Joel-Peter Witkin

Joel-Peter Witkin, nato a Brooklyn nel 1939, è uno dei massimi fotografi viventi. La sua opera, spesso controversa, si ispira alle atmosfere dei primi dagherrotipi ed è chiaramente influenzata da numerosi referenti pittorici, tanto che spesso le fotografie di Witkin sono delle “rivisitazioni” di opere celebri della storia dell’arte.

Dopo essere stato fotografo di guerra in Vietnam, studia scultura e fotografia alla Cooper Union, alla Columbia University, e infine all’Università del New Mexico ad Albuquerque. Stabilitosi lì, Witkin trova nel Messico la patria ideale in cui poter sviluppare le sue idee: le leggi restrittive degli Stati Uniti non gli avrebbero permesso infatti di perseguire l’ideale artistico che egli desiderava raggiungere.

Sì, perché le fotografie che Witkin voleva scattare erano qualcosa di davvero unico: ciò che l’artista si propone è mostrare il bello e il sacro, nascosti fra le pieghe del deforme, del macabro, dell’osceno e del grottesco. Nei suoi scatti Witkin immortala freaks di ogni tipo, nani, transessuali, donne e uomini amputati, deformi, corpi estremi; non rifugge nemmeno dall’ultimo tabù, quello del cadavere. Infatti nelle sue fotografie vengono composti corpi e resti umani reali, utilizzati come parti di macabre nature morte, o sezionati ad arte per ottenere il risultato simbolico ricercato. Gli obitori messicani pare siano molto generosi, quanto a cadaveri non reclamati. Questo ha dato a Witkin l’opportunità di creare (assieme alla sua fedele compagna di vita e assistente) alcune fra le più allucinate e toccanti allegorie della caducità umana, dove arti umani, feti e bambini morti interagiscono con modelli viventi in un barocco e infernale affresco.

Nel celebre The Kiss, per esempio, Witkin seziona una testa mozzata longitudinalmente e la fotografa come se il cadavere baciasse se stesso, in una sorta di definitivo e tragico narcisismo (o forse gli uomini sono tutti illusione, ed esiste solo Dio, e ci illudiamo di amare qualcosa di diverso da Lui?).

Quello che l’artista ha sempre sottolineato (e che è anche confermato dalla sua biografia) è la forte componente mistica delle sue opere: ciò che Witkin cerca di fare non è sollecitare i nostri bassi istinti voyeuristici, ma al contrario purificare le nostre paure più radicate attraverso il mito, nobilitando il diverso, e cercando il sublime nell’orrore. Si intuisce un vero e sincero amore per i soggetti/oggetti delle sue fotografie, come se attraverso i corpi impazziti dei suoi freaks, e i pezzi di cadavere anonimi che adornano i suoi affreschi, si potesse percepire un elemento trascendente; come se, invece di invocare una salvezza o una lontana luce divina, Witkin si sforzasse di trovarla qui ed ora, anche in ciò che più ci disgusta, e che a una prima occhiata sembrerebbe negarla.

Ad impreziosire i suoi ritratti si aggiunge il certosino e lunghissimo lavoro di graffiatura dei negativi e di sperimentazione continua con le emulsioni, la candeggina e gli altri prodotti chimici con cui Witkin tratta e “rovina” le sue fotografie. Tanto che, visti i tempi di lavorazione, in un anno l’artista non può permettersi di produrre più di due o tre scatti.

Artista controverso ed estremo, Witkin ha creato un universo iconico unico e inedito, che tocca corde profonde grazie a quella complessa commistione di bellezza e oscenità che lascia lo spettatore spiazzato, turbato e meravigliato.

Fotografia post-mortem

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L’introduzione del dagherrotipo, nel 1839, rese la fotografia ritrattistica molto più comune, e in  breve tempo divenne usanza ritrarre un’ultima immagine del corpo di un caro estinto. Questa, che può sembrare una consuetudine macabra o malsana, era in effetti molto spesso l’unica possibilità per una famiglia di ritenere un’estrema immagine del defunto – e in effetti si trattava nella maggioranza dei casi dell’unica fotografia posseduta dalla famiglia, soprattutto nel caso di morte di un infante, evenienza molto diffusa nell’epoca vittoriana.

post-mortemportrait

Spesso la fotografia veniva inoltre spedita ai parenti rimasti oltremare, che avevano così quell’unica opportunità di vedere il volto del defunto, e di sentirsi così più vicini al dolore e alla perdita dei familiari.

postmortem

I cadaveri venivano normalmente bloccati in pose che suggerissero un’idea di vita, come se i morti stessero riposando, dormendo o semplicemente sedendo su una sedia. I fotografi talvolta dovevano ingegnarsi a costruire delle vere e proprie armature di metallo per sostenere i corpi in posture che risultassero naturali. Altre volte, specialmente sulle fotografie di bambini, essi intervenivano sul negativo dipingendo occhi spalancati sulle palpebre chiuse del piccolo cadavere.

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Recentemente un fotografo tedesco, Walter Schels, e la sua partner Beate Lakotta hanno intervistato diversi malati terminali, inducendoli a parlare delle proprie aspettative e dei timori che nutrivano nei confronti della morte. Hanno poi scattato una fotografia ad ognuno di loro, prima e dopo il loro trapasso. Il risultato è un eccezionale ritratto umano, e un toccante tentativo di discernere, nella differenza fra il volto vivo e quello morto, quella scintilla che fa di ogni essere qualcosa di unico.

Le fotografie di Schels, assieme alle commoventi interviste, sono raccolte in questa pagina del Guardian.

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