Rendez-vous

C’è stato un tempo in cui il cinema era ancora coraggioso, libero, estremo… e oltraggioso. Negli anni ’70, la sperimentazione era ovunque.

Anche Claude Lelouch, proprio il cineasta più “sobrio” della Nouvelle Vague, adepto del cosiddetto cinéma-vérité, ha avuto il suo leggendario momento di follia. Nel 1976, con grande scandalo, esce un cortometraggio da lui diretto, della durata di poco più di 8 minuti, intitolato C’était un rendez-vous (“Era un appuntamento”). Si tratta di un unico piano sequenza, una selvaggia corsa in macchina (una Mercedes-Benz 450SEL 6.9, per i fanatici di automobili) attraverso le strade di una Parigi semiaddormentata (sono le 5 e 30 del mattino).

Vediamo molti dei luoghi celebri della capitale francese: Arco del Trionfo, Opéra Garnier, Place de la Concorde, Champs-Élysées. Il guidatore non tocca mai, neanche per un momento, il pedale del freno: scala soltanto le marce, per evitare i pedoni e le altre automobili. Corre, corre all’impazzata. Non si ferma nemmeno ai semafori rossi, imbocca sensi unici contromano, sale sul marciapiede per evitare un camion della spazzatura, continua la sua folle corsa fino a un inaspettato, sorridente finale.

La leggenda che si è creata attorno a questo cortometraggio è quasi più divertente dell’opera stessa: c’è chi discute sull’identità dell’anonimo guidatore (l’ipotesi più plausibile indica il regista stesso come protagonista al volante), chi dimostra che l’audio è in realtà la registrazione della Ferrari 275 GTB di proprietà di Lelouch (la Mercedes in questione aveva infatti solo tre marce, mentre nell’audio si sente scalare fino a cinque marce). Molte speculazioni sono state fatte sull’effettiva velocità della corsa – Lelouch ha dichiarato che la velocità massima raggiunta era superiore ai 200 km/h, ma diversi gruppi indipendenti hanno stimato una velocità massima di 140 km/h.

Quale che sia l’ipotesi più corretta è di scarsa importanza una volta compreso il reale valore di questa pellicola. Oggi YouTube è infestato di video in cui decine di ragazzini (e adulti) eseguono simili bravate, riprendendosi con il telefonino. Ma in quegli anni realizzare un’impresa illegale di questo genere, montando una cinepresa 35 mm sul parafango di un’automobile, sfidando ogni rischio pur di ottenere immagini completamente inedite e reali, senza velocizzazioni, trucchi o effetti speciali, faceva parte di quella sperimentazione che ha reso il cinema vivo e vibrante. Significava mettere in gioco la propria vita, quella di altri, rischiare addirittura la galera per amore delle immagini. Un cinema punk, scorretto, sfrenato, puro e duro, come non se ne vede da un po’ di tempo. Un cinema alla ricerca del limite del mostrabile.

Il limite… Non c’è un modo onesto per spiegarlo, perché le sole persone che sanno veramente dov’è, sono quelle che l’hanno superato. Gli altri – quelli ancora in vita – sono quelli che hanno spinto il loro controllo fino a dove sentivano di poterlo mantenere, e poi si sono ritirati, o hanno rallentato, o hanno fatto quello che dovevano quando è stato il momento di scegliere tra l’Adesso e il Dopo.

Ma il limite è ancora là fuori.

(Hunter S. Thompson)

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Yobai

Fino a poco tempo fa, nel Giappone rurale, la tecnica dello yobai era pratica comune. Molti giovani venivano iniziati al sesso in questo modo.

Lo yobai, o “intrusione notturna”, consisteva in questo. Mentre una giovane donna dormiva, un uomo silenziosamente si introduceva nella sua stanza da letto, si infilava fra le lenzuola e la svegliava con esplicite avances sessuali. Se la ragazza acconsentiva, si consumava il rapporto nel più completo silenzio. Prima dell’alba, il “visitatore” notturno doveva scivolare discretamente fuori dalla casa senza essere sentito o visto da nessuno.

Il giovane uomo poteva essere o non essere noto alla famiglia o alla ragazza. Nell’agricoltura stagionale, il padrone di casa poteva avere alle sue dipendenze diversi manovali che dormivano sotto il suo tetto; era ovvio per lui immaginare che sua figlia potesse essere l’obiettivo di diversi yobai. Così molti operai camminavano nella notte anche per molte miglia per arrivare in villaggi vicini, dove l’essere scoperti durante un’intrusione era meno imbarazzante.

In alcuni casi, però, i genitori erano a conoscenza di cosa succedeva nella cameretta della figlia. Era usanza chiudere un occhio per le prime notti di yobai, per poi “beccare” il malcapitato fidanzatino in flagrante. Con questo primo “smascheramento” dei sentimenti fra i due innamorati cominciava quindi il periodo del corteggiamento pubblico, preludio del matrimonio.

Le tattiche dello yobai includevano alcune piccole astuzie: visto che il tempo stringe sempre, era meglio denudarsi ancora prima di entrare nella casa di soppiatto. Questo portò all’approvazione di una legge a Fukuoka che proibiva di attaccare fisicamente un intruso nudo, perché molto probabilmente era intento in uno yobai, e non era un ladro. Un’altra tecnica prevedeva di urinare lungo il fondo delle porte, in modo da evitare scricchiolii al momento di farle scorrere per aprirle. Inoltre era buona norma coprirsi il volto con un panno, in modo da evitare imbarazzi se la giovane donna avesse rifiutato le avances: chi avrebbe potuto guardarla in faccia, l’indomani?

Oggi lo yobai è praticato (forse) soltanto in alcune remote aree del Giappone. Ma, per un nostalgico revival, alcuni bordelli offrono prostitute che fingono di dormire, in modo da permettere ai clienti di provare ancora una volta il brivido dell’avventura.

Scoperto via Japan For The Uninvited.