André, che erano convinti sostenitori della genuinità dei prodigiosi eventi. La stampa diede eccezionale risonanza al dibattito e le cose precipitarono quando un inserviente della prigione ammise di essere stato corrotto dalla cognata di Mary Toft affinché introducesse un coniglio nella cella della donna.

Il 7 dicembre, dopo essere stata esaminata da decine di medici e sottoposta ad estenuanti interrogatori e alle minacce di una dolorosa operazione chirurgica, Mary Toft cedette e confessò: era stata tutta una truffa. Dopo il suo aborto spontaneo, quando la cervice era ancora dilatata, aveva con l’aiuto di un complice inserito nell’utero le zampe e il corpo di un gatto, e la testa di un coniglio. In seguito,  le parti di animali erano state posizionate più esternamente, nella vagina. Mary Toft venne immediatamente incarcerata con l’accusa di “vile truffa e impostura”. Anche i diversi medici implicati, Howard e St. André su tutti, vennero citati in tribunale e a loro discolpa si dichiararono all’oscuro della frode.

Ma lo smascheramento dell’inganno fu una bomba soprattutto per l’immagine della medicina nell’opinione pubblica: articoli satirici apparvero in ogni giornale, prendendosi beffa della credulità dei chirurghi implicati nel caso, e dei medici tout court. Le ballate popolari si incentrarono immediatamente sui dettagli più volgari della vicenda e le barzellette si affollarono di conigli maliziosi e grandi luminari della scienza fatti fessi da una contadina. La risonanza fu internazionale e persino Voltaire, dalla Francia, indicò il caso di Mary Toft come un esempio di quanto gli Inglesi protestanti fossero influenzati da una Chiesa ignorante e da antiche superstizioni.
La professione sanitaria venne talmente danneggiata in poco tempo che decine e decine di medici cercarono disperatamente di dichiararsi estranei ai fatti o di provare che erano stati fin dall’inizio scettici sul caso. Molte carriere vennero stroncate dall’abbaglio preso, e altre ci misero lustri a riprendersi dal tonfo.

La folla stazionava davanti alla prigione in cui Mary Toft era rinchiusa, nella speranza di vederla anche solo di sfuggita. Nel 1727 Mary fu liberata e tornò a casa. Da allora di lei si seppe poco, se non che ebbe una figlia e qualche altro piccolo guaio con la legge, fino alla sua morte nel 1763. Ma nonostante questo suo forzato “ritiro” dalle scene, il suo nome visse ancora a lungo nelle canzoni, e venne immancabilmente rispolverato ogni volta che i grandi geni della scienza facevano un clamoroso, ridicolo passo falso.

Il Gigante di Cardiff

In quel tempo c’erano sulla terra i giganti,
e ci furono anche di poi,
quando i figliuoli di Dio si accostarono
alle figliuole degli uomini,
e queste fecero loro de’ figliuoli.
(Genesi, 6:4)

Era il 1868. Il tabaccaio George Hull era ateo, e non sopportava quei cristiani fondamentalisti che prendevano la Bibbia alla lettera. Così, dopo un’ennesima discussione esasperante con un suo concittadino convinto che nelle Sacre Scritture non vi potesse essere alcuna metafora, Hull decise che si sarebbe preso gioco di tutti i creduloni, e forse ci avrebbe anche fatto qualche soldo. Si preparò quindi a mettere in piedi quella che sarebbe stata ricordata in seguito come la “più grande burla della storia americana”.

George Hull acquistò un terreno ricco di gesso nello Iowa, e fece estrarre un grosso blocco di pietra squadrata. Con enormi difficoltà, riuscì a far spostare l’ingombrante fardello fino alla ferrovia, dichiarando che serviva per un monumento commissionatogli a Washington. Ma il blocco di gesso venne invece spedito a Chicago, a casa di Edwin Burkhardt, uno scultore di lapidi e busti funerari. Hull l’aveva infatti convinto a lavorare in segreto, con la promessa di un lauto pagamento, alla scultura che aveva in mente. Lo stesso George Hull fece da modello per quella strana statua di quattro metri e mezzo, e quando l’opera fu completa i due passarono sul gesso acidi, mordenti e agenti macchianti per “invecchiare” la scultura. Riuscirono addirittura a ricreare quelli che avrebbero dovuto essere scambiati per i pori della pelle.

Hull tornò quindi con il suo “gigante” a New York, dove lo seppellì dietro il fienile del suo amico e complice William “Stub” Newell.  Lasciarono passare un anno e poi, con la scusa che serviva un nuovo pozzo, pagarono una ditta di scavi per cominciare i lavori. Gli operai, ovviamente ignari, scoprirono l’incredibile statua, e già il pomeriggio seguente Hull e Newell avevano eretto una tenda attorno alla “tomba del gigante pietrificato” e chiedevano ai visitatori 25 centesimi per poter ammirare quella meraviglia. Cominciò un immenso passaparola, e il prezzo di entrata raddoppiò in poco tempo a 50 centesimi – una cifra altissima per l’epoca.

Il gigante di Cardiff divenne l’argomento dell’anno: politici, accademici e religiosi ne discutevano con fervore, e le teorie più assurde vennero proposte per spiegare l’enigma. Secondo alcuni il gigante era un missionario gesuita del 1500, secondo altri un indiano irochese Onondaga, ma per la maggioranza, come aveva sperato Hull, il gigante era la dimostrazione inconfutabile che ciò che era scritto nella Bibbia non era soltanto una verità spirituale, ma anche storica. Nemmeno la lettera, proveniente da Chicago, di uno sconosciuto scultore tedesco che affermava di aver preso parte alla beffa, convinse nessuno: erano certamente i vaneggiamenti di un pazzo. Un geologo dichiarò: “il gigante ha il marchio del tempo stampato su ogni arto e fattezza, in un modo e con una precisione che nessun uomo può imitare”.

Il gigante di Cardiff, cominciato come un costoso ed elaborato scherzo, stava diventando un business enorme: venne spostato a Syracuse, dove il prezzo del biglietto salì fino a 1 dollaro – più o meno 60 euro di oggi.

E qui entra in scena il geniale P. T. Barnum. Come sempre, appena fiutava odore di affari, il più grande showman di tutta l’America non si faceva scrupoli. Barnum offrì a Hull 50.000$ per portare in tour il gigante per tre mesi, ma Hull rifiutò. Barnum però non era certo tipo da darsi per vinto: riuscì a corrompere una guardia, e di notte fece intrufolare nella tenda un suo artigiano, che eseguì un calco in cera del gigante. Tornato a New York, ricavò dal calco in cera una copia in gesso, del tutto identica alla statua di Hull, per esporla nel suo museo.

Adesso c’erano quindi in giro ben due giganti! Cominciò una battaglia tragicomica, senza esclusione di colpi. Barnum dichiarò che il suo gigante era l’originale, che aveva comprato da Hull, e che quello di Hull era un falso. Hull denunciò Barnum per diffamazione. In tribunale, Hull ammise che il gigante era una burla, e la corte decise che Barnum non poteva essere ritenuto colpevole di aver dichiarato che il gigante di Hull era un falso, dato che lo era. Durante la disputa, un collaboratore di Hull pronunciò la celebre frase There’s a sucker born every minute (“Ogni minuto nasce un nuovo babbeo”), che sarebbe poi stata erroneamente attribuita a Barnum, e che riassume perfettamente una certa filosofia dello show-business.

E infatti i “babbei” non si fecero attendere. Il processo, paradossalmente, riaccese la curiosità del pubblico per “la grande burla del gigante di Cardiff”, e la folla ricominciò a pagare per vedere non più uno, ma due giganti, che su strade separate continuarono la loro carriera per molti anni, fruttando una fortuna sia a Hull che a Barnum. Se vi interessa sono ancora visibili. L’originale è esposto al Farmer’s Museum a Cooperstown, New York, mentre è possibile ammirare la copia di Barnum al Marvin’s Marvelous Mechanical Museum di Detroit. Ed entrambi valgono il prezzo del biglietto… se siete dei babbei.