Dia de los Natitas

Tutte le tradizioni culturali del mondo hanno elaborato complessi rituali per negare la completa dissoluzione del defunto, ma anzi reintegrarlo nella vita quotidiana in un sistema ammissibile; in questo modo i morti divengono delle “guide” simboliche e vengono inseriti in un quadro di continuità che è un antidoto all’assenza di senso della morte. Perfino nella nostra società, incentrata sul corpo e sul materialismo, diamo nomi di defunti alle strade, parliamo di “immortalità attraverso le opere”, e teniamo scrupolosi resoconti storici relativi ai nostri antenati.
In alcune società questo rapporto che lega i vivi e i morti risulta ancora molto concreto.

In diverse parti dell’America del Sud il cristianesimo si è sviluppato in maniera sincretica con le religioni precedenti; i missionari cioè, piuttosto che combattere le antiche credenze del luogo, hanno cercato di trasfigurare alcuni degli dèi delle popolazioni Quechua e Aymara per farli aderire alle figure tipiche della tradizione cattolica. Alcuni rituali pre-colombiani sono pertanto giunti fino a noi e sono tuttora tollerati dalla Chiesa locale.
Uno di questi antichissimi riti è quello relativo al Dia de los Natitas, ovvero il Giorno dei Teschi.

La Paz, Bolivia, 8 novembre.
In questo giorno centinaia di persone si radunano al cimitero centrale portando con sé i teschi dei propri antenati o dei cari estinti. Il cranio del parente defunto è spesso esposto in elaborate teche di vetro, legno o cartone.

I teschi vengono puliti, purificati, e decorati con addobbi di vario tipo: berretti di lana intessuti a mano, occhiali da sole, ghirlande di fiori coloratissimi. Talvolta le cavità ossee vengono protette otturandole con del cotone.

Una volta ottenuta la benedizione, la gente “coccola” questi resti umani, offrendo loro sigarette, alcol, foglie di coca, cibo e profumi. Una banda tradizionale suona per loro, quasi ad offrire ai morti una particolare serenata.

Come fanno gli abitanti ad essere in possesso di questi teschi, e che significato ha il rituale? La tradizione, come abbiamo detto, è molto antica e precedente all’avvento del cristianesimo. Nella concezione pre-colombiana diffusa in Bolivia ogni uomo è composto da sette anime, di tipo e pesantezza diversi. Quando un parente muore, viene seppellito per un periodo sufficientemente lungo affinché tutte e sei le anime “eteree” possano lasciare il cadavere. L’ultima anima è quella che rimane all’interno dello scheletro, e del cranio in particolare.

Quando si è sicuri che le sei anime se ne siano andate, si dissotterra il cadavere e il teschio viene affidato alla famiglia, che avrà cura di mantenerlo in casa con amore e dedizione, su un altare dedicato. Questi resti, infatti, hanno proprietà magiche e, se trattati con il giusto rispetto, sono in grado di esaudire le preghiere dei parenti. Se, invece, vengono trascurati possono portare sciagure e sfortuna.

Il Dia de los Natitas serve proprio a celebrare questi defunti, a ringraziarli con una grande festa per la buona sorte portata durante l’anno appena trascorso, e ingraziarsi i loro favori per l’anno a venire.

José Guadalupe Posada

José Posada è uno dei più celebri fra gli incisori messicani, e certamente precursore dei movimenti artistici e grafici nati dopo la rivoluzione del 1910. Nato ad Aguascalientes nel 1852, divenne presto maestro incisore e litografo, dapprima nella sua città natale, poi a Léon, e infine a Città del Messico.

Le sue prime opere sono praticamente impossibili da trovare, poiché vennero stampate sulla povera carta dei giornaletti sensazionalistici dell’epoca; le uniche copie rimanenti sono di proprietà di collezionisti privati, o esposte nei maggiori musei nazionali del Messico.

José Posada è celebre principalmente per le sue calaveras, icone prese a “prestito” dall’immaginario religioso e folkloristico messicano. “Reclutando” questi allegri e vitali scheletri per i suoi intenti satirici, Posada crea un originale affresco sociale, alla maniera dei famosi Capricci di Goya. Questa ironica danza macabra che non risparmia niente e nessuno è stata presa come vero e proprio manifesto da molti degli artisti messicani del ‘900.

L’innovazione posadiana è più complessa di quanto potrebbe sembrare a una prima occhiata. Da una parte, opera un connubio fra i teschi e gli scheletri che già erano presenti nell’iconografia precolombiana, e le rappresentazioni occidentali della morte di matrice cristiana (memento mori, danza macabra, ars moriendi, ecc.). Dall’altra, utilizza questi elementi per prendersi gioco, in maniera grottesca, dei valori borghesi, del progresso, delle differenze di classe. E, infine, pare ricordare comunque che, ricchi o poveri, potenti o sfruttati, non siamo nient’altro che ossa che camminano.

L’opera più famosa di José Posada è senza dubbio la Calavera Catrina. Questa nobildonna dall’imponente cappello all’ultima moda (ma ovviamente destinata, come tutti, a ritrovarsi scheletro) è divenuta nel tempo una delle più riconoscibili figure dell’immaginario messicano. Nel Giorno dei Morti vengono costruiti altari e dolci a forma di Calavera Catrina, e indossati costumi che ne ricordano le fattezze.

Posada, oltre che incisore, era anche vignettista; ancora oggi, il primo premio dell’Encuentro Internacional de Caricatura e Historieta (Incontro Internazionale di Cartoon e Fumetti) è chiamato “La Catrina”.

Fotografia + Tempo


La ragazza olandese di 16 anni ritratta in questa foto del 1936 sta sparando in un tirassegno del Luna Park della sua città, Tilburg. Il tirassegno è uno di quelli che all’epoca andavano per la maggiore: se si riusciva a colpire il bersaglio, un piccolo tasto di ferro, l’obiettivo automaticamente scattava una fotografia che veniva consegnata come trofeo al vincitore dall’impareggiabile mira.

La ragazza, Ria van Dijk, oggi ha 90 anni. E continua il suo pellegrinaggio fino alllo stand del tirassegno. Ogni anno, da quel fatidico 1936, ha colpito immancabilmente il bersaglio (con una pausa durante la Guerra, dal 1939 al 1945). Erik Kessels e Joep Eljikens hanno raccolto e curato le fotografie ottenute dal tirassegno fino ad oggi, organizzandole in una raccolta intitolata In almost every picture #7.

Con il passare degli anni, vediamo la giovane donna invecchiare, gli stili di vestiario cambiare lentamente, e anche la tecnica fotografica evolversi. Da questo inusuale punto di vista vediamo scorrere quasi un secolo di persone, mode, amori e vita. Tutto grazie alla mira infallibile di una gentile signora armata di fucile.

La galleria completa di queste fotografie si può ammirare qui.

Nonostante i progetti di “una foto al giorno” abbondino sulla rete, il più estremo resta sempre Time of my life, che registra 17 anni della vita dell’artista Dan Hanna. Il suo volto si appesantisce con il passare degli anni, i suoi capelli si fanno più radi. Ecco il tempo al lavoro.

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