Atlantropa

Guardate una mappa della buona, vecchia Europa: rimasta immutata per secoli, per millenni. In un certo senso, è rassicurante seguire con lo sguardo i contorni frastagliati e familiari del bacino del Mediterraneo, che ha cullato la nostra cultura, da Scilla e Cariddi alle colonne d’Ercole, dalla foce del Nilo alla Terra Promessa. Eppure meno di cento anni fa c’era qualcuno che, guardando la stessa cartina geografica, vedeva tutt’altro: i suoi occhi vi scorgevano un’opportunità, un mondo nuovo, la più grande opera architettonica dell’umanità. Ecco a voi Herman Sörgel, l’uomo che sognava di cambiare il volto di due continenti.

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All’inizio del XX Secolo, lo spirito generale era positivo ed ottimista; nonostante la Guerra, c’era una bella aria di cambiamento, di progresso scientifico e di rinnovamento politico e sociale. La tecnologia riduceva sempre di più le distanze fra i continenti, grazie a telegrafi senza fili, radio, aeroplani, e cineprese. C’era la sensazione, ben esemplificata dalla furia del nostro Marinetti, che il futuro fosse luminoso e già alle porte; e questo si rifletteva anche nelle nuove mode architettoniche come ad esempio il Bauhaus, scuola tedesca all’avanguardia per le inedite soluzioni razionali, funzionali e dal design fantascientifico. Insomma, tutto sembrava possibile – bastava avere il coraggio di pensare in grande.

Se una cosa si può dire di Herman Sörgel, classe 1885, è che pensava davvero in grande. Il progetto della sua vita, pianificato nel 1927 (anno di Metropolis di Fritz Lang… coincidenza?) e presentato ufficialmente nel 1928, era la più titanica opera di ridefinizione geofisica mai immaginata. In soldoni, Sörgel voleva creare un nuovo super-continente, chiamato Atlantropa, unendo l’Europa all’Africa. “E come?”, vi chiederete.
Che domande.
Prosciugando il Mediterraneo, ovviamente.

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Per prima cosa, andavano chiusi lo stretto di Gibilterra, il canale di Suez e lo stretto dei Dardanelli con una serie di imponenti dighe, in modo da isolare completamente il Mediterraneo dagli oceani. A questo punto, toccava aspettare un po’: il mare sarebbe evaporato al ritmo di quasi due metri all’anno, processo ulteriormente velocizzato con l’aiuto di pompe idrauliche. L’Adriatico sarebbe quasi scomparso, e tutte le altre coste sarebbero state ridisegnate con l’emergere dei fondali.

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Ma Sörgel non voleva far essiccare tutta l’acqua, perché quello che gli interessava era creare una serie di dislivelli all’interno dell’enorme bacino. Ad ovest, il mare sarebbe stato abbassato di circa 100 metri, mentre ad est sarebbe calato di 200 metri. La Sicilia, ormai quasi unita alla Tunisia da una parte e alla Calabria dall’altra, avrebbe ospitato delle dighe interne che, sfruttando il dislivello fra Mediterraneo occidentale ed orientale, avrebbero alimentato delle enormi centrali idroelettriche. Non solo: l’Italia, ormai unita all’Africa (da Marsala a Tunisi ci sarebbe bastato un ponte) avrebbe funzionato come canale di comunicazione privilegiato con la parte meridionale di Atlantropa.

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Anche per l’Africa Sörgel aveva dei piani di rinnovamento: sbarrando con un’ulteriore diga il fiume Congo, si sarebbe creato un gigantesco lago di 135.000 km² al centro del continente; calcolò che questo avrebbe invertito il corso del fiume Ubangi, che fluendo a nordovest nel fiume Chari avrebbe trasformato il Lago Ciad nel “Mare del Ciad”, di ben 270.000 km². Quest’ultimo sarebbe infine stato collegato a ciò che rimaneva del Mediterraneo attraverso un “secondo Nilo” per irrigare l’Algeria e il Sahara.

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Che bisogno c’era di tutto questo? Sörgel era convinto che i benefici della sua visione utopica fossero incalcolabili. Innanzitutto, il complesso sistema di dighe e centrali idroelettriche avrebbe soddisfatto il fabbisogno di energia non soltanto europeo, ma anche della quasi totalità dell’Africa; inoltre, prosciugato il Mediterraneo, l’emergere di circa 660.000 km² di terre costiere avrebbe garantito nuove aree agricole. L’Europa si sarebbe riappacificata grazie agli sforzi collaborativi necessari per completare l’opera, e il nuovo super-continente, Atlantropa, sarebbe stato grande ed economicamente forte quanto l’Asia o le Americhe. E immaginate quale gioia avrebbero provato gli archeologi a vedere rispuntare le svariate migliaia di relitti di navi persiane, romane e greche che riposavano sui fondali fin dall’antichità!

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Visto oggi, il progetto Atlantropa sembra una follia: sigillare il Mediterraneo significherebbe aumentarne la salinità a dismisura, creando una specie di enorme Mar Morto senza vita alcuna. Le terre emerse, ricoperte di sale, sarebbero tutt’altro che coltivabili; la Corrente del Golfo, non potendo più contare sul riversamento di una parte delle sue acque oltre Gibilterra, cambierebbe forse il suo flusso, rendendo ghiacciato il Nord Europa. Tutto questo senza considerare l’idea di alluvionare tutto l’interno dell’Africa.

All’epoca, però, il dibattito che Atlantropa suscitò fu enorme, e continuò per tutta la metà del ‘900. Si poteva fare, non si poteva? I sostenitori illustri erano molti, ma purtroppo il progetto non incontrò il favore della persona giusta – vale a dire, del Führer. Hitler infatti non aveva alcuna intenzione di collaborare con gli altri stati europei e inoltre, come purtroppo sappiamo, aveva piani ben diversi per ottenere lo “spazio vitale” di cui necessitava il popolo tedesco.

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Il sogno di Sörgel, che poteva rivelarsi un incubo, non ebbe mai un futuro. Infatti Atlantropa, a suo modo, prevedeva la partecipazione, l’industrializzazione e l’emancipazione dei popoli africani – e questo non era un punto a favore in periodi di leggi razziali ed espansionismo coloniale; disperato, Sörgel provò perfino a smussare questi “angoli” troppo egualitari, e a colorare il progetto di toni razzisti pur di compiacere il regime, ma Hitler non ci cascò. All’architetto venne proibita ogni ulteriore pubblicazione, e rifiutato il visto per portare le sue idee alla Fiera Internazionale di New York del 1939.

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Sörgel morì nel 1952 a Monaco di Baviera, e l’Istituto Atlantropa chiuse i battenti sei anni più tardi, dichiarando il tutto come “un progetto superato”.

Controllo della mente

Uno degli scienziati più controversi, divenuto col passare degli anni un “mostro” assoluto ma sempre più nebuloso nella mitologia del XX secolo, è José Delgado.

Spagnolo di origine, classe 1915, si trasferì in America accettando la cattedra di fisiologia alla prestigiosa università di Yale nel 1946. Era particolarmente interessato agli studi di neurofisiologia, allora agli albori, e in dettaglio la sua ricerca consisteva nell’esplorare le reazioni del cervello stimolato da impulsi elettrici. Mise a punto lo stimoceiver, un microchip radiocomandato che poteva stimolare le onde cerebrali monitorandole al tempo stesso mediante elettroencefalogramma. Questo permetteva libertà di movimento al soggetto dell’esperimento, e il controllo a distanza da parte degli sperimentatori.

Impiantò gli stimoceiver nei cervelli di gatti, scimpanzè, scimmie, gibboni, tori e anche esseri umani. Stimolando la corteccia motoria, era in grado di controllare i movimenti degli animali indipendentemente dalla volontà di questi ultimi. Poteva far loro alzare una gamba, muovere la testa, senza che i soggetti potessero opporvisi. Nell’esperimento a suo dire più importante, impiantò nel cervello di un gibbone dominante e aggressivo un microchip collegato ad una leva: ogni volta che la leva veniva azionata, lo stimolo elettrico induceva nel gibbone un’immediata quiete. Pose la leva all’interno della gabbia, e alle femmine di scimmia occorse poco tempo prima di scoprire che tirare la leva inibiva gli attacchi del “bullo” in questione. Così le femmine impararono a tirare la leva ogniqualvolta il comportamento del gibbone aggressivo diveniva minaccioso.

In quella che fu la sua più spettacolare dimostrazione, Delgado si improvvisò torero. Sceso pubblicamente nell’arena di un allevamento di tori a Cordoba, José sfidò un toro a cui era stato impiantato lo stimoceiver. Quando il toro lo caricò, all’ultimo istante, come un abile prestigiatore della mente, Delgado premette il pulsante del suo radiocomando, e il toro interruppe la corsa, allontanandosi confuso. Un altro suo esperimento riguardava i “fusi neuromuscolari” (sequenze di onde cerebrali con una specifica frequenza): ogni volta che il cervello della scimmia Paddy ne produceva uno, il chip stimolava la materia grigia della scimmia con una “sensazione di avversione”. Nel giro di poche ore, i fusi erano notevolmente diminuiti.

La ricerca sugli umani non andò altrettanto bene. Un soggetto chiudeva il pugno in modo involontario, confessando al dottore che “la sua elettricità è più forte della mia volontà”. Un altro, la cui testa si girava a destra e a sinistra in modo incontrollato, non riusciva invece ad abbandonare l’idea del libero arbitrio, e affermava “Lo sto facendo volontariamente. Sto solo cercando le mie pantofole”. Ma in generale Delgado notò che le risposte erano talmente soggettive che non potevano essere ritenute rilevanti. Così, nonostante le pressioni (molti pazienti con problemi mentali chiedevano insistentemente di essere “curati” con il microchip), Delgado finì per sperimentare la sua invenzione su una percentuale bassissima di volontari.

Questo non gli impedì di preconizzare una società futura “psicocivilizzata”, in cui ogni istinto sovversivo o criminale potesse essere inibito con la semplice pressione di un bottone. Stupri? Istinti aggressivi e violenti? Sarebbero tutti spariti grazie al microchip. Le tendenze reazionarie della sua visione del mondo non tardarono a catalizzare su di lui l’indignazione e la condanna pubblica. In un mondo in cui ogni mente è controllata, nessuna ribellione è possibile.

Così, nonostante il suo stimoceiver facesse la fortuna degli scrittori di fantascienza, Delgado si ritirò nuovamente in Spagna e gradualmente scomparve dalla ribalta internazionale, verso la metà degli anni ’70. Il suo nome venne citato sempre meno frequentemente nelle ricerche, e alcuni pensarono addirittura che fosse morto. Ma José Delgado è vivo e vegeto, e alla veneranda età di 95 anni, anche se non lavora più, è ancora elettrizzato dalle nuove scoperte nel campo della stimolazione cerebrale.

Delgado divenne con il tempo un nome associato alla scienza “malvagia”, quella deriva nazista e senza scrupoli che, figlia degli esperimenti di Mengele, aspira ad ottenere il controllo sulle menti e le vite dei cittadini. In realtà i microchip sono recentemente tornati alla ribalta e, come spesso accade nella tecnologia più controversa, gli esperimenti di Delgado hanno spianato la via ad un utilizzo della tecnologia degli impianti cerebrali per curare patologie come distonia, epilessia e Parkinson. Ultimamente, poi, le terapie cerebrali hanno sviluppato tecnologie sempre meno invasive che implicano l’utilizzo di caschi stimolanti le varie aree cerebrali, sperimentati anzitempo da Delgado in prima persona e da sua figlia Linda.

Oggi i vari saggi e le relazioni sui nuovi esperimenti citano raramente Delgado, che è divenuto una sorta di paria della scienza a causa delle sue posizioni troppo “estremiste” e “destrorse” negli anni ’70. Il placido vecchietto che oggi è José Manuel Rodriguez Delgado guarda distaccato alle accuse dei cospirazionisti di voler controllare la mente delle persone, scuote la testa, e dice semplicemente: “È pura fantascienza”.

Ecco un articolo dettagliato sulle ricerche di José Delgado.