Archeologia misteriosa

OOPArts (Out of place artifacts) è l’acronimo che indica tutti quei manufatti la cui datazione risulta “impossibile” o anacronistica secondo la Storia dell’umanità così come viene accettata dalla comunità scientifica.

Normalmente, come sa bene chi ci segue, rifuggiamo dall’affrontare su queste pagine i “misteri da supermercato” come cerchi nel grano, alieni, fantasmi o profezie millenaristiche. Facciamo un’eccezione in questo caso, perché l’archeologia misteriosa è materia che non si rifà per forza e direttamente al paranormale, e pone invece domande e dubbi interessanti sulla nostra Storia, e su quanto conosciamo veramente di essa.

Secondo i sostenitori dell’esistenza di inspiegabili oggetti anacronistici, vi sarebbero alcuni indizi, ritrovati nei modi e nei posti più vari, che metterebbero in discussione la cronologia dell’evoluzione della specie umana accettata dalla storiografia ufficiale. Alcuni di questi dimostrerebbero ad esempio che gli uomini erano presenti contemporaneamente ai dinosauri: se questo fosse vero, andrebbe riscritta l’idea convenzionale che i primi ominidi siano apparsi sulla Terra 60 milioni di anni dopo l’estinzione dei grandi rettili. Altri proverebbero in maniera sconcertante che le civiltà antiche possedevano tecnologie avanzatissime. Ma quanto c’è di vero in tutto questo?

Anticitera

Uno degli esempi di OOPArts più interessanti (e che, a rigore, non è nemmeno un OOPArt, come vedremo) è senza dubbio il meccanismo di Antikythera. Nel 1900 un manipolo di pescatori di spugne si era rifugiato su un isolotto roccioso a cavallo fra mare Ionio ed Egeo, a seguito di una tempesta; sul fondale intorno all’isola scoprirono il relitto di una nave, naufragata nel I secolo a.C., e che trasportava oggetti di grande valore. Fra i tesori recuperati dal relitto, anche una scoperta che spiazzò la comunità scientifica: una macchina, corrosa e incrostata dai millenni passati sott’acqua, costituita da ruote ed ingranaggi di notevole complessità. Si tratta del più antico calcolatore meccanico conosciuto al mondo: veniva utilizzato per determinare il calendario solare, le fasi lunari, le eclissi, gli equinozi, e perfino le date dei giochi olimpici. La particolarità davvero unica del meccanismo è che include un tipo di ingranaggio studiato per computare la differenza fra il movimento della ruota che seguiva la posizione del sole e quella relativa alla posizione della Luna nello zodiaco. Questo ingranaggio è quello che in meccanica oggi chiamiamo differenziale, e venne brevettato ufficialmente soltanto nel 1827. Come facevano i Greci del I Secolo a.C. a possedere una scienza ingegneristica così progredita?

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La risposta degli storici è che questo meccanismo, per quanto sorprendentemente raffinato, si iscrive alla perfezione nelle conoscenze del tempo e non ha nulla di anacronistico. Che i popoli dell’area mediterranea fossero tecnologicamente avanzati è ben documentato, e di macchine ed automi abbondano i resoconti sugli inventori del tempo. Il planetario di Archimede è l’esempio che per primo viene in mente, ma anche il geniale Erone aveva progettato meccanismi pneumatici, distributori automatici a moneta relativamente simili a quelli odierni, automi teatrali e via dicendo. Del resto il numero dei corpi celesti del sistema solare rappresentati sul meccanismo di Antikythera riflette le conoscenze del tempo, raffigurando esclusivamente i cinque pianeti visibili ad occhio nudo.

Ciò che questo artefatto antico prova realmente è una verità che spesso sottovalutiamo, e cioè che le tecnologie possono andare perdute. Il progresso non è una linea in continua ascesa, ma può conoscere alti, bassi e addirittura dei momenti di involuzione: se una scienza viene dimenticata, ci possono volere millenni perché qualcun altro inventi o scopra nuovamente ciò che le generazioni più antiche conoscevano già.

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Per quanto intrigante, nella maggior parte dei casi l’anacronismo degli OOPArts sta esclusivamente nella mente di chi vuole vedercelo ad ogni costo. Prendiamo ad esempio il famigerato martello di London, trovato nell’omonima cittadina del Texas nel 1936 all’interno di un blocco di arenaria. Secondo Carl E. Baugh, che acquistò il martello intorno al 1983, la roccia che lo inglobava sarebbe databile fra i 500 e i 300 milioni di anni. Baugh, creazionista convinto, esibisce l’utensile come prova di una tecnologia antecedente al Diluvio Universale. Peccato però che il proprietario non permetta che sul misterioso martello vengano svolte analisi approfondite, fatto quantomeno sospetto. Lo stesso Baugh, poi, è in possesso di un vaso in metallo che sarebbe stato ritrovato all’interno di un blocco di carbone vecchio di 300 milioni di anni. Anche per questo artefatto è stata applicata la stessa politica di riserbo e segretezza nei confronti degli scienziati che richiedono di esaminare il reperto.

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Il problema degli OOPArts ritrovati nella roccia, a cui Baugh non vuole dare credito, è che una spiegazione per questi “misteri” archeologici esiste già.

La coppa è in ghisa, e la tecnologia della ghisa cominciò nel XVIII secolo. Il suo design è molto simile ai vasi usati per contenere metalli fusi e può essere stato usato da un lattoniere, uno stagnino o una persona che forgiava proiettili… la coppa è stata probabilmente gettata da un operaio dentro una miniera di carbone oppure nel cantiere di superficie della miniera. La mineralizzazione è comune nel carbone e nei sedimenti attorno alle miniere di carbone perché l’acqua piovana reagisce con i minerali esposti, e produce soluzioni altamente mineralizzate. Carbone, sedimenti e rocce si cementano assieme nel giro di pochi anni. Può capitare facilmente che il vaso, cementato in una simile concrezione, sembri incastonato nel carbone.

(Mark Isaac, 2005, citato in questo articolo)

Anche il martello di London ha una forma simile a quelli utilizzati nelle miniere americane nel XIX secolo; ed è probabile, se vogliamo credere alle storie sul suo ritrovamento, che una soluzione di limo e sedimenti si siano solidificati attorno all’artefatto – proprio come altrove è successo anche per oggetti risalenti soltanto alla Seconda Guerra Mondiale.

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Ancora Baugh, assieme ad altri creazionisti, continua inoltre ad affermare che a Paluxy, Texas, esisterebbero delle serie di orme umane impresse nella pietra proprio di fianco ad orme di dinosauro. Ecco la prova che Dio ha creato tutto il mondo assieme, in una sola volta, come afferma la Bibbia, e che la teoria dell’evoluzione delle specie è smentita!
I paleontologi hanno però riconosciuto le presunte impronte “umane” come in realtà appartenenti anch’esse a dinosauri; il solco impresso dal metatarso della zampa del rettile sarebbe stato addolcito dall’infiltrazione di fango, alterando la forma dell’impronta e dandole un’apparenza vagamente simile ad un piede.

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C’è da dire che perfino la maggior parte dei creazionisti evita ormai di parlare di OOPArts, rendendosi conto della dubbia provenienza di questi indizi e temendo una “figuraccia” poco dignitosa, in caso di smentita. D’altronde è davvero lunga la lista dei falsi storici, e dei misteri pseudo-fanta-archeologici che la scienza ha archiviato come tranquillamente e convincentemente spiegati: dalle mappe, fra cui la celebre di Piri Reis, che mostrerebbero conoscenze geografiche impossibili per l’epoca, ai teschi di cristallo precolombiani, dal geode di Coso al papiro di Tulli che descrive avvistamenti di UFO nell’antico Egitto, dalle sfere metalliche di Klerksdorp alle pietre di Ica, che si scoprirono essere in realtà prodotte dagli abitanti del luogo per venderle agli archeologi; dall’elicottero e il carro armato incisi in bassorilievo nel tempio egiziano di Abydos, alla straordinaria città sommersa che negli anni ’60 venne scoperta negli abissi di Bimini, rinfocolando il mito di Atlantide… e che probabilmente tutto era fuorché una città.

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Certo, nello studio delle vicende umane rimangono molti enigmi e punti oscuri che gli storici, gli archeologi, i paleontologi e gli etnografi devono ancora dissipare: forse è naturale che il fascino esercitato dalle civiltà più remote e ormai scomparse catturi anche chi non è addetto ai lavori e, talora, spinga qualcuno a improvvisarsi “esperto” e a formulare bislacche teorie. Va riconosciuto che l’idea di un artefatto “fuori posto” o “fuori dal tempo”, che d’un solo colpo smentisca tutto ciò che sappiamo del passato, è un concetto estremamente poetico.
Ma, come dimostra il meccanismo di Antikythera, le sorprese che la Storia ci riserva non hanno forse bisogno d’altro, e sono spesso più che sufficienti a regalarci la più profonda meraviglia.

(Grazie, Sara!)

L’amore che non muore

La strana e incredibile storia di Carl Tanzler è divenuta nel tempo una sorta di macabra leggenda urbana, ma è accaduta realmente: è una storia di amore, devozione, ossessione maniacale e morte.

Carl Tanzler (soltanto uno dei suoi molti nomi, Conte Carl von Cosel essendo il secondo più celebre) nacque a Dresda nel 1877. Spostatosi a Zephryhills, Florida, nel 1927, divenne radiologo allo U.S. Marine Hospital a Key West. Sua moglie e le sue due figlie lo raggiunsero qualche anno più tardi.

Tanzler era stato affidato al reparto tubercolotici, che in quegli anni era davvero un brutto spettacolo. La maggior parte dei suoi nuovi amici americani erano pazienti, e Tanzler fu costretto a vederli morire uno ad uno a causa della terribile malattia. I medici che lavorano in reparti simili cercano di “desensibilizzarsi” al fine di mantenere la propria integrità mentale; Tanzler però era tenero di cuore, e pare che ogni volta che un paziente non ce la faceva, egli soffrisse duramente. Il medico tedesco non era inoltre propriamente stabile a livello psicologico. Sempre pronto a inventarsi nuove fantasiose cure, si fregiava di aver ricevuto fantomatici premi e onorificenze  – che portarono in seguito a dubitare che avesse perfino un’autentica laurea in medicina.

Carl sosteneva inoltre di essere spesso visitato in sogno da una sua ava defunta, la Contessa Anna Costantia von Cosel, che immancabilmente gli mostrava una bellissima, esotica donna, dicendogli che lei e nessun’altra sarebbe stata il suo grande amore.

Seppur sposato con figli, Tanzler finì nell’aprile del 1930 per incontrare quella splendida donna vista in sogno: si trattava di Elena Milagro “Helen” de Hoyos, 22 anni, una bellezza incomparabile, e gravemente malata. La tubercolosi le aveva portato via tutti i famigliari più stretti, e Tanzler decise che l’avrebbe salvata ad ogni costo. Con il consenso della famiglia, cominciò ad utilizzare metodi non ortodossi e non testati per curare la sua Elena, intrugli di erbe e terapie a raggi X. Nel frattempo, si era dichiarato a lei, manifestandole il suo amore, sommergendola di regali, ma la giovane Elena non ne voleva sapere. Malgrado tutto, Carl sperava che la giovane l’avrebbe amato se lui fosse riuscito a salvarle la vita.

Nel 1931, nonostante i suoi ossessivi sforzi, Elena, il suo unico grande amore, morì. Carl, sempre con il consenso della famiglia (al corrente della sua infatuazione), le costruì un mausoleo sopraelevato, per paura che l’umidità del terreno potesse intaccare il suo corpo. Ogni giorno si recava al cimitero a trovarla, e la famiglia di Elena era commossa dall’affetto dimostrato dal dottore per la giovane. Quello che non sapevano, però, è che l’ossessione di Tanzler stava prendendo una brutta piega.

Ogni notte Carl si introduceva nel mausoleo, e sottoponeva il cadavere della ragazza a ripetuti trattamenti di formaldeide per cercare di mantenere il corpo incorrotto. Si sdraiava di fianco a lei, parlava con lei per ore. Ad un certo punto installò perfino un telefono, per poterla chiamare durante il giorno e illudersi di comunicare con la sua Elena. Il fantasma della fanciulla lo visitava ogni notte, chiedendogli di portarla via da quella tomba.

Nel 1933 Carl fece appunto questo: trafugò la salma, e la portò a casa. Elena era morta da due anni a questo punto, e Tanzler lottò furiosamente contro il decadimento del suo corpo, utilizzando una marea di preservanti, vuotando una dopo l’altra bottiglie di profumo per nascondere l’odore della carne marcescente. Nonostante l’inevitabile putrefazione avanzasse veloce, Carl cercava di figurarsi un felice rapporto di coppia, parlando con il cadavere, improvvisando per lei romantiche canzoni d’amore all’organo (di cui era un dotato suonatore).

Mano a mano che la decomposizione progrediva, i suoi metodi divenivano più estremi. Cominciò ad usare corde di pianoforte per legare assieme le ossa che si staccavano. Quando gli occhi di Elena si decomposero, li sostituì con occhi di vetro. Quando la sua pelle si ruppe e cadde a pezzi, la rimpiazzò con una strana miscela di sua invenzione, seta imbevuta di cera e gesso. Gli organi interni collassarono, e lui riempì le cavità con stracci per mantenerne la forma. I capelli caddero, e lui ne fece una parrucca. Ad ogni stadio di decomposizione, Carl tentava di bloccare l’immagine di Elena, ma il risultato era che la ragazza stava divenendo sempre più una rozza e grottesca caricatura di ciò che era stata un tempo, una macabra bambola in putrefazione. Secondo alcune testimonianze, sembra che Tanzler avesse anche inserito un tubo di carta al posto delle parti intime, come sostituto della vagina durante i rapporti sessuali. In realtà, nei rapporti dell’epoca non si fa menzione di questo dettaglio, ed è plausibile pensare che il rapporto fra lui ed Elena fosse di tipo squisitamente (!) platonico.

Nel 1940, nove anni dopo la morte di Elena, la sorella di quest’ultima sentì delle voci riguardanti le strane abitudini di Tanzler. Si recò a casa sua, dove trovò quel che restava del cadavere di Elena, ancora vestita nei suoi abiti. Tanzler fu arrestato, ma i reati commessi erano già caduti in prescrizione e lui non fu mai punito per ciò che aveva fatto.

Tutti i giornali parlarono di questa storia, ma stranamente l’opinione pubblica si schierò dalla parte di Tanzler. La sua ostinata corsa contro l’inevitabile in qualche modo commosse e toccò il cuore degli americani; certo, egli era un maniaco ossessivo, illuso di poter preservare un amore che non era nemmeno mai esistito… ma la gente intuì che al di là degli aspetti più macabri e morbosi della notizia, vi era qualcosa di più. Sotto la patina di sordida necrofilia, la vicenda di Tanzler era fin troppo umana. Il medico tedesco si era aggrappato con le unghie e con i denti a ciò che amava di più al mondo, rifiutando di lasciare che sparisse nelle nebbie del tempo.

L’ossessione di Carl non finì quando gli portarono via i suoi affezionati resti. Ormai l’idea del suo amore aveva prevalso su qualsiasi realtà. Usò la maschera funebre della sua amata per costruire una bambola con le sue fattezze. Scrisse un’autobiografia, e passò i suoi ultimi anni mostrando il bambolotto ai curiosi e raccontando infinite volte la sua incredibile storia. Morì nel 1952, fu trovato accasciato dietro uno dei suoi organi.

Ma la leggenda esige un altro finale: secondo molti resoconti, il suo corpo fu trovato fra le braccia della sua bambola con il viso di Elena Hoyos.