Reportage Bizarre

Quest’anno al Festival di Cannes il cinema italiano emergente è stato ben rappresentato da un cortometraggio intitolato Lievito madre, che si è aggiudicato il terzo premio fra i sedici corti presenti nella sezione Cinéfondation, dedicata alle scuole di cinema del mondo. Si tratta del saggio di diploma del giovane regista e fumettista romano Fulvio Risuleo, 23 anni, realizzato all’interno del prestigioso Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.

Lievito madre racconta il più classico dei triangoli – lui, lei, l’altro; eppure la vicenda acquista toni fantastici e grotteschi in quanto l'”altro” non è in questo caso umano, bensì fatto di acqua, farina e lievito… e dotato di una sua particolare “vitalità”.

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Prima di Lievito madre, Risuleo aveva diretto nel 2013 il cortometraggio Ghigno sardonico, che prende spunto dalle tecniche di ascolto della presunta “voce delle piante” negli anni ’70 (ne avevamo parlato in questo articolo) per arrivare a un violento e comico climax.


Se già questi primi cortometraggi dimostrano uno spiccato gusto per il surrealismo, Fulvio Risuleo conferma la propria idea di cinema con il suo ultimo lavoro, intitolato Reportage Bizarre.

Si tratta di un progetto cinematografico per il web, girato nella più totale indipendenza produttiva e creativa, che si propone di esplorare una Parigi inconsueta e sconosciuta. Reportage Bizarre è composto di 20 diversi video-frammenti che lo spettatore seleziona “alla cieca”: il percorso casuale può inizialmente far sembrare il tutto una sorta di disorganico archivio di found footage, finché non si cominciano a notare alcuni personaggi ed oggetti che ricorrono con frequenza sempre maggiore, costruendo diverse, intriganti linee narrative.
Un misterioso uomo claudicante che compare in diversi punti della città, un investigatore alla ricerca di un assassino, una ragazza con un cerotto blu sulla fronte che si ritrova alla fine di una relazione sentimentale, l’onnipresenza del durian (frutto esotico di cui avevamo parlato qui), strani dinosauri-giocattolo di plastica rosa che spuntano nei momenti più inaspettati, una setta di artisti underground con un’ossessione segreta… a poco a poco si delinea un affresco misterioso e per certi versi lynchiano, in cui Parigi disvela il suo volto simbolico sommerso.

Ecco la nostra intervista a Fulvio Risuleo.

Innanzitutto, com’è andata a Cannes?

I francesi mi hanno accolto bene. È stato bello vedere centinaia di persone alle proiezioni e rispondere alle domande dei curiosi. Cannes è un gran festival perché ha in sé la cultura ufficiale e le ricercatezze di nicchia; il tutto presentato con la stessa importanza e visibilità.

Quale tipo di cinema ti interessa?

A me interessa il cinema con delle idee in grado di mostrare la realtà in maniera diversa. Se per realtà si intende la vita di tutti i giorni. Quando mi capita di pensare una storia, alla fine succede che contiene sempre qualche elemento surreale o strano. Non ci posso fare nulla. Quello che mi sforzo di fare è renderlo più credibile possibile per poter arrivare meglio nella testa dello spettatore.

Puoi parlarci dei tuoi referenti (letterari, artistici, cinematografici)?

Le idee sono alimentate per lo più dal quotidiano. La lingua italiana è piena di elementi figurati che sono miniere di storie. Aprono molto la testa… ecco, per esempio, già la frase “aprono molto la testa” dimostra come un’espressione figurata possa suggerire un’idea splatter. Altre ispirazioni me le danno i mostri, quelli dentro di noi e quelli che ci sono da sempre e vivono liberi nel mondo esterno. In più, tutte le volte che qualcuno mi dice “non sai che mi è successo oggi”, oppure “ma lo sai cosa ho letto ieri”, ecco, tutti i racconti che seguono mi ispirano molto.
Credo che anche Roland Topor ragionasse così, e lui è un artista che stimo e studio.

Da dove nasce il tuo evidente interesse per l’assurdo e il bizzarro? Come lo coltivi?

Ignoro da dove nasca. Quello che so è che spesso con un’idea bizzarra, assurda, si possono affrontare questioni difficili da mostrare realisticamente. Spesso si riesce ad essere anche meno retorici con un’immagine o un suono che appartiene al mondo dell’insolito. Sicuramente è un bel modo per essere universali, perché tutti sognano, tutti hanno fobie, tutti hanno dei feticci. A patto che anche nell’idea più strana si possa trovare intimità e calore.

Come è nata l’idea di Reportage Bizarre? E come sei riuscito a realizzarlo?

Dopo tre anni di Centro Sperimentale di Cinematografia passati a esercitarmi con corti cinematografici professionali, ma dal processo creativo abbastanza lento, volevo fare qualcosa di completamente diverso. Tanti motivi mi attiravano verso Parigi, molti dei quali inconsci. L’idea era quello di fare un reportage mostrando le miei sensazioni in quella città che conoscevo solo per il riflesso della sua fama. Per poco più di un mese ho vagato a caso per i quartieri, tanta gente mi ha aiutato consigliandomi le cose più strane da vedere. Ho trattato questo progetto come un taccuino di appunti filmati, esplorando Parigi come fosse un paese esotico. Atmosfere, idee a cuore aperto, pezzi di film, scene scartate e visioni varie. Poi tornato a Roma un gruppo di fidati collaboratori mi ha aiutato a dare una forma a tutto ciò.

Questo progetto, libero e sperimentale come solo un lavoro indipendente si può permettere d’essere, mostra insieme ai tuoi due corti una linea definita, un progetto ben preciso – insomma, una tua “missione” cinematografica e artistica.

Personalmente mi interessa continuare una ricerca sul linguaggio e sui diversi modi per narrare. Ma mi interessa anche che qualcosa possa cambiare in un futuro prossimo nel nostro paese. Mi piacerebbe contribuire a far ritornare il fermento in Italia. Questo, al di là di essere un momento di crisi economico, è un momento di crisi degli umani: i registi, i produttori e tanti artisti in generale sono diventati egoisti, poco interessati alla ricerca di strade meno facili, e soprattutto poco curiosi. Personalmente non mi riesce di stare fermo, e certe volte è proprio una dannazione.

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Ecco il sito ufficiale di Reportage Bizarre.
Fulvio Risuleo, in qualità di illustratore, ha partecipato anche al progetto Parade, che ho prefazionato.

Le meravigliose locandine

L’epica del cinema mobile ghanese

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Il Cinema, pensatelo che arriva da voi a bordo di un fuoristrada ammaccato e impolverato; dopo una giornata di sudore e fatica, immaginate che il Film vi attenda nel fresco della notte, quando le ombre sono calate, per raccontarvi storie di eroi e terribili pericoli.

Negli anni ’80, in Ghana, non era facile andare al cinema. La corrente elettrica era ancora poco diffusa, e per questo motivo le sale di proiezione si trovavano soltanto nei grossi centri. Per chi viveva nei villaggi, muoversi per raggiungere il cinema avrebbe comportato una spesa impossibile.
Ma con l’arrivo del videoregistratore, le cose cambiarono. I proprietari dei cinema decisero di portare i film in giro per il paese, per massimizzare i profitti. Nelle piccole comunità rurali cominciarono ad arrivare, dalla capitale Accra, i cosiddetti “cinema mobili”: si trattava in realtà molto spesso di un semplice televisore, a cui era collegato un videoregistratore; il tutto era supportato da un vecchio e rumoroso generatore. In altri casi i cinema mobili erano organizzati un po’ meglio, con un videoproiettore e un minischermo che veniva drizzato sulla stessa automobile scassata su cui viaggiavano i  proiezionisti.

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Tutta la gente del paese, dopo una dura giornata di lavoro nei campi, poteva finalmente raggrupparsi e passare un paio d’ore di divertimento assistendo a spettacoli provenienti da Hollywood, ma non solo. Venivano proposti anche film di kung fu e arti marziali, così come gli ultimi successi di Nollywood (l’industria cinematografica nigeriana).

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I proprietari dei cinema artigianali che attraversavano il Ghana in lungo e in largo avevano però un problema: l’autopromozione. Ovviamente, non facendo parte di un circuito di distribuzione ufficiale, non avevano a disposizione alcuna locandina con cui pubblicizzare i loro film. Così i “boss” del cinema mobile ghanese cominciarono ad appoggiarsi ad artisti locali, per prodursi da soli i loro poster.

Si trattava di locandine realizzate a mano – spesso su ritagli di tela provenienti dai sacchi di farina: opere uniche, che venivano religiosamente avvolte e riutilizzate infinite volte, in ogni paesino, villaggio o centro abitato per promuovere la proiezione del film, finché non erano completamente distrutte.

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Gli artisti che dipingevano queste locandine non sempre avevano visto il film in questione. Si basavano quindi sul titolo e sulle immagini che suggeriva, tiravano insomma a indovinare cosa potesse succedere nella pellicola; oppure cercavano di ricopiare le locandine occidentali inserendovi però elementi che avessero un certo appeal per il pubblico ghanese. Questo risulta in un effetto spiazzante, per chi conosce i film in questione, perché nelle locandine si riconoscono inesattezze, dettagli inventati e situazioni che non c’entrano assolutamente nulla con la vera trama.

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Un’altra caratteristica peculiare di questi poster cinematografici è la mescolanza di alcuni tratti palesemente africani con molte altre influenze, come ad esempio alcuni accenni cubisti o surrealisti. Alcuni di questi pittori, infatti, provenivano da scuole d’arte in cui avevano ricevuto un’educazione più o meno formale e, nonostante sbarcassero il lunario in questo modo, provavano ad inserire elementi più “raffinati” per far mostra del loro stile. Laddove i poster hollywoodiani, per risaltare nell’abbondanza dell’offerta, miravano alla sinteticità e al design accattivante che sottolineasse i volti delle star, i pittori ghanesi si concentravano invece sulla spettacolarità della scena epica, sullo shock della crudeltà, sul dettaglio macabro in grado di impressionare grandi e piccini.

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Alla fine degli anni ’90 le televisioni e i videoregistratori calarono di prezzo, e sempre più famiglie ghanesi furono in grado di acquistare la propria postazione TV; così i cinema mobili sparirono a poco a poco, e con loro questi manifesti folkloristici che perfino Walter Hill dichiarò “spesso più interessanti dei film stessi”. Oggi le locandine ghanesi sono molto ricercate dai collezionisti d’arte popolare africana – tanto che alcuni artisti continuano a produrle anche per i film più moderni.

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Quello che affascina in questi poster è innanzitutto il loro gusto kitsch e infantile, che di primo acchito ci sorprende e ci diverte, particolarmente oggi che siamo consumatori smaliziati ed iperimbottiti di blockbuster ed effetti speciali roboanti. Ma ad un secondo livello è impossibile non avvertire, di fronte a queste locandine, una piccola punta di nostalgia: sembrano parlarci di un’innocenza ormai perduta, quell’incanto primitivo delle immagini in movimento, il terrore e la meraviglia che ci si aspetta da un film d’avventura.

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Lo confessiamo. Anche a noi è capitato, tanti anni fa – in ragione della nostra allora giovane età? o perché erano diversi “i tempi”? – di provare un lungo brivido di trepidazione di fronte a una locandina che prometteva emozioni forti. Forse quello che ci commuove in questi poster è proprio il riconoscere quel tipo di ingenuità che ci permetteva (e permette ancora, di tanto in tanto) di vivere il cinema come un viaggio immaginario, una favola, un sogno costellato di suggestive emozioni.

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Speciale: Krokodyle

Da bambini, tutti sognano di fare l’astronauta. Ma qualcuno sognava di diventare un becchino.

Se c’è un regista italiano che, per temi, dimostra una vera e propria “affinità elettiva” con il nostro blog, è Stefano Bessoni. Fin dai primi corti, le sue immagini pullulano di esemplari tassidermici, wunderkammer, bambole e preparati anatomici, scienze anomale, fotografie post-mortem, e tutto quell’universo macabro e straniante che caratterizza in buona parte anche Bizzarro Bazar. Ma la lente attraverso cui Bessoni affronta questi argomenti è pesantemente influenzata dalle fiabe, Alice e Pinocchio sopra a tutte, filtrate dalla sua vena di visionario illustratore.

Dopo il suo esordio al lungometraggio con Imago Mortis nel 2009, segnato da mille traversie produttive (ma qualcuno ricorderà anche il precedente Frammenti di Scienze Inesatte, mai distribuito), Bessoni ritorna quest’anno a una dimensione indie che gli è forse più congeniale. Se infatti Imago Mortis, pur contando su un notevole dispiego di mezzi, aveva sofferto di alcuni compromessi, il suo nuovo Krokodyle si propone come visione “pura” e totalmente svincolata da pressioni commerciali.

Gli elementi più apprezzati del film precedente, vale a dire la cura per i dettagli fotografici e scenografici, le atmosfere gotiche e macabre, la riflessione metacinematografica, si ritrovano anche in Krokodyle, nonostante la decisione di operare in low-budget e assoluta indipendenza artistica. Bessoni costruisce qui una specie di scrigno di “appunti di lavoro” che testimonia della varietà e profondità dei temi a cui attinge la sua fantasia. Se in Imago Mortis trovavamo la fascinazione per lo sguardo, i teatri anatomici, le favole nere, in Krokodyle il protagonista Kaspar Toporski (alter ego del regista, interpretato da Lorenzo Pedrotti) si trova a “raccogliere” in una collezione virtuale tutte le sue più grandi passioni: l’amore per le stanze delle meraviglie, l’animazione  in stop-motion, la fotografia (ancora), l’esoterismo più grottesco e fumettistico, le creature magiche medievali (mandragole e homunculi), la frenologia, l’archeologia industriale, la letteratura… e, infine, il cinema. Il cinema visto come necessità ed estasi, libertà assoluta di inquadrare “con il cuore e con la mente”, vero e proprio processo alchemico capace di infondere vita a un mondo immaginario.

In esclusiva per Bizzarro Bazar, ecco un’intervista a Stefano Bessoni.

Con Krokodyle ritorni a una dimensione più indipendente – meno soldi e più libertà espressiva. In quale dimensione ti senti più a tuo agio? Cosa trovi di positivo e negativo nelle due differenti esperienze produttive?

L’ideale sarebbe avere tanti soldi e la completa libertà espressiva, ma questa è un’ovvietà. Mi trovo sicuramente molto più a mio agio nella dimensione indipendente, anche se non è possibile farlo senza trovare un minimo di finanziamento e un rientro economico che permetta almeno di coprire i costi del film. Lavorare per il cinema commerciale è invece massacrante, per non dire avvilente, ti annullano le idee e tutta la creatività costringendoti a lavorare come se fossi comunque un indipendente, limitandoti brutalmente il budget destinato all’aspetto visivo ed espressivo, per poi gettarti in pasto al pubblico senza farsi troppi scrupoli. Certo mi auguro che non sia sempre così e che magari, trovando i produttori giusti, si possa anche lavorare in sintonia su un prodotto che possa sposare esigenze commerciali ed espressive. Comunque mi piacerebbe molto continuare a lavorare da indipendente, assieme ai miei amici fidati di Interzone Visions (produttori di Krokodyle), sognatori e visionari come me, cercando però di mettere in piedi budget soddisfacenti per produrre film particolari, di ricerca visiva, ma allo stesso tempo accattivanti per il grosso pubblico.

È inevitabile che qualsiasi cosa tu faccia venga rapportata al cinema italiano. All’uscita di Imago Mortis erano stati citati Bava, Margheriti, e (forse a sproposito) Argento. In Krokodyle “rispondi” dichiarando il tuo amore per Wenders e Greenaway. Dove sta la verità?

La verità è che io ho iniziato a fare cinema guardando autori come Greenaway, Wenders, Jarman, Russell, poi ho scoperto il cinema espressionista tedesco e quello surrealista, l’universo fantastico di Svankmajer e dei fratelli Quay, insieme al grottesco di Terry Gilliam e di Jean Pierre Jeunet, infine mi sono lasciato contaminare da una buona dose di cinema di genere, avvicinandomi in questi ultimi anni a figure come Guillermo del Toro. Gli autori ai quali mi accomunano non li conosco nemmeno bene, li ho visti di sfuggita quando ero bambino e non credo che mi abbiano mai influenzato più di tanto.

Krokodyle si presenta fin da subito come un oggetto particolare, un “contenitore di appunti”. In questo senso sembra un film estremamente personale, quasi pensato per riorganizzare e fissare alcune tue idee in modo permanente. Ma un film deve anche saper incuriosire ed emozionare il pubblico, non può essere ad esclusivo “uso e consumo” di chi lo fa. Come hai mediato questi due aspetti? Come si concilia l’onestà di una visione con i compromessi commerciali?

Krokodyle è indubbiamente un film molto personale. Un film per me necessario per permettermi di fare il punto della situazione sulle mie idee e sulla mia condizione di filmmaker diviso tra indipendenza e cinema commerciale. Penso comunque che anche qualcosa di estremamente personale, se raccontato con fantasia e vivacità, possa destare l’interesse del pubblico. In fondo si dice che si dovrebbe raccontare solamente quello che si conosce molto bene, ed io ho fatto esattamente questo.

Hai spesso parlato del cinema come wunderkammer. Al giorno d’oggi, cos’è che ti provoca meraviglia?

Tante cose mi meravigliano, cose che magari altri non degnerebbero neanche di attenzione. Un animaletto rinsecchito, un insetto, una macchia d’umidità su un muro, un ferro arrugginito, un tratto di matita che lascio su un foglio quasi casualmente. Mi meravigliano le immagini e tutti gli espedienti e le tecniche per catturarle o crearle. Mi meraviglia il cinema, che considero la mia personale camera delle meraviglie, e trovo peculiare che la macchina da presa venga spesso chiamata camera.

Il film è stato in parte realizzato a Torino. Come è stato girare al Nautilus?

Il Nautilus è un posto che adoro. Ogni volta che vado a Torino non posso fare a meno di andarci e di intrattenermi per ore con il mio amico Alessandro Molinengo, perdendomi tra le mille curiosità e stranezze di quella bottega meravigliosa. Lì dentro si respirano le ossessioni degli antichi costruttori di wunderkammer, si percepiscono le perversioni di strambi sperimentatori scientifici e riaffiorano nella mente le descrizioni delle Botteghe color cannella di Bruno Schulz. In parte l’idea iniziale di Krokodyle è partita proprio dentro a quella bottega tanto macabra quanto bizzarra. Girarci è stato come girare a casa… a parte il terrore di rompere qualche reperto dal valore inestimabile!

Krokodyle, come altri tuoi lavori, è mosso da passione enciclopedica, e stupisce per quantità e ricchezza di riferimenti “alti” – letterari, cinematografici, scientifici, magico-esoterici. Eppure il tutto è filtrato da una leggerezza e un sorriso quasi infantili. Quanto è importante l’umorismo per te?

L’umorismo per me è fondamentale, soprattutto se parliamo di un ironia tendente al grottesco e al mondo dell’infanzia. Sono pervaso da una forte dose di umorismo nero che inevitabilmente riverso in ogni lavoro che faccio, che sia un film, un’illustrazione o uno scritto. È un temperamento molto più nordico, anglosassone e lontano dal modo di fare tipicamente italiano. Infatti vengo normalmente visto come un folle o un degenerato, come uno che rema controcorrente, uno da biasimare e allontanare, che mai riuscirà a comprendere le gioie e le delizie della commedia italiana più mainstream, dove calcio, doppi sensi, peti, tette e culi sono ingredienti prelibati per “palati raffinati”.

Gli attori nel film sembrano ben integrati e assolutamente a proprio agio nel tuo mondo. Eppure, recitare in Krokodyle dev’essere stato un po’ come entrare nella tua testa, e far finta di esserci sempre stati. Ok, mi dirai, sono attori… come li hai introdotti in questa realtà macabra e straniante? Che domande ti hanno fatto? Quali difficoltà hanno incontrato?

Non è stato facile, ma sono tutti attori che mi conoscono molto bene e che avevano già lavorato su Imago Mortis. Hanno accettato con entusiasmo di lavorare su Krokodyle proprio per aiutarmi a raffigurare personaggi estremamente intimi. Abbiamo lavorato molto, affrontato lunghe discussioni, e ho pensato a loro fin dalla fase di scrittura, proprio per avere il totale controllo dell’operazione. Somigliano anche ai miei disegni e non fatico a riconoscerli come qualcosa di estremamente familiare, di “mio”. Sono molto soddisfatto del risultato ottenuto.

In Italia l’idea diffusa è che il cinema debba riflettere la realtà, la condizione sociale, parlare insomma di problemi concreti. In una delle immagini più poetiche di Krokodyle, il protagonista fa partire una macchina da presa tenendola vicino all’orecchio, finché il ronzìo del trascinamento della pellicola non copre e annulla il rumore del traffico e dei clacson fuori dalla finestra. Il cinema è per te una fuga dalla realtà? Ti senti in colpa per le tue fantasticherie o le rivendichi orgogliosamente? Insomma, l’esotismo è una vigliaccheria o un diritto?

In colpa? Assolutamente no! Ne sono consapevole ed orgoglioso. L’esotismo, come lo definisci tu, è un privilegio, un dono, un’illuminazione. Io mi sento un fortunato. E poi, sembra strano dirlo, ma per me Krokodyle è un film sulla realtà, sulla realtà che io vivo tutti i giorni. La realtà è fatta di mille sfaccettature e quella che un certo cinema si ostina a propinare è solamente una piccola parte, forse quella più evidente. Basta saper osservare, ascoltare, per scovare un infinità di livelli di realtà che non ci sognavamo minimamente che potessero esistere. Anche gli specchi in fondo non sempre riflettono la realtà, basta pensare a quello che è successo ad Alice. Per concludere vorrei citare una frase di Jean Cocteau proprio a proposito di questo: “gli specchi farebbero bene a riflettere prima di rimandarci la nostra immagine…”

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Ricordiamo che il film è in uscita nelle edicole in DVD a partire da metà giugno, in allegato con la rivista Dark Movie, contenente uno special di 16 pagine interamente dedicato al film.

Ecco il blog di Stefano Bessoni, e il sito ufficiale di Krokodyle.