Links, curiosities & mixed wonders – 10

Here’s another plate of fresh links and random weirdness to swallow in one bite, like the above frog did with a little snake.

  • In Madagascar there is a kind of double burial called famadihana: somewhat similar to the more famous Sulawesi traditionfamadihana consists in exhuming the bodies of the departed, equipping them with a new and clean shroud, and then burying them again. But not before having enjoyed one last, happy dance with the dead relative.

  • Whining about your writer’s block? Francis van Helmont, alchemist and close friend of  famed philosopher Leibniz, was imprisoned by the Inquisition and wrote a book in between torture sessions. Besides obviously being a tough guy, he also had quite original ideas: according to his theory, ancient Hebrew letters were actually diagrams showing how lips and mouth should be positioned in order to pronounce the same letters. God, in other words, might have “printed” the Hebrew alphabet inside our very anatomy.

  • Reason #4178 to love Japan: giant rice straw sculptures.
  • At the beginning of the last century, it was legal to send babies through the mail in the US. (Do we have a picture? Of course we do.)

  • In France, on the other hand, around the year 1657 children were eager to play a nice little game called Fart-In-The-Face (“Back in my day, we had one toy, and it was our…“).

  • James Ballard was passionate for what he called “invisible literature”: sales recepits, grocery lists, autopsy reports, assembly instructions, and so on. I find a similar thrill in seeking 19th-century embalming handbooks: such technical, professional publications, if read today, always have a certain surreal je ne sais quoi. And sometimes they also come with exceptional photographs, like these taken from a 1897 book.

  • In closing, I would like to remind you of two forthcoming appointments: on October 29, at 7pm, I will be in Rome at Giufà Libreria Caffe’ to present Tabula Esmeraldina, the latest visionary work by my Chilean friend Claudio Romo.
    On November 3-5, you will find me at Lucca Comics & Games, stand NAP201, signing copies of Paris Mirabilia and chatting with readers of Bizzarro Bazar. See you there!

 

La morte in musica – I

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Inauguriamo una nuova rubrica che, in linea con l’esplorazione delle varie concezioni della morte più volte presentata su queste pagine, si propone di esaminare un contesto culturale spesso poco considerato: la musica popolare.

Che rapporto ha la canzone con la morte, come la affronta, come la descrive? Analizzando di volta in volta un rilevante brano musicale, cercheremo di capire quale immagine esso ci restituisca dell’inevitabile fine della vita, attraverso gli occhi dell’autore ed eventualmente della tradizione nella quale si inserisce.

Cominciamo con un cantautore particolarmente raffinato: il canadese Leonard Cohen, e la sua Who By Fire del 1974.

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Who by fire
Ispirata al secondo paragrafo del poema liturgico ebraico Unetanneh Tokef, la canzone di Cohen è una meditazione sulla morte e sull’esistenza di Dio; ma, come vedremo, è più sottile di quanto sembri a prima vista.

Ogni strofa è divisa in due parti: la prima è dedicata all’enumerazione/lamentazione di diversi tipi di morte possibili.
Le varianti differiscono non soltanto per modalità (“chi col fuoco, chi con l’acqua”, “chi per incidente”) ma anche per motivazione (“chi per la sua avidità, chi per fame”). Da notare, in questa commovente lista, almeno alcune variazioni che sembrano sottolineare la soggettività dell’esperienza della morte, a seconda di come vediamo il mondo: alcuni se ne andranno “in questi regni d’amore”, altri “scivolando via in solitudine”. Questa realtà può essere un Eden per alcuni, un inferno per altri.

In questo senso, nel verso “chi nel felice, felice mese di Maggio” trapela tutta l’amara ironia che l’autore attribuisce al morire. L’espressione era usata in alcune ninne-nanne, e in diversi poemi e canzoni inglesi dal 1600 in poi: nel contesto di questa canzone, però, viene ovviamente inserita con la distanza del sarcasmo e della disperazione – la morte non si ferma nemmeno di fronte al mese più gioioso dell’anno.

La seconda parte di ogni strofa è costituita dal verso “e chi dirò che sta chiamando?”. Quest’ultimo “chi” opera un notevole scarto rispetto a quelli che aprono ogni verso precedente, sottolineato anche dal cambio melodico. Non si tratta più di un elenco affermativo, ma di una domanda: tutti questi morti, chi li sta chiamando ad uno ad uno?

Il verso si gioca tutto sull’ironico doppio senso di calling, poiché il tono è lo stesso che userebbe un maggiordomo al telefono: “chi devo dire che sta chiamando?”, “chi devo riferire?”. La formulazione shall I nella sua accezione arcaica rende la frase rispettosa ed educata, quando allo stesso tempo sta proponendo una domanda scottante: chi c’è all’altro capo della metaforica cornetta?

Il poeta qui si chiede chi sia a decidere del nostro ultimo destino. Sia che moriamo per il fuoco o per i barbiturici, c’è qualcuno o qualcosa che dia un senso alla nostra sofferenza e finitezza?
La bellezza della domanda è che non è posta in termini filosofici o metafisici: Cohen non chiede direttamente “esiste un Dio che può motivare la nostra morte?”. Il suo è un approccio estremamente umano, nato dalla contemplazione del dolore e della paura di tutti coloro che debbono morire, incluso se stesso (“chi in questo specchio”).
Rifiutando una visione ateistica o fideistica, Cohen pone al centro della questione un interrogativo elegante: “chi devo dire che sta chiamando?” Come potrò giustificare tutto questo triste e violento morire? Espressa con una sinteticità poetica ammirevole, ecco la domanda che assilla l’uomo fin dall’antichità.