L’effigie di Sarah Hare

Stow Bardolph è piccolo villaggio del Norfolk, in Inghilterra, che conta 1000 abitanti, quasi tutti contadini. Un turista che per caso si trovasse a passare per quelle piatte campagne disseminate di pecore non troverebbe nulla di particolarmente interessante da visitare nel minuscolo borgo, e finirebbe a rintanarsi di fianco al focolare nell’unico pub di Stow Bardolph, chiamato Hare Arms, che più che un pub è una tenuta, attorniato com’è da giardini in cui beccheggiano pavoni e galline.


Anche una visita alla chiesetta del paese, dedicata alla Trinità, potrebbe ad una prima occhiata rivelarsi deludente, visto l’interno spoglio e “povero”. Eppure, in un angolo, c’è uno strano armadietto chiuso. Chi l’ha aperto, giura che non scorderà più quel momento.


Avevo visto sue fotografie negli anni, da quando l’avevo scoperta a scuola, ma nulla mi avrebbe potuto preparare al brivido della porta dell’armadietto che si apriva. Allora ho capito il motivo di questa porta — lei è terrificante, il suo volto tozzo, verrucoso, lo sguardo sprezzante“, riporta un visitatore.


Ma chi è la donna ritratta nella scultura?
La macabra effigie in cera contenuta nell’armadietto è quella di Sarah Hare, morta nel 1744 all’età di 55 anni dopo che, secondo la leggenda, aveva osato cucire di domenica, nel giorno di riposo dedicato al Signore; si era quindi punta un dito, forse per punizione divina, soccombendo in seguito alla setticemia. A parte questo episodio, la sua vita non era stata per nulla eccezionale. Eppure il suo testamento, se da un lato ostentava una carità e una generosità notevoli, dall’altra includeva una strana disposizione: “Desidero che sei uomini poveri della parrocchia di Stow o Wimbotsham mi sotterrino, e ricevano cinque scellini per il servizio. Desidero che tutti i poveri di Alms Row abbiano due scellini e una moneta da sei penny ciascuno davanti alla mia tomba, prima che mi calino giù. […] Desidero che la mia faccia e le mie mani siano modellati in cera, con un pezzo di velluto color porpora quale ornamento sulla mia testa, e messi in una cassa di mogano con un vetro antestante, e che siano fissati a questo modo vicino al luogo dove riposa il mio cadavere; sul contenitore potranno essere incisi il mio nome e la data della mia morte nel modo che più si desidera. Se non riuscirò ad eseguire tutto questo mentre sono ancora in vita, potrà essere fatto dopo la mia morte”.


Non sappiamo se i calchi del volto e delle mani vennero eseguiti mentre Sarah Hare era ancora viva, oppure post-mortem: quello che è chiaro è che il suo testamento venne rispettato alla lettera. Possiamo immaginarci la solenne processione con cui il busto venne portato, nell’armadio di legno, fino alla cappella di famiglia che l’avrebbe infine ospitato per i secoli a venire.

Di sculture funebri in marmo che ritraggono il defunto è pieno il mondo, ma la statua in cera di Sarah Hare è l’unica di questo tipo in Inghilterra, se si escludono le effigi presenti nell’abbazia di Westminster. La cosa più straordinaria è l’ordinarietà del soggetto – una donna non celebre, né nobile, di certo non bella, che nella sua vita non diede alcun contributo particolare alla Storia.


Nel 1987 la statua venne restaurata da alcuni esperti che lavoravano anche per Madame Tussauds, assieme all’armadio che negli anni era stato attaccato dai roditori, e all’antica stoffa di velluto rosso ormai quasi distrutta. Oggi quindi l’immagine di cera resiste ancora, quasi 270 anni dopo la sua morte.

In questi 270 anni si sono avvicendati re e regine, l’impero Britannico è sorto e crollato, sono state combattute sanguinose guerre di dimensioni inaudite, il mondo e la vita sono cambiati radicalmente. Ma, in uno sperduto paesino di campagna, dietro un’anta di mogano, ancora non è finita la lunga, immobile e silenziosa veglia che Sarah Hare si è scelta come propria personale forma di immortalità.

Transi

Il transi (termine francese, da leggersi accentato) è una particolare scultura funeraria diffusasi prima in Francia e poi in Europa dal XIV° al XVII° Secolo.

Nel Medioevo non tutti potevano permettersi una lapide istoriata o addirittura un busto scolpito: era un privilegio costoso, riservato alle alte cariche ecclesiastiche, ai nobili, ai reali. Solitamente, quindi, sui monumenti funebri (chiamati gisant) e le lastre tombali medievali il defunto veniva rappresentato sereno, dal pacifico sorriso, e comunque vestito di abiti e corredi che identificavano e sottolineavano la sua condizione sociale. La morte, in questa rappresentazione classica derivante dalle effigi romane, non è molto più che un sonno ad occhi aperti, in cui il dormiente sembra già bearsi delle visioni ultraterrene che lo attendono.

Invece, a sorpresa, fra il 1300 e il 1400 in Francia cominciò ad apparire un nuovo tipo di rappresentazione, detto appunto transi, termine originario che gli studiosi hanno tratto dai documenti d’epoca in cui tali sculture venivano commissionate. Si tratta, come dice il nome, di sculture incentrate sulla “transitorietà”, sul passaggio dal mondo terreno dei vivi al Regno dei Cieli. Il corpo del defunto viene quindi spogliato di ogni orpello e segno di nobiltà e raffigurato come un cadavere in piena putrefazione, rinsecchito, dalla pelle lacerata e infestata di larve.

In alcuni casi, per marcare ancora meglio questa differenza, la parte alta del monumento funebre mostra il morto com’era in vita, con tanto di corone, armature o corredi sacri, mentre la parte bassa ci rivela la vanità di questi sfarzosi simboli di potere, nella forma di uno scheletro roso dai vermi.

Con il gusto del macabro tipico del tardo gotico, il transi è inteso come un vero e proprio memento mori, e agisce non soltanto come crudele simbolo della vanità dell’esistenza ma anche come vero e proprio strumento di conversione: non a caso la maggioranza di queste sculture sono ubicate all’interno delle chiese, a servire da contemplazione e ammonimento. Le iscrizioni sulle tombe recitano immancabilmente lo stesso appello all’umiltà e al pentimento: “sarai presto come me, orrido cadavere, pasto dei vermi” (tomba di Guillaume de Harcigny), “chiunque tu sia, verrai abbattuto dalla morte. Resta qui, stai in guardia, piangi. Io sono ciò che tu sarai, un mucchio di cenere. Implora, prega per me” (transi a Clermont in Val-D’Oise).

Alcuni transi vennero realizzati addirittura quando il soggetto ritratto non era ancora deceduto. Rimane interessante il monumento funebre ordinato da Caterina de’ Medici a Girolamo della Robbia, e mai completato: la rappresentazione del corpo della regina morta, con il capo riverso e il petto scheletrico e gonfio, venne probabilmente giudicato troppo atroce da Caterina stessa, che per adornare la propria tomba si orientò verso qualcosa di più “classico”.

Il transi marca una rottura importante nell’iconografia nel Medioevo, ed è un curioso indizio di come è cambiata la visione della morte attraverso il tempo. Nato in un secolo in cui guerra, carestia e peste avevano falcidiato la metà della popolazione, propone una rappresentazione realistica e senza sconti della caducità del corpo umano. Eppure, si tratta pur sempre di una effigie sacra, che sottintende un momento di passaggio da una realtà a quella successiva, e che va inteso come strumento di meditazione e preghiera. Se violenza c’è, in questa raffigurazione, non è nei confronti del defunto ma verso i vivi che contemplano la scena, per scuotere le coscienze e ricordare che la stessa sorte attende i poveri derelitti, così come i ricchi e potenti.

(Grazie, Edo!)