Infinity Burial Project

Ognuno di noi è intimamente connesso con l’ambiente, e sappiamo bene che le nostre azioni influenzano l’ecosistema in cui viviamo; non sempre riflettiamo però sul fatto che i nostri corpi avranno un impatto sull’ambiente anche dopo che saremo morti. Partendo da questa idea, l’artista statunitense Jae Rhim Lee ha fondato l’Infinity Burial Project (Progetto di sepoltura infinita).

A causa dei conservanti presenti nel cibo che mangiamo, dei metalli nelle otturazioni dentali, dei prodotti cosmetici con cui si preparano le salme e dei metodi di imbalsamazione (che in America includono preservanti altamente tossici come la formaldeide), un cadavere è in sostanza una piccola bomba chimica: che venga seppellito, o cremato, l’effetto è inevitabilmente quello di liberare nell’ambiente un alto numero di tossine pericolose. Jae Rhim Lee ha deciso di proporre un’alternativa sostenibile ed ecologica a questo stato di cose.

Come prima cosa, ha cominciato a coltivare dei funghi. I funghi saprofiti infatti sono dei filtranti naturali per moltissime delle scorie tossiche presenti nei nostri corpi, sono in grado di decomporle, “digerirle” e renderle innocue. Jae in seguito ha iniziato a raccogliere le cellule di scarto del suo stesso corpo – capelli, pelle secca, unghie – e ad utilizzarle come alimento per i suoi funghetti. Ha potuto così selezionare quelli che rispondevano meglio a questa particolare e ferrea dieta, e scartare quelli dal palato troppo “raffinato”. Oggi Jae possiede un esercito di funghi pronti a divorarla in qualsiasi momento.

Va bene, direte voi, ma anche se ognuno di noi si coltivasse i propri funghi “personalizzati”, come si farebbe poi a utilizzarli? Ecco che entra in scena la Mushroom Death Suit, la tuta progettata da Jae Rhim Lee per decomporre un cadavere con i funghi. Le fantasie che arabescano e percorrono la tuta, e che ricordano proprio il micelio, sono create con uno speciale filo imbevuto di spore fungine; anche il fluido di imbalsamazione, e il make-up del defunto, contengono spore.

Se lasciare questo mondo vestiti da ninja non è nel vostro stile, potete sempre optare per qualcosa di più sobrio e discreto: il Decompiculture Kit. Costituito da un gel nutritivo trasparente che si adatta come una seconda pelle al corpo, contiene delle capsule riempite di spore che permetteranno la crescita uniforme dei funghi.

Anche se l’Infinity Burial Project può sembrare eccentrico, ha fondamentalmente due meriti: in primo luogo Jae Rhim Lee intende diffondere una maggiore consapevolezza e accettazione della morte e della decomposizione come fatti naturali, e combattere il tabù nei confronti di un processo che è parte fondamentale del ciclo della vita. Il secondo aspetto che il progetto sottolinea è l’importanza di avere la possibilità di scegliere nuove opzioni, di riappropriarci insomma del destino del nostro corpo: dobbiamo essere liberi di decidere che fine faranno le nostre spoglie.

A riprova dell’interesse suscitato da Jae Rhim Lee, ci sono già alcuni volontari pronti a donare il loro corpo all’Infinity Burial Project per la sperimentazione; sapere che il proprio cadavere darà vita a una moltitudine di organismi a loro volta commestibili ha evidentemente le sue attrattive, siano esse l’amore per l’ecologia, un ideale romantico di fusione con la natura, o anche solo la prospettiva di schifare i parenti.

Ecco il sito ufficiale dell’Infinity Burial Project.

L’esploratore cieco

Nato nel 1786, James Holman era cresciuto con un unico desiderio: il suo grande sogno era viaggiare per il mondo. Sfortunatamente, il padre non aveva esattamente gli stessi piani per lui. All’età di 13 anni venne spedito nella Marina Reale Britannica, nel pieno delle Guerre Napoleoniche, e vi rimase per 12 anni. Nello svolgimento delle sue funzioni a bordo della flotta, però, venne colpito da una misteriosa malattia che gli procurava dolori insostenibili e che, con il passare del tempo, lo portò alla cecità completa.

James aveva solo 25 anni. Le medaglie all’onore di guerra che si era guadagnato gli interessavano poco, se non poteva riavere la vista. Visto che i medici non sapevano aiutarlo, se ne andò a Edimburgo a studiare medicina per conto suo. Resosi conto che la cecità era davvero irreversibile, il giovane James se ne fece una ragione. Ma non si piegò all’idea che la sua vita fosse finita lì.

L’unica cosa che lo spingesse avanti, l’unica che tenesse a bada la depressione, era per lui trovarsi in un luogo completamente sconosciuto. Grazie ai suoi altri sensi, che aveva imparato ad acuire, e a una sua personale tecnica di ecolocazione (pare sia stato fra i primi a utilizzare il battito del bastone per determinare il perimetro di un’area), James cominciò a viaggiare. Prima in Europa. Poi in Russia. Poi, in qualunque continente ancora poco esplorato.

James viaggiava sempre esclusivamente da solo. Non conosceva lingue straniere, era praticamente senza soldi, e l’unico attrezzo che portava con sé era una sorta di rudimentale macchina da scrivere. Ma aveva dalla sua una memoria prodigiosa, e un fascino personale unico. E così partì per anni e anni di viaggi e avventure.

Venne catturato in Siberia dalle autorità che lo sospettavano una spia (non potevano credere che la sua cecità fosse autentica); cercò di lanciare una ribellione contro la tratta di schiavi in Africa; cacciò elefanti selvatici a Ceylon; in Cina fu uno dei pochi occidentali a lanciare moniti sulla crescente conflittualità sociale che sarebbe poi sfociata nella ribellione di Taiping; cartografò buona parte dell’Australia allora inesplorata; e i suoi resoconti sulle popolazioni indigene di Zanzibar, Seychelles e Madagascar sono ancora oggi apprezzati dagli antropologi.

Il “viaggiatore cieco”, così veniva chiamato, divenne presto uno scrittore best-seller; poi, scemata la novità, la gente se ne dimenticò. Lui, però, continuò a viaggiare: soltanto un costante cambio di aria e scenario potevano risollevarlo dalla malattia. Sempre senza un soldo, sempre senza grosse conoscenze linguistiche, ma armato di un’incrollabile fiducia nella benevolenza del prossimo, James Holman visitò i quattro angoli del globo fino alla morte, avvenuta a 70 anni. Rimase, fino a buona parte del XX secolo, l’uomo che aveva maggiormente viaggiato della storia. Ancora oggi, in Africa, scorre il fiume Holman, così chiamato in suo onore.

In un’epoca in cui alla gente cieca si dava in mano una ciotola per mendicare, perché venivano considerati totalmente disabili, la figura solitaria di Holman che batteva il suo bastone da passeggio esplorando il continenti più selvaggi e pericolosi doveva avere un’aura quasi soprannaturale; e anche oggi le sue imprese hanno mantenuto un fascino unico.

Per chi conosce l’inglese, la biografia di riferimento è A Sense of The World, di Jason Roberts.