De profundis

The second title of the Bizzarro Bazar Series is now available for pre-order.

After exploring the Palermo Capuchin Catacombs in the first volume, now we enter another unique place, the Fontanelle Cemetery in Naples, where one of the most peculiar and fascinating devotional cults has developed.

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Buried in the heart of the city, the Sanità quarter is an authentic borderland between the world of the living and the world of the dead. You only need to distance yourself from the hustle and bustle, from the megaphones of the fruit and vegetable stalls, the mopeds ridden by fearless street urchins darting between the cars, and reach the top of the area: here on the right of the church of Maria Santissima del Carmine, is the Fontanelle cemetery.

Situated within an ancient tuff quarry, the cemetery is an imposing underground cathedral, hovering between darkness and the swathes of light cutting through it.

Thousands of bones and skulls are piled up for all to see, the remains of at least 40,000 anonymous human beings. In this evocative and peaceful place, death is no longer insurmountable: the living and the souls of the deceased communicate with each other by means of the so-called capuzzelle, which embody the ancestral obsession with the skull as an icon of transcendence and the promise of eternal life.

 

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Here the skulls are spoken to, touched, and cleaned. They are taken care of. Candles are lit, offerings are given and favours asked for in a do ut des of worship.

This is the cult of the anime pezzentelle, abandoned and anonymous souls, in need of the compassion of the living to alleviate their suffering in Purgatory. In return, they promise to be kind to the devout believer, helping out with health problems, finding a husband for young unmarried girls, solving financial issues or providing the winning lottery numbers. Although the cult is now almost completely abandoned, it still resists, and its traces are well visible in the Cemetery.

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There are countless ossuaries around the world, but the suggestion of the Fontanelle Cemetery is quite specific. On one hand, the compassionate and sober disposition of the human remains shows no sign of macabre or baroque taste, introducing the visitor to a suspended quiet as if he was entering a real sanctuary; on the other hand, the devotion of the people has somewhat mitigated the memento mori effect – not just on the account of those colorful, often ironic legends and myths surrounding the skulls, but also by elaborating the cult of the souls of Purgatory in a peculiar way, through unprecedented rules and rituals. Thus, adding to the wonder of thousands of piled up bones under the immense vault, one can feel a palpable devotion, transforming the skulls from figurations of mortality to symbols of transcendence.

Carlo Vannini‘s photographs plunge us into the enchanted atmosphere of the underground cathedral, revealing its gloomy charm and bringing us so close to the capuzzelle – bare or adorned with various votive offerings such as handkerchieves, little holy pictures, coloured rosary beads etc. – that their eyeholes seem to meet our eyes with a glance which is not less alive.

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De profundis, with texts in Italian and English, will be available in Italian bookstores (and online retailers worldwide) from May 18th and will be officially launched at the Turin International Book Fair, with book signing sessions on May 16 th and 17 th.

If you are not going to attend the book fair, you can order your signed copy here, which will be shipped after the book fair is over, by May 25th.

For further info, please check out the official bookstore for the Bizzarro Bazar series and our Facebook page.

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“La Veglia Eterna” è qui!

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Vi avevamo anticipato che il primo volume della Collana Bizzarro Bazar sarebbe stato disponibile nelle librerie a partire dal 15 ottobre. E infatti, per il comune e ignaro avventore sarà così. Ma per voi appassionati, che seguite regolarmente il blog, c’è una sorpresa!

In anteprima per tutti i lettori di Bizzarro Bazar, La Veglia Eterna (Logos Edizioni) è infatti già disponibile ordinando direttamente da questo link. Tutte le copie, precedentemente prenotate oppure ordinate a partire da questo momento, verranno spedite immediatamente.

Il libro è un’esplorazione delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo che ripercorre la storia, la rilevanza antropologica, le tecniche di conservazione dei corpi e i curiosi aneddoti relativi a questa cripta cimiteriale, che ospita la più grande collezione di mummie naturali e artificiali del mondo. Ad accompagnarci e a guidare il nostro sguardo, mentre scendiamo gli scalini delle Catacombe, saranno le straordinarie fotografie di Carlo Vannini.

In chiusura, segnaliamo che lo splendido blog Salone del Lutto ha pubblicato proprio oggi questa recensione del nostro libro.

Buona lettura a tutti!

La veglia eterna

Paul Cadden

(Articolo a cura della nostra guestblogger Marialuisa)

La meraviglia che si prova di fronte ad alcune opere di Paul Cadden è difficile da spiegare, osservare ogni ruga dei suoi personaggi, le espressioni e gli sguardi, la tensione che sentiamo nell’immagine come se noi stessi ne facessimo parte.

Belle foto? No. Bei quadri in grafite, questo è l’elemento che sicuramente ci stupisce, una realtà perfetta rimasta impressa da una matita, composta da minuscoli tratti impercettibili. Difficile pensare che sono disegni, che non è un attimo impresso su una foto.

Il motivo che ha spinto Paul Cadden a creare quadri iperrealisti piuttosto che di altro genere è il fatto di essere profondamente affascinato dalla continua distorsione della realtà che ci circonda.

La facilità con cui i media, ma anche le stesse persone riescono a manipolare la percezione della realtà di masse intere, la propensione a distorcere un fatto per avere ragione in una semplice discussione, tutto questo lo spinge a creare quadri in cui la realtà sembra un fatto così immobile ma anche vero, tale da essere incontestabile e interpretabile da chiunque a modo suo senza filtri.

L’iperrealismo permette di aggiungere dettagli non reali nella foto iniziale per darci la possibilità di avere la sensazione di poter vedere molti più oggetti, molti più dettagli di quanti non riesca a cogliere il nostro occhio in una foto o nella realtà stessa.

Appiattire i soggetti, eliminando ogni tipo di colore attraverso la grafite, permette al nostro occhio di rilassarsi e guardare tutto senza disturbi: quello che l’artista cerca di fare è proiettarci in una realtà ripulita da oggetti estranei, sensazioni disturbanti – è tutto lì, alla nostra portata, tutto valutabile, tutto immobile eppure in tensione.

Paul Cadden attraverso le sue opere ci porta a osservare i suoi soggetti ma anche lo stesso mondo in cui viviamo, stralci di società, con occhio imperturbabile e finalmente oggettivo.

Dal suo stesso sito vorrei riportare una frase che ben rappresenta il suo pensiero riguardo alla realtà al di fuori delle sue opere.

Noam Chomsky: “In ogni luogo, dalla cultura popolare ai sistemi di propaganda, c’è una costante pressione per far sì che le persone si sentano deboli e confuse, che il loro unico ruolo sia quello di rettificare decisioni e consumare”.

Questo è il link al suo sito.

La biblioteca delle meraviglie – III

FREAKS – LA COLLEZIONE AKIMITSU NARUYAMA

(2000, Logos)

Ovvero “Lo Sfruttamento Delle Anomalie Fisiche Nei Circhi E Negli Spettacoli Itineranti”.

L’impressionante collezione fotografica di meraviglie umane di Naruyama è un vero tesoro. Immagini storiche, di un’importanza eccezionale, raccolte in un libricino che, pur non offrendo un approfondito background storico, ha il potere di stregare il lettore grazie alla bellezza delle illustrazioni. Dai Lillipuziani alla Meraviglia Senza Braccia, dai Bambini Aztechi ai ragazzi-leone, tutti i più famosi freaks vissuti a cavallo fra diciannovesimo e ventesimo secolo sono presenti nella raccolta; molte delle fotografie sono infatti relative agli spettacoli circensi e alle fiere itineranti americane in cui questi artisti si esibivano. Dopo lo show, un’ulteriore fonte di profitto erano proprio le fotografie che venivano vendute al pubblico, autografate. Per quanto l’esibizione della deformità all’interno dei carnivals americani sia un capitolo affascinante della storia dello spettacolo moderno, questo prezioso libro però, così focalizzato com’è sui ritratti, offre qualcosa di diverso.

La raccolta documenta un’epoca e una società attraverso i suoi corpi meno fortunati, e allo stesso tempo nello scorrere le pagine avvertiamo l’atemporalità di queste anomalie: nell’antichità come nell’epoca moderna, certi uomini hanno dovuto sopportare il fardello di fattezze eccezionali, spesso temuti ed emarginati. Eppure, se è vero che ogni uomo è specchio per il suo prossimo, fissando gli occhi di questi nostri fratelli dai corpi stupefacenti ci accorgiamo che il loro sguardo rimanda il riflesso più puro e vero.

Alex Boese

ELEFANTI IN ACIDO E ALTRI BIZZARRI ESPERIMENTI

(2009, Baldini Castoldi Dalai)

Una buona parte degli articoli di Bizzarro Bazar contenuti nella sezione “Scienza anomala” nasconde un debito verso questo splendido libro. Boese raccoglie, in forma divulgativa e spesso scanzonata, gli esperimenti scientifici più improbabili, sconcertanti, risibili – e, talvolta, illuminanti. Chi pensa che gli scienziati siano persone serie e compite, sempre nascosti dietro provette o lavagne piene di equazioni impossibili, farebbe meglio a ricredersi: l’immagine della scienza che esce dalle pagine di Elefanti in acido è quella di una disciplina viva, fantasiosa, sempre pronta a prendere le strade meno battute, anche a costo di errori madornali e vergognosi fallimenti. In definitiva, una disciplina molto più umana (nel bene o nel male) di come viene normalmente rappresentata.

Molti di questi esperimenti sono spassosi in quanto, a una prima occhiata, totalmente inconcludenti. Dai ricercatori del titolo, che somministrano a un elefante una potentissima dose di LSD, fino allo psicologo che in automobile resta fermo quando scatta il semaforo verde soltanto per cronometrare quanto ci mette l’autista dietro di lui a suonare il clacson, per finire con gli scienziati che costruiscono uno stadio per le corse degli scarafaggi, il tempo perso dagli studiosi in progetti dagli esiti comici può sconcertare. Eppure, come ricorda l’autore, non sempre la scienza ricerca soltanto le risposte alle nobili e grandi domande. Ogni tassello, per quanto insignificante possa sembrare, contribuisce a comprendere qualcosa di più del mondo in cui viviamo. È vero che gli uomini preferiscono le donne difficili da conquistare? Se cadessimo in un pozzo, il nostro cane verrebbe a salvarci? Perché non riusciamo a farci il solletico da soli?

I ricercatori le cui vicende sono narrate in Elefanti in acido hanno una fiducia smisurata nel metodo scientifico, e non esitano ad applicarlo a quesiti di questo tenore. Anche se, come nel caso dello scienziato che si incaponisce a contare tutti i peli pubici dei suoi colleghi, questa fiducia sembra talvolta divenire talmente cieca da non accorgersi dell’assurdità della ricerca stessa. E anche questo è molto umano.

La biblioteca delle meraviglie – II

Mell Kilpatrick

CAR CRASHES & OTHER SAD STORIES

(2000, Taschen)

Kilpatrick era un fotografo che operò nell’area di Los Angeles dalla fine degli anni ’40 fino all’inizio degli anni ’60. Seguendo le pattuglie della polizia nelle loro chiamate, ebbe l’occasione di documentare suicidi, omicidi, ma soprattutto incidenti stradali mortali.

Questo splendido volume illustrato sella Taschen offre una selezione dei suoi scatti, quasi sempre notturni, che mostrano l’inizio di una piaga che arriva fino ai giorni nostri. È difficile descrivere le emozioni che si provano di fronte a queste fotografie. Da una parte c’è ovviamente l’empatia per le vittime, mentre la nostra mente cerca di immaginare cosa possano aver provato; ma dall’altra, ed è questo che rende affascinante la collezione di immagini, interviene il filtro del tempo. Questi incidenti provengono da un’epoca lontana, sono grida anonime nello scorrere del tempo, e il flash dona alle scene dell’impatto un’atmosfera mutuata dai film noir dell’epoca (sarà un caso, ma Kilpatrick, come secondo lavoro, faceva il proiezionista in un cinema). Eppure anche una certa amara ironia scorre talvolta in alcuni scatti, come quando i cadaveri sono fotografati sullo sfondo di allegre pubblicità commerciali.

Forse le fotografie hanno acquisito, nel tempo, più significato di quanto non fosse negli originari intenti dell’autore; ma viste oggi, queste auto d’epoca, con i loro grovigli di lamiere e di carne, non possono non ricordare le pagine memorabili dedicate da James G. Ballard agli incidenti automobilistici intesi come nuova mitologia moderna, ossessionante e intimamente sessuale. Immagini bellissime ma destabilizzanti, appunto perché saremmo tentati di iscriverle nel mito (del cinema, della letteratura, della fotografia) proprio quando ci mostrano il lato più reale, banale e concreto della morte.

Paul Collins

LA FOLLIA DI BANVARD

(2006, Adelphi – Fabula)

Il meraviglioso libro di Paul Collins ha come sottotitolo la frase: “Tredici storie di uomini e donne che non hanno cambiato il mondo”. Le sue tredici storie sono davvero straordinarie, perché raccontano di alcuni individui che sono arrivati a tanto così dal cambiare il corso della storia. E poi, hanno fallito.

Scritto in una prosa accattivante e piacevolissima, La follia è tutto una sorpresa dietro l’altra, e ha la qualità dei migliori romanzi. Di volta in volta malinconico ed esilarante, ha il merito di provare a ridare dignità ad alcuni “dimenticati” della scienza e della storia, ognuno a modo suo geniale, ma per qualche motivo vittima di un fatale errore, e delle sue amare conseguenze.

A partire da John Banvard, il folle del titolo: non l’avete sicuramente mai sentito nominare, ma a metà dell’Ottocento era il pittore vivente più famoso del mondo… René Blondlot, insigne professore francese di fisica, che fece importanti e apprezzate scoperte prima di prendere un clamoroso abbaglio, annunciando di aver scoperto i “raggi N”… oppure Alfread Beach, inventore della metropolitana pneumatica, che non prese mai piede non perché non funzionasse, ma perché lui si inimicò il sindaco di New York, tanto da sfidarlo costruendo di nascosto un tratto di metropolitana proprio sotto il municipio… e ancora, cialtroni e imbroglioni da premio Nobel per la lettaratura: William H. Ireland, ad esempio, ossessionato da Shakespeare, ne imparò talmente bene la calligrafia e lo stile da riuscire a produrre falsi e intere opere teatrali, giudicate all’epoca fra le migliori del Bardo; oppure George Psalmanazar, che si inventò di essere originario di Formosa (all’epoca ancora inesplorata, e in cui nemmeno lui aveva mai messo piede), arrivando a descriverne la cultura, le tradizioni, la religione, la flora e la fauna e perfino inventandosi un complesso linguaggio.

Uomini straordinari, folli, herzoghiani, che per un attimo hanno sfiorato la grandezza (magari con intuizioni scientifiche quasi corrette), prima di terminare la loro parabola nel dimenticatoio della Storia. Un divertito elogio della fallibilità umana intesa come voglia di tentare, di esplorare il limite; perché se anche si cade, la caduta testimonia talvolta l’irriducibile vitalità dell’essere umano.

Hans Bellmer

Hans Bellmer nel 1926 possedeva una compagnia pubblicitaria, quando, disgustato dalla piega che stava prendendo il nazionalsocialismo e prevedendo la prossima ascesa del partito Nazista al potere, decise che non avrebbe collaborato in alcun modo alla nascita del nuovo stato tedesco. Iniziò così un suo progetto artistico sovversivo, che gli sarebbe costato l’esilio ma che l’avrebbe portato ad essere accolto fra le braccia dei surrealisti francesi di Breton. Quello che era iniziato, nelle intenzioni di Bellmer, come una parodia e un attacco all’idea nazista del perfetto corpo ariano, però, divenne in brevissimo tempo qualcosa di più profondo, una vera e propria finestra sulle forme archetipiche del desiderio e dell’ossessione.

Lavorando in isolamento, Bellmer costruì alcune bambole a grandezza naturale, che avevano delle giunture a sfera simili a quelle che aveva potuto osservare in un paio di manichini in legno del ‘500, conservati al Bode Museum di Berlino. Diede alle bambole le fattezze di giovani ragazzine. Le bambole potevano essere articolate e composte in maniera differente, e Bellmer cominciò a fotografarle in diversi assetti e posizioni.

Così nacque la raccolta pubblicata anonima nel 1934 sotto il titolo di Die Puppe (“La bambola”); il lavoro di Bellmer fu dichiarato “degenerato” dal partito Nazista, ma dopo la fuga a Parigi e la consacrazione sul giornale surrealista Minotaure arrivò la fama. Eppure Bellmer abbandonò le sue bambole, e si dedicò per il resto della vita a disegni e fotografie erotiche, più o meno espressamente surrealiste; è come se quel primo progetto avesse sondato già gli abissi, e tutta l’opera successiva dell’artista tedesco fosse un più leggero rimuginare sul pozzo di nere acque dischiuso dalle bambole.

Le bambole di Hans Bellmer, infatti, sono fra le più estreme e toccanti rappresentazioni del desiderio sessuale e della violenza, il vero lato oscuro dell’erotismo così come teorizzato da Bataille (e preconizzato da Sade). Ci mostrano il corpo femminile, centro focale dell’ossessione, come un insieme di membra dislocate senza volto, puri oggetti dell’inconscio desiderio di violazione. La passione che anima le fantasie più nere si risolve in un tentativo di smembramento e di riconfigurazione, come se il corpo femminile nascondesse un segreto, e occorresse violare, frugare e ricombinare la carne per riuscire a coglierlo.

Eppure, nonostante la brutalità di queste “dissezioni”, le bambole sembrano quasi uno specchio sui nostri sogni infranti; sulla tristezza e impotenza del desiderio maschile, che non può concepire il mistero del corpo. La dolce sensualità delle bambole, infatti, resiste a qualsiasi esplosione, rifiuta di essere posseduta.

Il corpo è paragonabile ad una frase che vi spinge a disarticolarla, affinché, attraverso una serie di anagrammi infiniti, si ricompongano i suoi veri contenuti.

(Hans Bellmer)

La madre nascosta

Esiste un certo tipo di fotografie ottocentesche, particolarmente ricercate dai collezionisti, che sono chiamate fotografie della “madre nascosta”. Si tratta di scatti realizzati negli studi di posa dei fotografi, e il loro scopo era quello di immortalare i bambini. Per tenerli buoni (gli scatti richiedevano un tempo di esposizione maggiore di quello odierno), venivano posti in braccio alla madre.

Ma poiché le fotografie sarebbero state in un secondo momento ricoperte da un cartoncino sagomato che lasciava in vista esclusivamente il bambino, spesso le madri venivano coperte con scialli, panni, coperte e altri tessuti, in modo da rendere il trucco meno evidente.

Così, in molte foto d’epoca, se si rimuove il cartoncino sagomato ci si trova di fronte a un’immagine bizzarra e decisamente inquietante.

Scoperto via Accidental Mysteries.

Camera obscura

Abbiamo già parlato della stenoscopia nel post relativo alle straordinarie macchine fotografiche di Wayne Martin Belger. Affrontiamo di nuovo l’argomento perché si tratta della base fisica che ha dato i natali ad arti quali la fotografia e il cinema, e perché la costruzione in proprio di primitive macchine fotografiche sta godendo di nuova vita. Sempre più sono quegli artisti e fotografi che cercano un punto di vista differente e, tornando alle origini, cercano nuovi mezzi espressivi e di ricerca visiva.

Tutta la fotografia si basa sul concetto di “camera oscura”. Non si tratta, come pensano alcuni, di quella stanzetta illuminata di rosso – tante volte vista nei film –  in cui i fotografi sviluppano le loro pellicole come novelli alchimisti. La camera oscura era in origine una vera e propria stanza che aveva un piccolo foro in una delle pareti, e nessun’altra fonte di luce. In questa stanza i pittori e i primi fotografi si ritiravano per lavorare alle loro opere. Infatti la luce del mondo esterno, entrando dal foro sul muro e attraversando il buio andava a proiettarsi, di molto ingrandita, sulla parete opposta. Chiaramente, l’immagine risultava capovolta e ben poco nitida, ma il procedimento aveva qualcosa di misterioso e magico che attirò gli studiosi della visione.

Infatti, come avrete intuito, la camera oscura ricorda molto da vicino il nostro stesso occhio, che altro non è se non un globo forato da una parte nel quale la luce penetra e si proietta capovolta sulla parete opposta alla pupilla, per essere poi percepita dal nervo ottico. (Curiosità etimologica: la pupilla, cioè il foro all’interno dell’iride, significa esattamente piccola pupa, bambolina; questo è dovuto al fatto che se guardate negli occhi qualcuno, all’interno della sua pupilla nera potete vedere una versione miniaturizzata di voi stessi, la vostra “bambolina”, appunto.) Fatto sta che il principio della camera oscura, reso con il tempo più piccolo e maneggevole di un’intera stanza, è tutt’oggi quello che fa funzionare macchine da presa e fotocamere (sempre per restare nell’etimologia, ecco spiegato perché le macchine fotografiche si chiamano “camere”).

Il rinnovato interesse per la fotografia stenoscopica, ossia praticata in questo rudimentale modo, ha fatto sì che molti amatori si costruiscano le loro macchine fotografiche stenopeiche, alcune anche molto fantasiose. Il blog Frankenphotography raccoglie molti esempi di questa nuova verve creativa. Di particolare interesse sono le macchine fotografiche di Francesco Capponi, che è riuscito a ricavare delle vere e proprie camere oscure da oggetti sempre più piccoli, come un cilindro da prestigiatore, un pezzo degli scacchi, un origami, una noce, o un pinolo:

Sempre lo stesso blog contiene un video decisamente affascinante su un moderno e improvvisato esempio di camera oscura:

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Abelardo Morrell scatta le sue fotografie con questo metodo, talvolta riuscendo a capovolgere l’immagine (così da farla ritornare “dritta”) mediante l’uso di un sistema di specchi.

Il metodo ha vantaggi e svantaggi. Difficile è calcolare con precisione il tempo necessario per impressionare la pellicola attraverso un foro stenopeico, ma si parla anche di alcune ore. Il foro, inoltre, se non accuratamente forgiato, può dare luogo a fenomeni di diffrazione; per diminuirli occorrerebbe ridurre il diametro del foro, aumentando però così i tempi di esposizione. Le immagini comunque non saranno mai nitide e precise.

Dall’altro canto, la profondità di campo è illimitata (perché non si utilizzano lenti) e gli stessi difetti (sfocatura, approssimazione ed evanescenza dell’immagine) possono essere utilizzati come scelta espressiva. Le fotografie così ottenute sono infatti imprevedibili, evocative e fragili al tempo stesso, e hanno un sapore antico che le moderne macchine digitali riescono a riprodurre soltanto dopo un lungo lavoro di post-produzione.

Ringraziamo Frankenphotography per le immagini.