R.I.P. Herschell G. Lewis

Yesterday, at the age of 87, Herschell Gordon Lewis passed away.
This man remains an adorable, unique paradox. Clumsy director yet a crafty old devil, completely foreign to the elegance of images, who only ever made movies to scrape out a living. A man who unwillingly changed the history of cinema.

His intuition — even slightly accidental, according to the legend — was to understand B-movies had the task of filling, unveiling mainstream cinema’s ellipses: the key was to try and put inside the frame everything that, for moral or conventional reasons, was usually left off-screen.
A first example were nudies, those little flicks featuring ridiculous plots (if any), only meant to show some buttocks and breasts; a kind of rudimental sexploitation, not even aiming to be erotic. H. G. Lewis was the first to realize there was a second taboo besides nudity that was never being shown in “serious” movies, and on which he could try to cash in: violence, or better, its effects. The obscene view of blood, torn flesh, exposed guts.

In 1960 Hitchcock, in order to get Psycho through censorship, had to promise he would change the editing of the shower scene, because someone in the examination board thought he had seen a frame where the knife blade penetrated Janet Leigh’s skin. It doesn’t matter that Hitch never really re-edited the sequence, but presented it again a month later with no actual modification (and this time nobody saw anything outrageous): the story is nonetheless emblematic of Hays Code‘s impositions at the time.
Three years later, Lewis’ Blood Feast came out. An awfully bad movie, poorly directed and even more awkwardly acted. But its opening sequence was a bomb by itself: on the scene, a woman was stabbed in the eye, then the killer proceeded to dismember her in full details… all this, in a bathtub.
In your face, Sir Alfred.

Of course today even Lewis’ most hardcore scenes, heirs to the butcheries of Grand Guignol, seem laughable on the account of their naivety. It’s even hard to imagine splatter films were once a true genre, before gore became a language.

Explicit violence is today no more than an additional color in the director’s palette, an available option to knowingly choose among others: we find it anywhere, from crime stories to sci-fi, even in comedies. As blood has entered the cinematic lexicon, it is now a well-thought-out element, pondered and carefully weighed, sometimes aestheticised to the extremes of mannerism (I’m looking at you, Quentin).

But in order to get to this freedom, the gore genre had to be relegated for a long time to second and third-rank movies. To those bad, dirty, ugly films which couldn’t show less concern for the sociology of violence, or its symbolic meanings. Which, for that very same reason, were damn exciting in their own right.

Blood Feast is like a Walt Whitman poem“, Lewis loved to repeat. “It’s no good, but it was the first of its type“.
Today, with the death of its godfather, we may declare the splatter genre finally filed and historicized.

But still, any time we are shocked by some brutal killing in the latest Game of Thrones episode, we should spare a thankful thought to this man, and that bucket of cheap offal he purchased just to make a bloody film.

R.I.P. Mike Vraney

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Il 2 gennaio, all’età di 56 anni si è spento Mike Vraney. Sicuramente il suo nome non vi dirà molto, ma questo eterno adolescente dall’entusiasmo senza freni è stato il fondatore della Something Weird, una distribuzione home video che ha cambiato a suo modo la storia del cinema. Giusto per chiarire, se non fosse per lui l’ormai celebratissima pin-up Bettie Page e il padrino del gore Herschell G. Lewis non sarebbero forse oggi così sconosciuti.

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Mike aveva una missione: scovare, distribuire e rendere noti al pubblico tutti quei film a bassissimo budget, prodotti in maniera oscura, che rischiano di venire dimenticati come spazzatura. Collezionava in modo ossessivo film assurdi, weird, talmente folli o brutti da possedere un innegabile potere di seduzione: le pellicole, insomma, in cui le ristrettezze economiche o l’incompetenza della troupe rendono comici e stranamente poetici tutti quegli errori che in un film mainstream non potremmo mai tollerare.

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I produttori di questi film spesso li tenevano chiusi nel casssetto, ritenendoli ringuardabili e invendibili. Vraney, scandagliando i loro archivi, scovava le “perle” nascoste, e comprava i negativi, di cui essi erano ben lieti di sbarazzarsi.
Poi, spiazzando tutti, ci faceva i soldi: per questo motivo era stato soprannominato affettuosamente “il quarantunesimo ladrone”.

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Il suo business funzionava proprio perché era lui stesso in prima persona un fan sfegatato di tutto ciò che di bizzarro il cinema di serie B o Z è riuscito a sfornare. Il catalogo della Something Weird propone al pubblico una gamma sorprendente di “filoni” e generi di cui pochi, anche fra i cinefili più smaliziati, avevano sentito parlare prima che Vraney li distribuisse. Vi si trovano enfatici filmati “educativi” anni ’50 sui pericoli della strada (che talvolta erano degli splatter ante litteram), e sugli esagerati e irrealistici danni della marijuana o del sesso; i nudies cuties, film di inzio anni ’60 che con il pretesto di una striminzita trama proponevano i primi, scandalosi (per l’epoca) nudi femminili; introvabili e rari loop erotici/striptease dell’era del proibizionismo, fra cui appunto quelli di Bettie Page; film pensati per i bambini, ma per un motivo o per l’altro risultati completamente distorti e angoscianti; peplum con scenografie da recita scolastica; spaghetti-western messicaneggianti ridicoli e raffazzonati; i primi film della storia a rappresentare il “terzo sesso” (l’omosessualità), con tutte le ingenuità che ci si può aspettare; e, ancora, cartoni animati svalvolati, detective privati guardoni, assassini pazzoidi più pericolosi per il loro overacting che per la crudeltà, film celebri reinterpretati da un cast interamente di colore, e tutta una galassia di seni, culi, melodrammi, pubblicità ambigue, film di guerra e di avventura senza guerre né avventure (sempre per motivi di budget).

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Le proposte editoriali della Something Weird sono talvolta uno spasso già dal titolo. Eccone alcuni:
The Secret Sex Lives Of Romeo And Juliet (Le segrete vite sessuali di Romeo E Giulietta)
Fire Monsters Vs. The Son Of Hercules (I Mostri del Fuoco contro il Figlio di Ercole)
Masked Man Against The Pirates (L’Uomo Mascherato contro i Pirati)
Superargo Vs. The Faceless Giants (Superargo contro i Giganti Senza Volto)
Diary Of A Nudist (Il Diario di una Nudista)
Adult Version of Jeckyll & Hyde (La versione adulta di Jeckyll & Hyde)
The Fabulous Bastard From Chicago (Il Favoloso Bastardo di Chicago)

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Il cinema, si sa, è un’arte che si mescola e si confonde con l’industria: con buona pace di chi sbraita che i film dovrebbero essere questo o quello, sia i blockbuster di Michael Bay che gli esperimenti di Guy Debord sono cinema. E allora, se qualcosa ci insegna la meticolosa ricerca di Vraney, è che si possono trovare delle piccole pepite anche nell’immensa “fogna” dei film di consumo, quelli che un tempo venivano girati esclusivamente a fini economici, senza alcuna aspirazione artistica… ma che offrono di sicuro almeno una sana risata se non proprio, in rari casi, qualche breve e fulminea illuminazione. E ci fanno riflettere su quanto complessa e variegata sia stata nell’ultimo secolo la produzione cinematografica, e sul patrimonio che andrebbe completamente perduto in assenza di persone come Mike.

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Articolo a cura del nostro inviato speciale a Londra, il guestblogger ipnosarcoma.

Benvenuti a quella che sarà la prima puntata di una lunga serie che è probabilmente già finita con questo articolo. Il titolo di questa non-rubrica si riferisce alla volontà di sondare in profondità le pareti interne dell’apparato digerente di Londra, al fine di verificarne eventuali masse tumorali.

Per questa puntata di una serie nata morta, andremo a esplorare le cavità del borough di Hackney, nell’East End. In particolare, dietro segnalazione di una persona dalla dubbia moralità (moralità? non offendiamo. NdR), mi accingerò a parlarvi di una piccola bottega degli orrori e delle meraviglie situata al numero 11 di Mare Street, a metà strada tra le stazioni di Hackney Central e Bethnal Green, ai confini quindi con il borough di Tower Hamlets.

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Il posto si chiama “The Last Tuesday Society”. Sulla vetrata dell’ingresso si può leggere: Those easily offended by death and decay should stay away . Hanno ragione. Se non vi piace vedere la morte e la decomposizione della materia organica dovreste tenervene alla larga e rimanere a casa. A vedere a ripetizione Cannibal Holocaust. Appena sotto una targhetta recita: This is not a brothel, there are no prostitutes at this address (“Questo non è un bordello, non ci sono prostitute a questo indirizzo”). Lo stesso avvertimento che si poteva leggere sulla porta d’ingresso della casa di Sebastian Horsley. Parleremo più avanti di costui. D’accordo, questo cartello diminuisce l’offerta, ma in ogni caso non ci dissuade, la promessa di esplorare un mondo “exotic, erotic & necrotic” è troppo allettante. Entriamo.

L’ingresso (riservato solo ai maggiori di 21 anni) non è gratuito, se si è intenzionati a varcare la soglia del primo spazio, dedicato all’allegro shopping, per accedere all’inconscio collettivo rimosso e riposto con cura nel piccolo museo all’interno. Due pound per entrare e fare qualche misera fotarella di straforo, cinque se vuoi bullarti con gli amici scrivendo un articolo su Bizzarro Bazar e scattare foto a iosa. Pago ed entro. Ne vale la pena.

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Le prime cose che rimangono impresse: gli animali impagliati. E non stiamo parlando dei soliti animali impagliati. Parliamo di autentiche iene, orsi, pipistrelli, gatti, cani e uccelli di varie dimensioni e razze. Questo per quanto riguarda gli animali meno inquietanti: basta fare pochi passi per vedere molto di più.

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Caprette a due teste. Talpe a due teste. Enormi roditori. Gatti volanti con grandi ali innestate. Teste di varano, di quelli giganti. E altro ancora. Ah, appena scendete le scale per arrivare alle due sale inferiori, non dimenticate di buttare un occhio (che poi conserveranno amorevolmente sotto formalina) al reparto delle offerte: in questo periodo hanno una selezione di pellicce scontate al 50%. Dopodiché, potrete tranquillamente usare la vostra tessera di Greenpeace come stuzzicadenti, per togliervi dalle gengive quei fastidiosi rimasugli di carne animale.

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Fra fenicotteri, teschi di uccelli di specie varie, ossi fossili d’orso (autenticati, a quanto dicono), tartarughe e armadilli, teste umane mozze e insanguinate (finte, mica sono pervertiti qui) che non trovereste neanche nel cassetto delle mutande di Tom Savini, e serpenti conservati in barattoli di marmellata, si arriva ad autentiche chicche del posto.

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Ad esempio, i cimeli legati alla controversa figura del succitato, sovraeccitato, Sebastian Horsley, al quale dedicherò un articolo che comparirà su Donna Moderna di un mese qualsiasi. Artista perverso e controverso, noto puttaniere orgoglioso di ciò, a sua volta collezionista di stravaganze da tutto il mondo, sperimentatore di un’autentica crocefissione senza ricorrere a nessun genere di anestetico, morto di overdose di speedball. Qui abbiamo l’onore di poter vedere diversi oggetti a lui appartenuti come, ad esempio, le sue scarpe vittoriane, i suoi occhiali da sole psichedelici color rapa rossa, e la siringa con cui si è iniettato la dose che lo ha portato alla morte nel suo appartamento a Soho. Pace all’anima sua, se mai ne ha avuta una. Ma andiamo avanti.

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In un’altra vetrina possiamo ammirare un autentico baculum di tricheco, che poi non è altro che l’osso del pene del suddetto animale. Se volete potete acquistarlo: niente dice “ti amo” come un articolo degenere del genere, anche se, ahimè, San Valentino è ormai passato.

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Non lontano entriamo nel campo del mito: preziosamente incorniciato, possiamo ammirare il dito indice mummificato di Pancho Villa. La leggenda vuole che la sua testa sia stata trafugata dalla tomba da un certo Capitano Emil L. Holmdahl per venderla a un eccentrico milionario. Già che c’erano, al noto rivoluzionario è stato asportato un dito, a lungo usato dalla popolazione messicana come reliquia. Un po’ come il Sacro Prepuzio di Gesù, sul quale non mi dilungherò per riverenza e per necessità di sintesi (e perché ne abbiamo già parlato in questo articolo, NdR).

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D’accordo, mi fermo qui, molte cose le vedrete nelle foto, altre vi invito ad andare a vederle di persona quando visiterete Londra. Da segnalare alcuni preziosi libri che si possono ammirare, fra i quali ho il piacere di ricordare: Oral sadism and the vegetarian personality, What to say when you talk to your self e Sex instructions for Irish farmers, il quale però, con mio disappunto, si riferisce al sesso fra gli animali e non con il fattore – niente romanticismi alla Vase de noche, meglio conosciuto ai fan come The pig fucking movie. Altre chicche da non perdere: la cacca in barattolo di alcune celebrità (sono aperte le donazioni), fra cui quella di Kylie Minogue e niente meno che quella di Amy Winehouse, che pare aver raggiunto ora quotazioni da capogiro. Avrete il coraggio di esaminarne l’autenticità?

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Ma il reperto per me più commovente è il foglio firmato da Maria de Silva. Sono sicuro che non ne avrete sentito parlare, perché probabilmente anche i suoi parenti faranno fatica a ricordarsi di lei. Maria è (era?) l’inserviente presso un certo Hill Club, e ci ha rilasciato una dichiarazione autografa che recita, in calligrafia tremolante: “Io, Maria de Silva, ho lavorato al Hill Club il 22 Agosto 2003, ho pulito la stanza usata dai Rolling Stones e ho trovato questi preservativi e questo Viagara”. Non Viagra, Viagara. E naturalmente, nella vetrina dedicata, possiamo ammirare il barattolo contenente i preservativi e la confezione di Viagra menzionati. È questo che più ci fa amare questo posto: come nella migliore tradizione delle wunderkammer, dei freakshow e degli exploitation movies che ci hanno fatto battere il cuore quando eravamo adolescenti, non è la veridicità a contare, è il tasto dell’inconscio che viene premuto. Consigliato a tutti i lettori di Bizzarro Bazar. Ricordatevi, però, che il negozio è aperto esclusivamente di sabato, dalle 12 alle 19, oppure su appuntamento. Per i dettagli vi rimando al sito ufficiale.

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Snuff Movies

Di tanto in tanto, nelle notizie di cronaca più sensazionalistiche, fanno capolino i fantomatici snuff movies. Se ne parla da decenni e, nonostante le centinaia di pagine di inchiostro scritte al proposito, l’alone di mistero che li circonfonde resiste. Cosa sono esattamente?

Molti di voi sapranno già la risposta: si tratta di film prodotti a basso budget in cui vengono mostrate sevizie e torture reali, che culminano con l’uccisione del “protagonista” davanti al freddo occhio della videocamera, senza effetti speciali e senza trucchi. La morte violenta e reale della vittima di uno snuff movie garantisce un mercato esclusivo per la pellicola in questione, che viene venduta  a peso d’oro ai collezionisti più morbosi e depravati. Questo, almeno, è quanto si racconta. Sì, perché in verità nessuno ha mai visto uno snuff movie.

Essendo la morte, nella nostra cultura, un tabù progressivamente sostituito dalla sua immagine, sempre più onnipresente, la curiosità di vedere la morte, nell’esatto momento in cui avviene, cresce di continuo. Così, di filmati che mostrano la morte in diretta se ne trovano a centinaia su internet: dai classici intramontabili quali il suicidio di Budd Dwyer (prima grande star del voyeurismo mediatico, suo malgrado), fino alle decapitazioni ad opera dei terroristi islamici, alle atrocità di guerra negli stati sovietici o agli incidenti fatali più agghiaccianti, la morte su internet è presente in abbondanza. Trovare addirittura fotografie e filmati realizzati da alcuni serial killer, che mostrano violenze e smembramenti davvero agghiaccianti, è in definitiva un gioco da ragazzi.

Ma gli snuff sarebbero qualcosa di differente. Lo snuff movie dovrebbe avere alle spalle una vera e propria produzione, ed essere girato con l’unico scopo di mostrare un omicidio reale, senza alcuna altra motivazione che il profitto derivante dalla vendita del film. I filmati in cui vediamo un serial killer uccidere le sue vittime non sono snuff, perché originariamente intesi per uso personale. Lo snuff vero e proprio prevede una organizzazione che intrappola vittime innocenti e le sacrifica in nome di un mercato sotterraneo alla ricerca di emozioni sempre più forti.

Insomma, avete capito l’antifona: qualche miliardario senza scrupoli (solitamente americano) ordina un filmato di morte, e un gruppo di persone organizza un apposito set (solitamente in Sudamerica, dove la vita è più a buon mercato), per realizzarlo con il “contributo” di una ignara attrice assassinata davanti alla macchina da presa. Non so se in questo momento a voi sta suonando un campanello di allarme. Farebbe bene a suonare, con una scritta lampeggiante che dice “LEGGENDA METROPOLITANA”.

Analizziamo i concetti base della storia. Il ricco miliardario è in realtà un morboso e sadico voyeurista. Già questo personaggio (basato sull’idea che i soldi rendono “sporchi” e “diabolici”, e spingono alla ricerca dell’estremo onanismo sadico, visto che i piaceri comuni non bastano più) puzza di cliché. Se esaminiamo il resto della leggenda – la prostituta spesso proveniente dal Terzo Mondo, a sottolineare come la gente povera sia disposta a tutto – ci ritroviamo all’interno dei più triti preconcetti da bar. Unite a questo una spruzzata di superstizione nei riguardi della macchina da presa che “ruba l’anima”, un etto di chiacchiere sull’assenza di scrupolo da parte dei media, ed ecco che la leggenda diventa plausibile agli occhi dei più.

Nessuno snuff è mai stato ritrovato in nessun angolo del mondo, fino ad ora. Né l’FBI, né alcuna altra organizzazione investigativa ne ha mai rilevato traccia. E, nell’era di internet, nessuno snuff è mai affiorato sulla rete. La storia di questa persistente leggenda urbana è particolarmente interessante perché, a differenza di altri miti moderni, ha un inizio ben preciso.

Nel 1971 Michael e Roberta Findlay girano in Cile e Argentina un film intitolato Slaughter. La pellicola cercava di far leva sulla strage di Bel Air, avvenuta due anni prima, nella quale perse la vita anche la moglie di Roman Polanski, Sharon Tate, ad opera degli adepti di Charles Manson. Slaughter si rivela un filmaccio a basso budget della peggior specie, ma viene acquistato per una miseria dal distributore Allan Shackleton nel ’72. Per distribuire una tale porcheria, Shackleton (che era della vecchia scuola di distributori di sexploitation, abituato a inventarsi le trovate più mirabolanti pur di vendere una pellicola) decide che ci vuole una mossa di marketing costruita a regola d’arte.

Mette così in piedi una campagna pubblicitaria ad effetto, lasciando intendere che il film sia stato originariamente sequestrato dalla polizia mentre veniva contrabbandato dal Sudamerica agli Stati Uniti, e che presenti nel finale una sequenza di omicidio non simulata. Cambia il titolo della pellicola in Snuff.  Distribuisce addirittura ritagli di giornale a firma di un giornalista, “Vincent Sheehan”, che nei suoi articoli astiosi polemizza contro l’uscita del film nelle sale. Sheehan è ovviamente un altro parto della fervida fantasia di Shackleton.

“L’isteria della stampa fa il resto: i critici di tutto il paese si lanciano in fumiganti filippiche contro il film, prendendo per buone le panzane di Shackleton e dando così credibilità alle voci giudiziosamente sparse dal distributore. Prima ancora di uscire nelle sale, Snuff è già oggetto di scandalo e riprovazione. Il bello è che Shackleton deve ancora preparare il finale vero e proprio del film, che rimpiazzerà quello originario di Slaughter: i cinque minuti finali vengono girati […] in un solo giorno in un appartamento di Manhattan, al costo di 10.000 dollari” (da Sex and Violence, di R. Curti e T. La Selva, 2003, Lindau).

Nonostante Shackleton sia in seguito costretto ad ammettere che si trattava di una bufala, il clamore suscitato dalla pellicola fonda il mito degli snuff movie. Da lì in poi, sarà tutto un susseguirsi di operazioni di bassa exploitation che cercheranno di sfruttare quest’idea geniale. Nei cosiddetti mondo movies italiani molte scene “documentaristiche” sono in realtà ricreate ad arte e spacciate per vere, e così farà anche Ruggero Deodato nel suo famigerato Cannibal Holocaust (1978): il regista chiederà addirittura agli attori (tra i quali figura un giovane Luca Barbareschi, protagonista di una controversa scena in cui spara a un maialino) di scomparire dalla circolazione nei mesi successivi all’uscita del film, per alimentare la leggenda che le loro “morti” non fossero simulate.

Con regolarità, nei decenni successivi, di tanto in tanto spunta qualche sequenza di sevizie che fa il giro del mondo perché ritenuta uno snuff, salvo poi rendersi conto che è stata estrapolata da qualche film horror di bassa lega. Anche l’attore Charlie Sheen viene gabbato nel 1997, quando viene in possesso di uno snuff incredibile: una donna giapponese, legata ad un letto, viene seviziata e fatta lentamente a pezzi da un uomo vestito da samurai. Sheen, sconvolto, consegna il filmato all’FBI, convinto che si tratti di torture vere. Si scoprirà quasi subito che le riprese provengono dalla serie TV giapponese Guinea Pig, girata negli anni ’80 e famosa per i suoi effetti speciali iperrealistici.

Per quanto possa sembrare sorprendente, ancora oggi la leggenda resiste, viva e vegeta, nonostante l’assenza di prove e le continue bufale smascherate di volta in volta. Ancora più strano è che questo mito perduri in un’epoca in cui basta un po’ di esperienza per scovare sulla rete diversi siti che propongono efferatezze e crudeltà (purtroppo) tutt’altro che inventate. Ma gli snuff movies evidentemente hanno un fattore in più, che fa presa sull’immaginario collettivo: come in una favola moderna, ci parlano simbolicamente dell’avidità umana, della mancanza di scrupoli e del pericoloso potere occulto delle immagini.

R.I.P. Tura Satana

La regina dell’exploitation ci ha lasciato. L’indimenticabile interprete di Varla in Faster, Pussycat! Kill! Kill! (1965, Russ Meyer) si è spenta venerdì scorso nella città di Reno, Nevada, all’età di 73 anni.

Coffin Joe

Benvenuti in Brasile, terra di sole, samba, bossa nova, piume colorate e carnevali pittoreschi.

E terra di una delle icone più tenebrose, ciniche e strambe del cinema weird – benvenuti anche nello strano mondo di Coffin Joe.

Coffin Joe (americanizzazione di Zé do Caixão, “Joe della Bara”) è il personaggio creato da José Mojica Marins nel 1963 per il film seminale À Meia-Noite Levarei Sua Alma (“A mezzanotte prenderò la tua anima”). Il film è considerato il primo horror brasiliano, e Marins si era deciso a girarlo a basso budget ispirandosi a un incubo che aveva fatto, nel quale un demoniaco becchino lo trascinava verso la tomba; poco prima delle riprese l’attore protagonista diede forfait, e José fu costretto a interpretarlo di persona, oltre che a dirigere. Questa fu, nell’imprevisto, la più grande fortuna nella vita di Marins.

Zé do Caixão è un personaggio che sembra uscito dritto dritto dagli E.C. Comics, quelli di Crypt Keeper (Zio Tibia, per intenderci): è un becchino perennemente vestito di nero, porta una vistosa tuba, barbetta mefistofelica e unghie lunghissime ed arricciate a mo’ di artigli. Odiato dai campesinos, che lo temono per i suoi continui soprusi, egli spadroneggia con crudeltà e violenza nel piccolo borgo rurale in cui vive. Ma Zé ha anche un lato più “adulto” e scorretto, che lo distingue dai personaggi classici dei film horror di quegli anni: è un assassino amorale, apertamente nichilista e blasfemo, e dedito alla ricerca dell’unica cosa che abbia valore per un ateo come lui: la “continuità del sangue”, cioè la creazione di una stirpe. Per questo cerca incessantemente la donna giusta da violentare affinché gli doni un figlio.

Già da questa breve sintesi si comprende come, in un paese radicalmente cattolico come il Brasile di inizio anni ’60, una pellicola “cattiva” e aggressiva come A Meia-Noite potesse creare scalpore. In una scena Zé, contro ogni precetto religioso, mangia euforico uno stinco di maiale davanti alla processione del Venerdì Santo, sbeffeggiando i credenti per la loro stupidità. In un’altra, lega sua moglie al letto e, come punizione per non aver saputo dargli una discendenza, le fa camminare sul corpo semisvestito un’enorme tarantola che la morde, uccidendola. Zé quindi, pur di ottenere la donna di un suo amico, non esita ad annegarlo senza pietà per poi cercare di ingravidare la spaventata vedova. Il tutto condito dalle considerazioni filosofiche rabbiose, le invettive contro la codardia e l’inferiorità dei suoi simili, e la sfrenata mitomania di un super-uomo negativo e malvagio, in una specie di ingenua e fumettistica elegia del male. Nietzsche filtrato dalla sensibilità di un adolescente cresciuto a pane e Dracula, insomma.

L’anti-eroe creato da Marins fu censurato, osteggiato e creò un putiferio all’uscita nelle sale. Nelle provincie in cui era possibile vederlo nei cinema, il film fece incassi senza precedenti. Il successo enorme spinse Marins a continuare su quella strada, e a sviluppare ulteriormente il suo personaggio. Nel seguito al primo film, intitolato Esta Noite encarnarei no Teu Cadàver (“Questa notte possiederò il tuo cadavere”), del 1967, Coffin Joe ritorna più cattivo e potente che mai… e ancora ossessionato dalla ricerca della madre perfetta per la sua discendenza. Da questo momento in poi Zé do Caixão diventa una vera e propria icona del cinema brasiliano, e conquista fumetti, musica, TV, patrocinando il merchandising più vario (da una linea di profumi a una di manicure!). José Mojica Marins raramente esce dal personaggio anche durante le interviste e le apparizioni televisive o per la stampa: si presenta immancabilmente vestito di nero, con la sua tuba e le unghie  lunghissime (che si lascerà crescere fino al 1998).

Coffin Joe è fin dall’inizio immaginato come protagonista di un’imponenete esalogia dantesca, ma i soldi per il terzo titolo della saga arriveranno solo nel 2008, con il titolo Encarnação do Demônio. Nel frattempo, Marins sforna innumerevoli altri film in cui Coffin Joe appare marginalmente, solitamente confinato nel mondo degli incubi, o in limbi allucinati e surreali. Da un certo punto in poi la sua popolarità decresce, nonostante Marins continui a tenere vivo il suo personaggio tramite trasmissioni televisive, fumetti e quant’altro. In alcuni film egli gioca con il suo personaggio, mettendosi a nudo in prima persona, cominciando a prendere le distanze dal suo alter ego mefistofelico (“Zé do Caixão non esiste!”), e in alcune sequenze Marins sfida Coffin Joe in duelli all’ultimo sangue.

Nel 1985 Marins, per motivi finanziari, acconsente a dirigere un film pornografico, che ha un inaspettato successo; nonostante il suo disprezzo per la pornografia, Marins ne dirige quindi il sequel, ma decide di buttarsi nuovamente in prima persona nel film. Così, nel corso di una maratona di 48 ore di sesso, Marins si aggira attraverso la marea di corpi sudati e copulanti, impartendo ordini, dando istruzioni su che posizioni assumere, come e dove eiaculare. Scrivono Curti e La Selva nel loro imprescindibile saggio Sex and violence: percorsi nel cinema estremo (Lindau, 2003): “più che il discorso metalinguistico, colpiscono l’ammirevole coerenza e la faccia tosta, la stessa che il regista mostra oggi, a 70 anni suonati, salendo sui palchi dei festival con gli inseparabili mantello e tuba ed esibendosi nella parte di Zé do Caixão per un pubblico che dei suoi film apprezza spesso solo il fattore camp. Pare innocuo, con quell’aria un po’ da imbonitore di fiera e un po’ da pugile suonato, ma alla fine resta il sospetto che sia lui a ridere alle nostre spalle, anziché il contrario. Proprio come nei suoi migliori film”.

Nel 2001, il documentario che ripercorre la carriera del regista, intitolato Maldito – O Estranho Mundo de José Mojica Marins, vince il premio speciale della giuria al Sundance Film Festival.

Resta il fatto che, nella marea di filmacci “rivalutati” negli ultimi anni dagli amanti del trash, José Mojica Marins sia fra gli autori meno sprovveduti, soprattutto a livello figurativo. Egli resta a metà strada fra Mario Bava, il surrealismo di Buñuel o il panico di Jodorowksy, e l’exploitation “d’autore” di un Russ Meyer. I suoi film, seppur girati con budget irrisori, vantano sempre una fotografia suggestiva, e una particolare cura per le location. E seppure nelle intenzioni dell’autore fossero degli horror con un messaggio (l’attacco alla sonnolenza di un proletariato bigotto e superstizioso), la critica sociale è sempre smorzata dallo sguardo sornione, sopra le righe, del becchino dalle unghie smisurate.