Alfred Kubin

Alfred Kubin (1877-1959) è uno dei più inquietanti e misteriosi illustratori del Novecento. Espressionista e simbolista, dopo gli anni della formazione presso l’Accademia delle belle arti di Monaco di Baviera decise di ritirarsi nel suo piccolo castello austriaco proprio al confine con la Germania, a Zwickledt. Abbandonò quasi subito la pittura ad olio per dedicarsi alle matite, ai disegni ad inchiostro, agli acquarelli e alle litografie.

I disegni di Kubin sono incubi grotteschi popolati da figure simboliche, demoniache, fantastiche; ci fanno entrare in un mondo in cui le proporzioni sono continuamente deformate, una sorta di teatro dell’anima in cui paurosi giganti si aggirano per i deserti aridi, in cui l’animale ha sempre in sé il germe del mostruoso, in cui le pulsioni sessuali si tingono di nero e di sangue.

Non sempre l’artista ha bisogno di scenari apocalittici per instillare un sentimento d’angoscia: talvolta bastano dei piccoli tocchi surreali e spiazzanti, direttamente provenienti dalla parte più scura dell’inconscio.

La figura umana è continuamente martoriata, stirata, strappata in una rappresentazione allegorica del tormento e del dolore; ma è soprattutto mentale il disagio che si prova di fronte alle sue opere. I disegni di Kubin sono una perfetta e ineguagliata rappresentazione del perturbante freudiano.

Dichiarata “arte degenere” dal regime nazista, la sua straordinaria opera gli valse nel dopoguerra diversi prestigiosi riconoscimenti. Ma è con il passare del tempo e dei decenni che ci rendiamo conto sempre di più di quanto i suoi disegni fossero in anticipo rispetto ai tempi, e quanto abbiano influito sull’immaginario collettivo. Ancora oggi moderni, geniali, e squisitamente inquietanti.

(Grazie, Norma!)

Speciale: James G. Mundie

In esclusiva per Bizzarro Bazar vi proponiamo l’intervista da noi realizzata all’artista James G. Mundie, disegnatore, fotografo e incisore. I suoi lavori più noti sono due serie di opere: la prima, intitolata Prodigies, è un’iconoclasta rivisitazione di alcuni classici della pittura di ogni epoca, all’interno dei quali i soggetti originali sono stati rimpiazzati dai freaks più famosi. Quello che ne risulta è una sorta di ironica storia dell’arte “parallela” o “possibile”, in cui la deformità prende il posto del bello, e in cui per una volta gli emarginati divengono protagonisti.
Il suo altro lavoro molto noto è Cabinet of curiosities, una serie di fotografie, schizzi e incisioni riguardanti le maggiori collezioni anatomiche e teratologiche conservate nei musei di tutto il mondo.

Le fotografie fanno parte dei tuoi progetti tanto quanto i disegni. Ti ritieni più un fotografo o un illustratore?

Mi piace pensarmi come un creatore di immagini che utilizza qualsiasi strumento o mezzo sia appropriato. Questo significa talvolta disegnare, altre volte incidere su legno o fotografare. Comunque, ho cominciato ad considerare la fotografia come mezzo a sé solo da poco tempo. Ho sempre usato le fotografie come riferimenti, o come fossero dei bozzetti per altri progetti. Con il tempo, invece, ho cominciato ad apprezzare le foto che facevo nei loro propri termini estetici. Specialmente da quando sono diventato padre, la relativa immediatezza dell fotografia è stata un cambiamento benvenuto rispetto ai metodi più laboriosi che uso nei disegni e nelle incisioni, che possono prendere settimane o mesi (addirittura anni!) per emergere.

Riguardo alla serie Prodigies, come è nata l’idea di unire il mondo dei freakshow con quello dell’arte classica, e perché?

Ho sempre disegnato ritratti, e intorno al 1996-97 stavo cercando nuove ispirazioni. Ho cominciato a pensare alle fotografie di strane persone, come Jojo il Ragazzo dalla Faccia di Cane, che avevo visto decadi prima, e pensai che sarebbe stato divertente lavorarci. Cominciai a fare ricerche sui sideshow, e presto scoprii qualcosa di molto più bizzarro di quello che ricordavo dalla mia infanzia. Iniziai a trovare anche dettagli sulle vite di questi performer che li fecero risultare molto più veri ai miei occhi – cioè, più di qualcosa di semplicemente anomalo e strampalato. Prodigies è cominciato come una sfida, per vedere se sarei riuscito a mescolare questi inquietanti e affascinanti performer di sideshow ai miei quadri preferiti.
Mi resi conto che la presentazione circense dei freaks era spesso basata sull’esagerazione – ai nani venivano assegnati titoli militari come Generale o Ammiraglio, le persone molto alte venivano reinventate come giganti, ecc.; e nella storia dell’arte succedeva lo stesso, quello che vediamo nei quadri era, all’epoca, una commissione commerciale all’artista da parte di una persona benestante che voleva lasciare un ricordo di sé e del suo successo. In questo senso, un ritratto di Raffaello di un qualsiasi cardinale o poeta non è molto differente dalle cartoline di presentazione dei freaks vendute dal palcoscenico. Entrambe le cose cercano di proiettare e/o vendere un’identità. “Perché non portare il tutto a uno stadio successivo, e permettere ai freaks di abitare o rimodellare le storie raccontate nei dipinti classici?”, pensai. Ovviamente non volevo procedere a casaccio. Dovevo avere un buon motivo per collegare un performer con un certo quadro, che fosse una storia in comune, o un atteggiamento, o un elemento compositivo che mi ricordava la figura di un freak. Questo significa che sto ancora cercando l’accoppiata ideale per alcuni fra i miei performer preferiti, come ad esempio Grady Stiles l’Uomo Aragosta. Dall’altra parte, ci sono dipinti così iconici che risulta difficile utilizzarli senza apparire risaputi o pigri.

La serie Prodigies è percorsa da una vena di humor iconoclasta. Potrebbe essere letta come una “legittimazione” dei diversi, a cui viene data la possibilità di essere protagonisti della storia dell’arte; ma anche come una specie di sberleffo nei confronti del concetto storico e assodato di “bellezza”. Quale interpretazione ti sembra più corretta?

Sono entrambe corrette. Anche se è di moda oggi denigrare i freakshow come una reliquia culturale barbarica da dimenticare, credo che servissero una funzione necessaria nella società – e che non è ancora sparita. E vedo queste persone che lavoravano nei freakshow – anche se spesso sfruttate – come degli eroi, per aver affrontato le circostanze peggiori e averne tratto il maggiore successo possibile. Queste erano persone che non sarebbero mai state accettate nella società beneducata, eppure trovarono una comunità che si strinse attorno a loro e li celebrò. Invece di essere chiusi negli istituti, vissero bene la loro vita con la loro famiglia, recitando sul palcoscenico un ruolo creato ad arte. C’è un certo carattere di nobiltà, in questo. Sì, la gente guardava e di tanto in tanto li scherniva, ma almeno ora pagavano per il privilegio. Quindi, chi è che era veramente sfruttato? Anche ora vogliamo guardare, ma la maggior parte di noi non è abbastanza sincero da ammetterlo.
Molte delle presentazioni utilizzate nei freakshow erano intenzionalmente umoristiche, quasi ridicole. Credo che quello humor servisse perché il pubblico si sentisse meno a disagio, e anche per dare al performer una protezione emotiva. Una parte del fascino dei freakshow è di confrontarsi con le proprie paure. Vedi qualcuno sul palco a cui mancano degli arti oppure deforme, e naturalmente pensi “E se quello fossi io?”. Quindi ho spesso inserito dei piccoli tocchi scherzosi, per aiutarmi a metabolizzare queste domande, e per tirare un salvagente allo spettatore. Allo stesso tempo sto prendendo in giro alcuni dei pilastri della storia dell’arte. C’è un sacco di materiale esilarante con cui lavorare, se lo guardi con mente aperta. Per esempio alcune convenzioni formali che troviamo in antiche istoriazioni sugli altari: è piuttosto divertente, oggi, vedere come i santi sono raffigurati cinque volte più grandi dei meri mortali. È liberatorio camminare in un museo e permetterti di ridere, anche se per molte persone è puro sacrilegio.
Gran parte di ciò che oggi reputiamo “bello” è semplicemente regolare, uniforme. Le nostre idee moderne di bellezza ci vengono propinate dai giornali di moda, televisione e affini. Eppure, in queste strane persone che io disegno – con le loro proporzioni imperfette – andiamo oltre il bello per avvicinarci al sublime. Uno dei principi guida per me in questo progetto è quello che Sir Francis Bacon scrisse nel 1597: “non c’è beltà eccellente che non abbia in sé una qualche misura di stranezza”.

In uno dei tuoi disegni, ti autoritrai nei panni di un anatomista dilettante, e molti dei tuoi lavori raffigurano anomalie patologiche. Qual è il tuo rapporto con i tuoi soggetti? Ritieni di avere un occhio freddo e clinico oppure c’è un’empatia con la sofferenza che spesso implica l’anatomia patologica? E, ancora, cosa vorresti che provasse chi guarda i tuoi disegni?

Anche se un certo distacco è necessario per rimanere oggettivi, non posso impedirmi di immedesimarmi nei miei soggetti. Queste erano persone reali che affrontavano circostanze che non posso nemmeno immaginare. Quando attraverso una collezione anatomica, mi ritrovo a chiedermi chi fosse la persona da cui questa o quella parte è stata tolta e preservata. Oggi, i casi sono presentati in maniera anonima, ma negli scorsi secoli era comune accludere informazioni biografiche sul paziente. Credo che in questa fissazione di proteggere la privacy degli individui stiamo inavvertitamente negando la loro umanità, perché ora ciò che vediamo è una malattia invece che una persona. Anche se non è mia intenzione forzare nello spettatore alcuna emozione o idea (e spesso la gente trova nei miei lavori dei significati che non ho mai inteso esprimere), spero che almeno porti con sé il senso che i miei soggetti sono o erano persone vere, degne di considerazione.

Il tuo nuovo progetto, Cabinet of curiosities, è basato sulle tue visite ai musei anatomici americani ed europei. Cosa ti attrae nei reperti anatomici e teratologici?

Sono sempre stato interessato a come le cose funzionano, in particolare all’anatomia. Quello che mi interessa delle collezioni patologiche o teratologiche è che questi strani esemplari ci mostrano cosa sta succedendo a livello cellulare, genetico. Esaminando il sistema danneggiato, impariamo come funziona quello in salute. Sono anche affascinato dagli antichi sistemi usati per catalogare e organizzare il mondo naturale, e la teratologia – lo studio dei mostri – è un esempio particolarmente interessante. Anche l’idea del museo, nato come collezione personale per diventare istituzione pubblica è affascinante, e condivide molti aspetti con i freakshow. Alcuni di questi preparati sono strani e bellissimi, e presentati in maniera molto elaborata. Quindi Cabinet of Curiosities è un tentativo di documentare il punto in cui questi due mondi si intersecano.

Quale pensi sia il rapporto fra medicina ed arte, e più in generale fra scienza ed arte?

La medicina è stata considerata un’arte per molto più tempo di quanto non sia stata vista come scienza. La società non si libera da una simile associazione da un giorno all’altro, così ancora oggi continuiamo a  parlare dell’abilità di un chirurgo come fosse quella di uno scultore. Ma anche da un punto di vista strettamente pratico, i dottori hanno bisogno degli artisti perché le rappresentazioni artistiche sono da sempre una componente essenziale nell’educazione medica e nella sua comunicazione. Sin dal Rinascimento gli illustratori hanno insegnato l’anatomia a generazioni di medici, e in quel modo la pratica artistica dell’osservazione ha aiutato la medicina ad uscire dalla via puramente teorica. Penso che possiamo affermare che questo ruolo comunicativo valga anche per le scienze in generale, perché l’arte può aiutare a spiegare complesse teorie anche a persone che non masticano la materia. Un artista può fungere da legame tra lo scienziato e il pubblico, rendendo comprensibili le scoperte scientifiche – ma può anche servire come critico. In questo modo, l’arte può divenire una sorta di specchio morale per la scienza.

Nelle tue parole, “questi preparati anatomici rappresentano il punto di intersezione fra scienza, cultura, emozione e mito”. Credi che ci sia bisogno di miti moderni? Pensi che questi nuovi miti possano provenire dal mondo della scienza, invece che da quello magico-religioso come nel passato? Il tuo lavoro fotografico e di illustrazione può essere letto come un tentativo di dare una dimensione mitica ai tuoi soggetti? Sei religioso?

Penso che noi creiamo in continuazione nuovi miti, o che ne risvegliamo e reinventiamo di vecchi. Fa parte della natura umana.
La scienza per molte persone ha sostituito la religione come fondamentale via d’ispirazione, ma in realtà sappiamo ancora così poco dell’universo, che c’è ancora molto terreno fertile per la fantascienza. Con la nascita di Scientology abbiamo visto addirittura la fantascienza trasformarsi in religione! Io non sono assolutamente una persona religiosa, ma penso che spesso cerchiamo di riporre le nostre speranze in un potere che sta al di fuori di noi. Per alcuni, questo significa una divinità che è personalmente interessata a come ci vestiamo, o a cosa mangiamo il venerdì; per altri vuol dire l’idea che il genere umano troverà finalmente la cura per il cancro e imparerà i segreti per viaggiare nel tempo. Così nel mio lavoro mi ritrovo a raccontare storie, o quantomeno a predisporre il seme di una storia che ognuno può trasformare nel racconto che desidera.

Anche tua moglie Kate è un’artista, ma i suoi quadri sembrano essere completamente distanti dal tuo mondo – solari, impressionisti, colorati. Se non sono indiscreto, come vi rapportate l’uno con l’arte dell’altra?

Siamo i migliori critici l’uno dell’altra. Siccome i nostri lavori sono così differenti, non c’è competizione fra noi, e ci diamo costantemente dei pareri e delle idee.

Chi è appassionato di stranezze, corre il rischio di essere reputato egli stesso strano. Cosa pensano delle tue passioni gli amici e i parenti?

Alcune persone amano stare a guardare i treni, o ascoltare gli Abba. Io amo i freaks. Tutte le persone più interessanti sono strambe.

Ecco i siti ufficiali di Prodigies, e di Cabinet of Curiosities.

Il più misterioso dei libri

Immaginate di trovare, sepolto fra gli innumerevoli tomi custoditi gelosamente all’interno di una biblioteca gesuita, un misterioso manoscritto antico. Immaginate che questo manoscritto sia redatto in una lingua incomprensibile, o forse crittografato affinché soltanto gli iniziati siano in grado di leggerlo. Immaginate che sia corredato da fantastiche illustrazioni a colori di piante che non esistono, diagrammi di pianeti sconosciuti, strani marchingegni e strutture a vasche comunicanti in cui esseri femminili stanno immersi in liquidi scuri… e poi diagrammi intricati, agglomerati di petali, tubi, bizzarre ampolle, simboli raffiguranti cellule o esseri proteiformi…

Questo non è l’inizio di un film o di un romanzo. Questo è quello che accadde veramente a Wilfrid Voynich, mercante di libri rari, nel 1912, quando acquistò dal Collegio gesuita di Mondragone un lotto di libri antichi. Da quasi un secolo il cosiddetto “manoscritto Voynich” sconcerta gli esperti, impenetrabile a qualsiasi tentativo di decifrazione, e il dibattito sulla sua autenticità non è ancora giunto a conclusione.

Il libro sembra una sorta di compendio o catalogo biologico-naturalistico. I lunghi elenchi e indici numerati fanno riferimento alle illustrazioni ed evidentemente le analizzano con descrizioni meticolose. Il problema, se davvero si tratta di un’enciclopedia naturalistica, è che non sappiamo a quale natura si riferisca, visto che le piante disegnate a vividi colori non sono note ad alcun botanico. Anche i diagrammi che sembrano riferirsi all’astronomia (sarebbero riconoscibili alcuni segni zodiacali) lasciano interdetti gli studiosi. Ora, crittografare una lingua è possibile, ma crittografare un’immagine è davvero un’opera inaudita. Forse potremmo capire qualcosa in più se sapessimo chi è l’autore del manoscritto…

Un’analisi agli infrarossi avrebbe evidenziato una firma, in seguito cancellata: “Jacobi a Tepenece”. Questa firma sarebbe dunque quella di Jacobus Horcicki, alchimista del 1600 alla corte dell’imperatore Rodolfo II. Questo controverso sovrano, personaggio malinconico e schivo, interessato più all’occultismo e all’arte che alla politica, costruì la più grande wunderkammer del suo tempo, ammassando e catalogando oggetti meravigliosi da tutto il mondo, testi esoterici e dipinti dal valore inestimabile. Secondo molti studiosi era talmente ossessionato dalle arti oscure che il manoscritto Voynich potrebbe essere il risultato di una complessa truffa ai suoi danni. L’imperatore, come in molti sapevano, era disposto a sborsare somme enormi per acquistare testi magici ed alchemici. E allora perché non fabbricarne uno, dalla lingua incomprensibile, dalle immagini fantastiche, per impressionarlo e spillargli un bel po’ di quattrini? Forse gli anonimi truffatori avevano inizialmente firmato la loro opera con il nome dell’alchimista più famoso, Jacobus Horcicki appunto, per poi ritornare sui loro passi e cancellarlo, considerandolo un azzardo troppo rischioso?

La tesi del falso è supportata in gran parte dagli studi crittografici: nonostante non sia mai stato decifrato, nel linguaggio utilizzato nel manoscritto ci sono alcuni indizi che “puzzano” di bufala. La struttura sintattica, ad esempio, sembrerebbe semplicissima, fin troppo elementare; alcune parole, poi, vengono spesso ripetute consecutivamente, in alcuni casi addirittura per quattro volte. Eppure nessun esperto è riuscito a scoprire quale sia il metodo con cui il libro è stato composto, visto che non vi è utilizzato nessuno dei sistemi crittografici che sappiamo essere noti all’epoca.

All’inizio del 2011 è stata finalmente condotta un’analisi al carbonio-14 per datare il manoscritto. E, come c’era da aspettarsi, ecco l’ennesima sorpresa! Il manoscritto risale a un periodo compreso fra il 1404 e il 1438, e quindi è ben più antico di quanto finora ritenuto. Purtroppo questa scoperta non mette il punto finale alle discussioni…

Infatti le analisi al radiocarbonio non possono essere effettuate sugli inchiostri, ma soltanto sulle pagine. Se gli anonimi truffatori seicenteschi fossero riusciti a procurarsi un po’ di carta originale del 1400 su cui scrivere, allora la loro burla metterebbe nel sacco anche le nostre tecnologie.

Il mistero del manoscritto Voynich resiste dunque al passare del tempo. Ma da oggi anche voi, crittografi dilettanti, potrete cimentarvi nella decifrazione, perché il libro è stato finalmente pubblicato online per la consultazione gratuita. E se proprio non ambite ad essere i primi a svelare l’enigma, vi consigliamo ugualmente di sfogliarlo, anche soltanto per lasciarvi conquistare dal fascino che queste pagine emanano. Perché, diciamocelo sinceramente, gran parte dei cosiddetti “misteri” valgono soprattutto per le emozioni e la poesia che ci regalano finché restano insondabili e imperscrutabili… simboli mitici di ciò che sta al di là della nostra comprensione. E il manoscritto Voynich, che sia un falso oppure no, è capace di gettarci nell’incanto dell’ignoto.

Le scansioni delle pagine dell’intero manoscritto si trovano su questo sito. Questa invece è la pagina di Wikipedia, che riassume bene le varie ipotesi, teorie e ricerche nate attorno al libro.

Edward Gorey

Edward Gorey era un tipo strano. Un uomo schivo, amante del balletto classico e delle pellicce, spesso portate assieme alle scarpe da tennis, padrone di decine di gatti, capace di citare Robert Musil e allo stesso tempo non perdersi una puntata di Buffy l’ammazzavampiri. E, soprattutto, geniale illustratore e uno fra gli ultimi surrealisti.

Chi si imbatte per la prima volta nelle illustrazioni di Gorey fatica a credere che l’autore non sia britannico: il black humor, lo stile, le ambientazioni cupe e vittoriane sembrano provenire da un mondo che più british non si può. Eppure Gorey non si mosse mai dagli Stati Uniti, tranne che per una fugace visita alle Ebridi. Soltanto un’altra delle sue affascinanti bizzarrie.


Un’altra cosa che il lettore al primo “incontro” con le tavole di Gorey potrebbe provare è un piccolo brivido infantile, di quelli che ci percorrevano la sera quando, rannicchiati sotto le coperte, ascoltavamo una fiaba paurosa. Nonostante l’autore abbia sempre smentito di disegnare per i bambini (che peraltro non amava), è innegabile che molte delle sue illustrazioni sembrano fare riferimento al mondo dell’infanzia… salvo poi violentarla, con sottile crudeltà, e “mandarla a morte”, come nella sua celebre serie sull’alfabeto: concepito come una sorta di parodia di abbecedario, ogni lettera viene insegnata con l’ausilio di una vignetta che mostra la feroce e grottesca morte di un bambino.

Sperimentatore instancabile dei mezzi visivi e letterari, Gorey si è inventato mille trucchi affinché il suo lettore non si adagiasse mai nella consuetudine. Ha prodotto libri grandi come un francobollo, libri senza testo, libri animati, in un continuo tentativo di stupire e stimolare il lettore a non dare nulla per scontato.

Anche per questo la sua figura rimane inafferrabile e difficilmente etichettabile: le sue tavole sono umoristiche, poetiche, o tragiche? O tutte queste cose allo stesso tempo? Non le capiamo a fondo, e per questo ci lasciano spesso interdetti – come se non sapessimo che reazione ci si aspetti da noi. E in questo sta il surrealismo (in senso originario, brétoniano): Gorey ci parla delle nostre paure, quelle che ci portiamo dentro dall’infanzia, e che molto spesso ci terrorizzano ancora di più proprio perché sono vaghe, sfuggenti, indescrivibili. Fatti della “materia dei sogni”, i disegni di Gorey, al di là della bellezza del tratto o dell’atmosfera gotica, ci portano in contatto con quel mostro che, forse, non è mai veramente sparito da sotto il nostro letto.

Anche il più semplice degli schizzi di Gorey sembra nascondere un piccolo segreto. Forse è lo stesso che nascondeva lui, Edward, l’artista dalla sessualità incerta o addirittura, per sua ammissione, assente; un vecchio solitario, chiuso in una villetta appartata a Cape Cod, felice con le sue pellicce, i suoi gatti, le sue sporadiche uscite per passare la serata al balletto… e il suo mondo su carta fatto di lutti vittoriani, simbolismi sotterranei, bambini prede di orchi, e un inesauribile macabro umorismo. Sì, Edward Gorey era un tipo strano.

Homunculus

Abbiamo già parlato di Stefano Bessoni nel nostro speciale dedicato al film Krokodyle (2010). Ritorniamo ad occuparci di lui e del suo universo macabro e sorprendente, più unico che raro in Italia, perché proprio domani esce in tutte le librerie, edito da Logos, un suo libro di illustrazioni incentrate sul tema dell’homunculus.

L’omuncolo è un essere “artificiale”, creato cioè secondo segreti rituali alchemici, e la sua leggenda  risale all’inizio del 1500. Sembra che il primo a parlare della possibilità di creare la vita a partire da un complesso procedimento, a metà strada fra scienza e magia, sia stato l’astrologo e alchimista Paracelso. La peculiarità degli omuncoli è quello di essere una sorta di uomini in miniatura – talvolta perfettamente formati, ma altre volte meno “riusciti”.

Prendendo spunto da queste antiche teorie, Stefano Bessoni in questa fiaba gotica ci racconta la storia di Zendak, un medico anatomista tassidermista che assieme alla figlia Rachel è diventato celebre per i suoi preparati anatomici, soprattutto di feti e bambini preservati in formalina; ma, impazzito a causa della morte di Rachel, Zendak si dedicherà alle arti oscure, cercando di dare vita a un omuncolo che possa riempire il vuoto lasciato dalla perdita della figlia adorata.

La storia è narrata con una filastrocca in rima, come accadeva nelle vecchie favole, e alle parole si accompagnano i cupi, malinconici, poetici e ironici disegni di Bessoni; inoltre impreziosisce il libriccino un’appendice finale che contiene delle ricette (alcune più classiche, altre più moderne, ma tutte rigorosamente testate e funzionanti!) per la preparazione e la creazione di un omuncolo.

Homunculus di Stefano Bessoni è acquistabile anche online a questo indirizzo.

Anatomie fantastiche

Walmor Corrêa è un artista brasiliano che dipinge tavole anatomiche di esseri immaginari di sua invenzione. Le tavole, dagli splendidi colori, si rifanno alle vere illustrazioni dei libri di biologia, e spesso descrivono dettagliatamente l’anatomia interna di questi ibridi fantasiosi. Ondine, mostri, commistioni di umano e animale sono dipinti come fossero stati ritratti durante una dissezione. Accurate descrizioni etologiche rendono conto dei particolari comportamenti di questi animali. Corrêa ha anche creato diorami, orologi a cucù e carillon a partire da scheletri animali modificati. Se volete conoscere l’anatomia di una sirena, Corrêa è l’uomo giusto a cui chiederlo.

Il sito ufficiale di Walmor Corrêa.