James G. Ballard

Oggi è l’anniversario della nascita di uno degli ultimi giganti della fantascienza, James Ballard, spentosi nel 2009 all’età di 79 anni. Non soltanto autore di fantascienza, in realtà, perché Ballard la fantascienza l’ha sempre usata come pretesto, l’ha rivoltata come un calzino e l’ha piegata a suo piacimento. Non era interessato alla scoperta di mondi e galassie distanti, ma allo spazio interiore, alle supernove mentali e ai buchi neri dell’animo umano. Esploratore dissacrante dei miti dell’immaginario moderno, Ballard ne ha saputo sottolineare gli aspetti psicopatologici in epoche ancora non sospette. Dopo di lui non guarderemo mai più allo stesso modo un raccordo autostradale, una chirurgia estetica, l’omicidio Kennedy, un incidente d’auto, un centro balneare fuori stagione…

In ricordo, riportiamo qui un suo pezzo celeberrimo.

Ciò in cui credo, di James G. Ballard  

Credo nel potere che ha l’immaginazione di plasmare il mondo, di liberare la verità dentro di noi, di cacciare la notte, di trascendere la morte, di incantare le autostrade, di propiziarci gli uccelli, di assicurarsi la fiducia dei folli.

Credo nelle mie ossessioni, nella bellezza degli scontri d’auto, nella pace delle foreste sommerse, negli orgasmi delle spiagge deserte, nell’eleganza dei cimiteri di automobili, nel mistero dei parcheggi multipiano, nella poesia degli hotel abbandonati.

Credo nelle rampe in disuso di Wake Island, che puntano verso il Pacifico della nostra immaginazione.

Credo nel fascino misterioso di Margaret Thatcher, nella curva delle sue narici e nella lucentezza del suo labbro inferiore; nella malinconia dei coscritti argentini feriti; nei sorrisi tormentati del personale delle stazioni di rifornimento; nel mio sogno che Margaret Thatcher sia accarezzata da un giovane soldato argentino in un motel dimenticato, sorvegliato da un benzinaio tubercolotico.

Credo nella bellezza di tutte le donne, nella perfidia della loro immaginazione che mi sfiora il cuore; nell’unione dei loro corpi disillusi con le illusorie sbarre cromate dei banconi dei supermarket; nella loro calda tolleranza per le mie perversioni.

Credo nella morte del domani, nell’esaurirsi del tempo, nella nostra ricerca di un tempo nuovo, nei sorrisi di cameriere di autostrada e negli occhi stanchi dei controllori di volo in aeroporti fuori stagione.

Credo negli organi genitali degli uomini e delle donne importanti, nelle posture di Ronald Reagan, di Margaret Thatcher e della principessa Diana, negli odori dolciastri emessi dalle loro labbra mentre fissano le telecamere di tutto il mondo.

Credo nella pazzia, nella verità dell’inesplicabile, nel buon senso delle pietre, nella follia dei fiori, nel morbo conservato per la razza umana dagli astronauti di Apollo.

Credo nel nulla. Credo in Max Ernst, Delvaux, Dalì, Tiziano, Goya, Leonardo, Vermeer, De Chirico, Magritte, Redon, Dürer, Tanguy, Facteur Cheval, torri di Watts, Böcklin, Francis Bacon e in tutti gli artisti invisibili rinchiusi nei manicomi del pianeta.

Credo nell’impossibilità dell’esistenza, nell’umorismo delle montagne, nell’assurdità dell’elettromagnetismo, nella farsa della geometria, nella crudeltà dell’aritmetica, negli intenti omicidi della logica.

Credo nelle donne adolescenti, nel potere di corruzione della postura delle loro gambe, nella purezza dei loro corpi scompigliati, nelle tracce delle loro pudenda lasciate nei bagni di motel malandati.

Credo nei voli, nell’eleganza dell’ala e nella bellezza di ogni cosa che abbia mai volato, nella pietra lanciata da un bambino che porta via con sé la saggezza di statisti e ostetriche.

Credo nella gentilezza del bisturi, nella geometria senza limiti dello schermo cinematografico, nell’universo nascosto nei supermarket, nella solitudine del sole, nella loquacità dei pianeti, nella nostra ripetitività, nell’inesistenza dell’universo e nella noia dell’atomo.

Credo nella luce emessa dai videoregistratori nelle vetrine dei grandi magazzini, nell’intuito messianico delle griglie del radiatore delle automobili esposte, nell’eleganza delle macchie d’olio sulle gondole dei 747 parcheggiati sulle piste catramate dell’aeroporto.

Credo nella non-esistenza del passato, nella morte del futuro e nelle infinite possibilità del presente.

Credo nello sconvolgimento dei sensi in Rimbaud, William Burroughs, Huysmans, Genet, Celine, Swift, Defoe, Carroll, Coleridge, Kafka.

Credo nei progettisti delle piramidi, dell’Empire State Building, del Führerbunker di Berlino, delle rampe di lancio di Wake Island.

Credo negli odori corporali della principessa Diana.

Credo nei prossimi cinque minuti. Credo nella storia dei miei piedi.

Credo nell’emicrania, nella noia dei pomeriggi, nella paura dei calendari, nella perfidia degli orologi.

Credo nell’ansia, nella psicosi, nella disperazione.Credo nelle perversioni, nelle infatuazioni per alberi, principesse, primi ministri, stazioni di rifornimento in disuso (più belle del Taj Mahal), nuvole e uccelli.

Credo nella morte delle emozioni e nel trionfo dell’immaginazione.

Credo in Tokyo, Benidorm, La Grande Motte, Wake Island, Eniwetok, Dealey Plaza.

Credo nell’alcolismo, nelle malattie veneree, nella febbre e nell’esaurimento.

Credo nel dolore.

Credo nella disperazione. Credo in tutti i bambini.

Credo nelle mappe, nei diagrammi, nei codici, negli scacchi, nei puzzle, negli orari aerei, nelle segnalazioni d’aeroporto.

Credo a tutti i pretesti.

Credo a tutte le ragioni.

Credo a tutte le allucinazioni. Credo a tutta la rabbia.

Credo a tutte le mitologie, ricordi, bugie, fantasie, evasioni.

Credo nel mistero e nella malinconia di una mano, nella gentilezza degli alberi, nella saggezza della luce.

La biblioteca delle meraviglie – II

Mell Kilpatrick

CAR CRASHES & OTHER SAD STORIES

(2000, Taschen)

Kilpatrick era un fotografo che operò nell’area di Los Angeles dalla fine degli anni ’40 fino all’inizio degli anni ’60. Seguendo le pattuglie della polizia nelle loro chiamate, ebbe l’occasione di documentare suicidi, omicidi, ma soprattutto incidenti stradali mortali.

Questo splendido volume illustrato sella Taschen offre una selezione dei suoi scatti, quasi sempre notturni, che mostrano l’inizio di una piaga che arriva fino ai giorni nostri. È difficile descrivere le emozioni che si provano di fronte a queste fotografie. Da una parte c’è ovviamente l’empatia per le vittime, mentre la nostra mente cerca di immaginare cosa possano aver provato; ma dall’altra, ed è questo che rende affascinante la collezione di immagini, interviene il filtro del tempo. Questi incidenti provengono da un’epoca lontana, sono grida anonime nello scorrere del tempo, e il flash dona alle scene dell’impatto un’atmosfera mutuata dai film noir dell’epoca (sarà un caso, ma Kilpatrick, come secondo lavoro, faceva il proiezionista in un cinema). Eppure anche una certa amara ironia scorre talvolta in alcuni scatti, come quando i cadaveri sono fotografati sullo sfondo di allegre pubblicità commerciali.

Forse le fotografie hanno acquisito, nel tempo, più significato di quanto non fosse negli originari intenti dell’autore; ma viste oggi, queste auto d’epoca, con i loro grovigli di lamiere e di carne, non possono non ricordare le pagine memorabili dedicate da James G. Ballard agli incidenti automobilistici intesi come nuova mitologia moderna, ossessionante e intimamente sessuale. Immagini bellissime ma destabilizzanti, appunto perché saremmo tentati di iscriverle nel mito (del cinema, della letteratura, della fotografia) proprio quando ci mostrano il lato più reale, banale e concreto della morte.

Paul Collins

LA FOLLIA DI BANVARD

(2006, Adelphi – Fabula)

Il meraviglioso libro di Paul Collins ha come sottotitolo la frase: “Tredici storie di uomini e donne che non hanno cambiato il mondo”. Le sue tredici storie sono davvero straordinarie, perché raccontano di alcuni individui che sono arrivati a tanto così dal cambiare il corso della storia. E poi, hanno fallito.

Scritto in una prosa accattivante e piacevolissima, La follia è tutto una sorpresa dietro l’altra, e ha la qualità dei migliori romanzi. Di volta in volta malinconico ed esilarante, ha il merito di provare a ridare dignità ad alcuni “dimenticati” della scienza e della storia, ognuno a modo suo geniale, ma per qualche motivo vittima di un fatale errore, e delle sue amare conseguenze.

A partire da John Banvard, il folle del titolo: non l’avete sicuramente mai sentito nominare, ma a metà dell’Ottocento era il pittore vivente più famoso del mondo… René Blondlot, insigne professore francese di fisica, che fece importanti e apprezzate scoperte prima di prendere un clamoroso abbaglio, annunciando di aver scoperto i “raggi N”… oppure Alfread Beach, inventore della metropolitana pneumatica, che non prese mai piede non perché non funzionasse, ma perché lui si inimicò il sindaco di New York, tanto da sfidarlo costruendo di nascosto un tratto di metropolitana proprio sotto il municipio… e ancora, cialtroni e imbroglioni da premio Nobel per la lettaratura: William H. Ireland, ad esempio, ossessionato da Shakespeare, ne imparò talmente bene la calligrafia e lo stile da riuscire a produrre falsi e intere opere teatrali, giudicate all’epoca fra le migliori del Bardo; oppure George Psalmanazar, che si inventò di essere originario di Formosa (all’epoca ancora inesplorata, e in cui nemmeno lui aveva mai messo piede), arrivando a descriverne la cultura, le tradizioni, la religione, la flora e la fauna e perfino inventandosi un complesso linguaggio.

Uomini straordinari, folli, herzoghiani, che per un attimo hanno sfiorato la grandezza (magari con intuizioni scientifiche quasi corrette), prima di terminare la loro parabola nel dimenticatoio della Storia. Un divertito elogio della fallibilità umana intesa come voglia di tentare, di esplorare il limite; perché se anche si cade, la caduta testimonia talvolta l’irriducibile vitalità dell’essere umano.

Manichini umani

Tutti abbiamo visto le spettacolari immagini dei crash test, ovvero le simulazioni di incidenti che gli scienziati ricreano al fine di studiare le conseguenze dell’impatto sul corpo umano. In questi test vengono utilizzati i cosiddetti dummies, manichini la cui struttura è pensata per avvicinarsi molto a quella umana, e per fornire indicazioni attendibili su come il corpo reagisce agli scontri automobilistici.

Pochi sanno però che non sempre i manichini sono sufficienti per questo tipo di ricerca.

I pionieri di questi studi, negli anni ’40, lavoravano sia nell’ambito militare che in quello civile: oltre ai ricercatori militari, cioè, anche la General Motors e altre compagnie automobilistiche avevano investito nel settore sicurezza. Per la fase iniziale di questo studio, si utilizzarono cadaveri umani.

A dire la verità, i cadaveri si utilizzano anche oggi: sono corpi donati alla scienza (volontà che negli Stati Uniti può essere espressa a livello testamentario) che vengono lanciati a tutta velocità in impatti frontali; talvolta se ne utilizzano soltanto alcune parti, come gambe e braccia che vengono attaccate al busto dei dummies. È ovvio che nessun manichino può simulare con la precisione dovuta l’esatta reazione di un corpo umano ad un impatto — non c’è nulla di meglio che un corpo vero e proprio. La ricerca sui cadaveri ha portato a modifiche fondamentali nella struttura delle automobili. Uno studio del 1995 sottolineava come a fronte di ogni singolo cadavere usato nella ricerca, si salvassero 61 persone all’anno per aver indossato la cintura di sicurezza, 147 grazie all’airbag e 68 all’impatto con il parabrezza.

Negli anni ’40, al fine di ottenere informazioni fondamentali circa la capacità del corpo umano di resistere alle forze di schiacciamento e di strappo che si verificavano solitamente negli incidenti ad alta velocità, i cadaveri venivano lanciati giù per i pozzi di ascensori inutilizzati e fatti schiantare contro lastre di acciaio. Si facevano cadere cuscinetti a sfera sui crani, per calcolare la loro resistenza. Corpi dotati di rudimentali accelerometri venivano lanciati in scontri frontali all’interno di automobili, e via dicendo.
Ma in alcuni casi, per comprendere davvero le dinamiche di un incidente, bisognava spingersi ancora oltre. Bisognava provare a far schiantare persone vive.

Il colonnello John Stapp è un nome mitico di questa fase pionieristica della ricerca. Quest’uomo non si offrì semplicemente volontario per i crash test: si trattava di crash test aerei!

Quello che si voleva capire era l’effetto di una decelerazione velocissima su un corpo umano che viaggiava ad altissime velocità. Fu così che John Stapp divenne l’uomo che nella storia si sottopose alla maggiore forza G di picco.
Venne costruita una rotaia con un modulo a propulsione a razzo e un sistema di frenaggio idraulico fra i più potenti mai costruiti. John Stapp fu piazzato dentro al modulo nel dicembre del 1947. Il motore a razzo faceva raggiungere alla slitta una velocità superiore ai 1000 km/h in 5 secondi. Il freno fermava completamente la slitta nel giro di un secondo e mezzo.

Nei progressivi esperimenti Stapp arrivò a sottoporsi a forze pari a 45 g — prima della sua ricerca i medici pensavano che il limite massimo raggiungibile da un corpo umano fosse di 18 g.
Come conseguenza della potentissima decelerazione, il colonnello si ruppe due volte il polso, il suo corpo si riempì di pustole causate dall’impatto con particelle di polvere, e subì un grave distacco delle cornee che gli causò un’emorragia ad entrambi gli occhi, come documentano i filmati dell’epoca.

https://www.youtube.com/watch?v=siau78EFLgc

Nel 1951, sul deceleratore erano state fatte 74 “corse” con volontari umani, la maggior parte delle quali effettuate da John Stapp: 19 con il soggetto di spalle, e 55 in posizione frontale.

A prendere il testimone della ricerca di Stapp fu un professore della Wayne State University, Lawrence Patrick. Si sottopose a circa 400 “corse” sulla slitta a razzo. Lui e i suoi studenti si fecero schiantare sul petto con un pendolo di metallo, vennero colpiti sul viso da un martello pneumatico rotante ed infine acconsentirono a farsi sparare addosso dei vetri frantumati per simulare l’implosione di un finestrino.

Prima di arrivare alla messa a punto dei primi crash test dummies, però, vi fu un periodo in cui i ricercatori fecero un altro passo inevitabile: l’utilizzo di animali per arrivare là dove i volontari umani non potevano spingersi. Scimpanzè, orsi, soprattutto maiali furono schiantati in centinaia di mortali esperimenti.

Finalmente, grazie a tutti i dati raccolti in queste numerose e pericolose ricerche, all’inizio degli anni ’50 furono progettati e costruiti i primi manichini. Da quel momento in poi, l’utilizzo di dummies sempre più perfezionati renderà superflui i test sui cadaveri o sugli animali.

Ma c’è anche chi continua a schiantarsi per la nostra sicurezza su una base regolare. Ecco a voi Rusty Haight, direttore dell’ Istituto per la Sicurezza della Collisioni della California e detentore del Guiness dei Primati come uomo che ha effettuato in prima persona il maggior numero di crash test.

Se per noi l’incidente stradale è un momento traumatico e pauroso, per Haight è pura routine. La disinvoltura con cui affronta i crash test deriva dalla sua esperienza: si è schiantato a tutta velocità contro muri e altre macchine diverse migliaia di volte.

Grazie a Materies Morbi per l’ispirazione.