The Dangerous Kitchen – IV

Esiste un tipo di cibo che probabilmente voi non avete mai assaggiato, ma che la maggioranza degli esseri umani mangia regolarmente: gli insetti. Secondo molti studiosi potrebbero essere proprio gli insetti la chiave per risolvere la malnutrizione in molte parti del mondo, per la facilità nell’allevamento, la loro resistenza praticamente a tutte le latitudini e l’importante apporto calorico e proteico della loro carne. Ma mangiare insetti potrebbe anche avere un ulteriore effetto positivo: potrebbe aiutare a salvare l’ecosistema.

Avrete certamente sentito parlare del temibile scarafaggio parassita che attacca le palme: si tratta del punteruolo rosso, un coleottero proveniente dal sud est asiatico che in breve tempo si è diffuso in tutto il mondo, arrivando qualche anno fa anche in Italia. La sua riproduzione incontrollata e l’aggressiva voracità pongono seri problemi in tutto il mondo per la coltivazione delle palme da frutto, in quanto un’infestazione di punteruoli può distruggere una palma secolare in brevissimo tempo. Visto che la disinfestazione è problematica e difficoltosa, avanziamo qui la nostra “modesta proposta“, alla maniera di Jonathan Swift: mangiamoli da piccoli!

Questo, almeno, è quello che fanno le popolazioni dell’Asia sudorientale, della Malesia, della Papua Nuova Guinea e di molti paesi amazzonici (Perù, Ecuador). La larva, chiamata sago in Asia e suri in Sudamerica, viene deposta dalla femmina all’interno del tronco della palma e, quando si schiude, comincia a divorare il legno verso l’esterno. Più legno mangia, più diventa grassa e gustosa.

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Le larve sono esposte vive nei mercati, e vengono spesso preparate sul momento. C’è chi si arrischia a mangiare queste larve proprio così, ancora vive, ma essendo questa una rubrica di alta cucina, preferiamo consigliarvi alcuni metodi di cottura per rendere ancora più prelibata questa raffinata pietanza. Il metodo classico, se avete un barbecue, è lo spiedino: cucinate alla brace, le larve assumono un sapore simile alla pancetta affumicata e una consistenza piuttosto tenace.

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In Perù, invece, vengono pulite (si toglie il condotto intestinale, che corre lungo la parte alta della larva, un po’ come facciamo con i gamberi), e scottate alla brace in un cartoccio di foglie di palma per 5 minuti. Questo metodo mantiene la carne più tenera e “cremosa”, ma ovviamente meno magra.

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Sempre in Sudamerica il suri viene anche condito con l’aglio e fritto nell’olio, servito poi con rondelle di banana fritta. Se cotte in pentola, senza aggiunta di olio, le larve rilasciano comunque abbastanza grasso da friggersi praticamente da sole; la loro carne si accompagna bene anche con il chili o la salsa di soia.

Le larve sono altamente caloriche, e in Nuova Guinea fanno parte integrante della dieta, fornendo oltre il 30% dell’apporto proteico per la popolazione locale. Sono anche una buona fonte di ferro, zinco e altri nutrienti, e vengono considerate un buon rimedio per le infezioni bronchiali dei bambini. Di cos’altro avete bisogno per convincervi?

Placentofagia

Qualche tempo fa, Nicole Kidman dichiarò di aver mangiato la placenta dopo il suo ultimo parto. (Dichiarò anche di bere la propria urina per mantenersi giovane, ma quella è un’altra storia). Follie da VIP, direte. E invece pare che la moda stia prendendo piede.

La placenta, si sa, è quell’organo tipico dei mammiferi che serve a scambiare il nutrimento fra il corpo della madre e il feto, “avvicinando” le due circolazioni sanguigne tanto da far passare le sostanze nutritive e l’ossigeno attraverso una membrana chiamata barriera placentale, che divide la parte di placenta che appartiene alla mamma (placenta decidua) da quella del feto (corion). La placenta si distacca e viene espulsa durante il secondamento, la fase immediatamente successiva al parto; si tratta dell’unico organo umano che viene “perso” una volta terminata la sua funzione.

Quasi tutti i mammiferi mangiano la propria placenta dopo il parto: si tratta infatti di un organo ricco di sostanze nutritive e, sembrerebbe, contiene ossitocina e prostaglandine che aiutano l’utero a ritornare alle dimensioni normali ed alleviano lo stress del parto. Anche gli erbivori, come capre o cavalli, stranamente sembrano apprezzare questo strappo alla loro dieta vegetariana. Pochi mammiferi fanno eccezione e non praticano la placentofagia: il cammello, ad esempio, le balene e le foche. Anche i marsupiali non la mangiano, ma anche se volessero, non potrebbero – la loro placenta non viene espulsa ma riassorbita.

Se per quanto riguarda gli animali è intuitivo comprendere lo sfruttamento di una risorsa tanto nutritiva alla fine di un processo estenuante come il parto, diverso è il discorso per gli umani. Noi siamo normalmente ben nutriti, e non avremmo realmente bisogno di questo “tiramisù” naturale. Perché allora si sta diffondendo la moda della placentofagia?

La motivazione di questa pratica, almeno a sentire i sostenitori, sarebbe il tentativo di evitare o lenire la depressione post-partum. Più precisamente, la placenta avrebbe il potere di far sparire i sintomi del cosiddetto baby blues (quel senso di leggera depressione e irritabilità che il 70% delle neomamme dice di provare per qualche giorno dopo il parto), evitando quindi che degenerino in una depressione più seria. Sfortunatamente, nessuna ricerca scientifica ha mai suffragato queste teorie. Non c’è alcun motivo medico per mangiare la placenta. Ma le mode della medicina alternativa, si sa, di questo non si curano granché.

E così ecco spuntare decine di video su YouTube, e siti che propongono ricette culinarie a base di placenta: c’è chi la salta in padella con le cipolle e il pomodoro, chi preferisce farne un ragù per la lasagna o gli spaghetti, chi la disidrata e ne ricava una sorta di “dado in polvere” per insaporire le vivande quotidiane. Se siete persone più esclusive, potete sempre prepararvi un bel cocktail di placenta da sorseggiare a bordo piscina. Ecco un breve ricettario (in inglese) tratto dal sito per mamme Mothers 35 Plus.

Consci che l’idea di mangiare la propria placenta può non solleticare tutti i nostri lettori, vi suggeriamo un ultimo utilizzo, certamente più artistico, che sta pure prendendo piede. Si tratta delle cosiddette placenta prints, ovvero “stampe di placenta”. Il metodo è semplicissimo: piazzate la placenta fresca, ancora ricoperta di sangue, su un tavolo; premeteci sopra un foglio da disegno, in modo che il sangue imprima la figura sulla carta. Potete anche spargere un po’ di inchiostro sulla placenta prima di passarci sopra il foglio, così da ottenere risultati più duraturi. E voilà, ecco che avrete un bel quadretto a ricordo del vostro travaglio, da incorniciare e appendere nell’angolo più in vista del vostro salotto.