Volo 243

Il cielo della grande isola di Hawaii era terso e splendente, la mattina del 28 Aprile del 1988. Per molti dei passeggeri che attendevano di imbarcarsi, il volo 243 della Aloha Airlines avrebbe sancito la fine delle vacanze: da Hilo, dove si trovavano, avrebbero volato sopra l’oceano, ammirando per l’ultima volta le barriere coralline, fino ad atterrare all’aeroporto internazionale di Honolulu.

Venne dato il via all’imbarco. Mentre saliva la scaletta che portava all’entrata principale del Boeing 737, una donna notò una piccola crepa verticale sul metallo della fusoliera. Ma, com’è comprensibile, tenne per sé l’osservazione e non avvisò nessuno. D’altronde l’esterno era già stato controllato la mattina stessa, e l’occhio attento dell’ispettore non aveva notato nulla di sospetto.
Quel giorno, l’aereo N73711 (chiamato Queen Liliuokalani in onore dell’unica regina delle Hawaii) aveva già eseguito sei voli interinsulari tra Honolulu, Hilo, Maui e Kauai, senza mostrare alcun problema a nessuno dei sistemi di bordo. Così tutto lasciava presagire un ennesimo volo di routine – una passeggiata per il capitano Robert Schornstheimer, 44 anni e 8.500 ore di volo alle spalle.
Erano in tre nella cabina: al fianco del capitano, la prima pilota femmina della Aloha Airlines, Madeline “Mimi” Tompkins, nelle vesti di primo ufficiale; sul sedile passeggero aveva invece preso posto un controllore del traffico aereo della FAA (Federal Aviation Administration). Fuori dalla cabina di pilotaggio, tre hostess si prendevano cura degli 89 passeggeri.


Alle 13:25 l’aereo decollò dalla pista, e cominciò la sua ascesa. La situazione meteorologica era perfetta, e il volo era condotto a vista. “Mimi” Tompkins, che stava ai comandi, portò tranquillamente il Boeing all’altezza di crociera stabilita di 7.300 metri quando, all’improvviso, udì uno schianto e un assordante rumore di risucchio. La testa le venne strattonata all’indietro, mentre nella cabina volavano detriti, fra cui dei pezzi di gomma isolante grigia. Il capitano lanciò un’occhiata indietro e si accorse che la porta della cabina di pilotaggio non c’era più: guardando sopra alle teste dei passeggeri, dove avrebbe dovuto essere il tetto dell’aereo, si poteva vedere il cielo blu.

Il capitano prese immediatamente i comandi dell’aereo, attivò le maschere ad ossigeno per i passeggeri, e cominciò la discesa di emergenza. Ma cosa diamine era successo, là dietro?

Verso le 13:48, una sezione del tetto sul lato sinistro si era aperta di colpo all’altezza della prima classe: l’assistente di volo Clarabelle Lansing, di 58 anni, che al momento stava in piedi vicino alla fila 5, fu immediatamente risucchiata fuori bordo. La decompressione improvvisa provocò un’esplosione che strappò via l’intero tetto dell’aereo, dalla cabina di pilotaggio fino quasi alle ali, per circa un quarto della lunghezza dell’intera fusoliera.


Fortunatamente tutti i passeggeri erano seduti con le cinture allacciate, al momento dell’incidente. La seconda assistente di volo, in piedi alla fila 15, fu gettata per terra e lievemente ferita, ma riuscì comunque a strisciare carponi su e giù per il corridoio per assistere e calmare i passeggeri. La terza hostess, invece, stava alla fila 2 – più vicina alla breccia: colpita in testa dai detriti che schizzavano in ogni direzione, venne sbalzata via e crollò sul pavimento.

L’aereo proseguì la sua corsa senza un tetto, rollando paurosamente a destra e sinistra. Il capitano trovava sempre più difficile mantenere la stabilità del velivolo; nel frattempo, anche comunicare con la Torre di Controllo di Maui (l’aeroporto prescritto in caso di emergenza) risultava quasi impossibile per via del rumore assordante che impediva di sentire le risposte inviate via radio.

Alla fine, dopo dieci interminabili minuti di volo in quelle condizioni, il Queen Liliuokalani riuscì ad atterrare all’aeroporto di Maui: sventrato, aperto come una scatola di sardine. I passeggeri vennero fatti evacuare dagli scivoli e, poiché sull’isola c’erano soltanto due ambulanze, furono caricati sui pullman turistici per essere trasportati all’ospedale.
Il bilancio finale fu sorprendentemente fortunato: 65 feriti, di cui soltanto 8 gravi. Unica vittima la Lansing, il cui corpo non venne più ritrovato. Delle altre due assistenti di volo, soltanto la numero 3 riportò trauma cranico e gravi lacerazioni al capo.


L’inchiesta successiva dimostrò come l’incidente fosse stato provocato da una rottura per fatica del metallo, aggravata dalla corrosione della crepa: l’aereo, in servizio da 19 anni, aveva sempre operato in ambiente costiero ad alto tasso di umidità e salinità.
L’incidente del volo 243, al di là dell’eccezionale atterraggio di emergenza che lo fece entrare nella storia dell’aviazione, fu essenziale per rivedere e modificare le norme di sicurezza. Oggi le procedure di routine prevedono un esame esterno fra un volo e l’altro, e anche per i materiali utilizzati nella costruzione e nelle saldature si è fatto tesoro degli errori evidenziati in questo episodio.


Il capitano Bob Schornstheimer, ritenuto un eroe, si è ritirato nel 2005. “Mimi” Tompkins ha continuato a volare con la Aloha Airlines, diventando il primo capitano donna della compagnia.

(Grazie, Francesco!)

La spiaggia di vetro

Articolo a cura della nostra guestblogger Marialuisa

Se le vostre vacanze sono appena finite, ma già state mettendo da parte brochure e indicazioni per il prossimo anno e siete in cerca di nuove esperienze e mete particolari, perché non andare a stendervi e rosolarvi al sole su una meravigliosa distesa di rifiuti?


Se siete stanchi della solita spiaggia di sassi o sabbia, ecco una meta alternativa, Fort Bragg, California, spiaggia che all’inizio del ventesimo secolo e fino agli anni ’60 veniva definita the Dump, ovvero “la discarica”, per via dell’abitudine della popolazione limitrofa di gettarvi qualsiasi tipo di rifiuto, in particolare vetri, rifiuti solidi e in molti casi anche automobili.

Il pezzo di spiaggia in questione, di proprietà della Union Lumber Company, veniva riempito così tanto di rifiuti, che per mantenerne attiva la funzione di discarica collettiva, i diversi cumuli venivano periodicamente incendiati dalla stessa popolazione.


Con il passare del tempo, rifiuti di ogni tipo vengono accumulati per decine di anni, inquinando l’ambiente circostante e rendendo impossibile qualsiasi altro uso del lido che non sia quello ormai noto di discarica pubblica.


La situazione cambia quando nel 1967 la North Coast Water Quality Board insieme ad una commissione cittadina fa chiudere l’area e avvia dei programmi di smaltimento e pulizia.

Nonostante questo, la spiaggia resta invasa di rifiuti; eliminati i pezzi maggiori, quali auto e mobilio, i vetri non vengono rimossi, restando abbandonati sulla spiaggia per decine di anni, anni che servono al mare per ripulirsi, ma anche per levigare, riprendere e riportare i cocci di vetro sulla spiaggia, sotto un’altra forma.

Sabbia e sassi originari, infatti, scompaiono sotto un tappeto di tondini di vetro traslucido e colorato, che da rifiuto si è trasformato in parte integrante dell’ambiente nonché in decorazione e caratteristica peculiare, innocuo, liscio e dai riflessi splendidi.


Un insolito lieto fine ambientale per una spiaggia che da discarica si auto-rigenera, dove i materiali di scarto sono stati rimodellati e preparati per poi essere inglobati nuovamente nell’ecosistema sotto tutt’altra forma, parte integrante dell’ambiente e addirittura valore aggiunto.

Un lido di vetro che dal 1998 è diventato di dominio pubblico e ambita meta di turisti che spesso si portano a casa un “souvenir” insolito. Ora si assiste quindi ad un curioso fenomeno per cui dopo anni di investimenti per eliminare il vetro dalla costa, vige il divieto di portarlo via per non rovinare la spiaggia.


Fort Bragg comunque non è l’unica spiaggia di vetro in cui potreste imbattervi, esistono infatti la piccola Benicia (California), Guantanamo e infine, ebbene sì, Hanapepe nelle Hawaii, decisamente particolare in quanto formata evidentemente solo da bottiglie trasparenti e marroni.

Deformazioni craniche artificiali

Abbiamo già parlato (in questo articolo) dell’antica usanza cinese di deformare i piedi femminili tramite fasciature per motivi estetici. Altri tipi di deformazioni artificiali possono ancora oggi avvenire per motivi di sostentamento economico: pensiamo in particolare ad alcune terribili pratiche di deformazione del bambino nei paesi del Terzo Mondo (e non solo) che rendono i piccoli invalidi a vita – e quindi più adatti a suscitare pietà ed elemosine. Un tempo c’erano poi i famigerati Comprachicos (“compratori di bambini”), immortalati da Victor Hugo nel suo romanzo L’Uomo che ride, che sfiguravano i bambini per assicurare un buon tornaconto nelle fiere e nelle esibizioni di stranezze umane. Altro esempio letterario sul tema è la splendida novella di Maupassant La madre dei mostri, nel quale una diabolica donna porta busti strettissimi durante la gravidanza per ottenere figli deformi da vendere al circo.

Ma nella maggior parte dei casi, proprio come avveniva per il loto d’oro in Cina, la modificazione del corpo in tenera età era estremamente importante soprattutto a livello sociale, perché poteva denotare lo status e la provenienza del bambino. Ed ecco che arriviamo all’argomento centrale di questo articolo: la deformazione del cranio.

Quello che i cinesi facevano ai piedi delle donne, molti altri facevano alle teste dei loro bambini.

Nelle culture primitive, e non soltanto, la modificazione corporale è intimamente connessa con l’appartenenza a una determinata società. Così la fasciatura della testa divenne per un certo periodo una pratica fondamentale per garantire al proprio figlio una posizione sociale influente.

La casistica di queste deformazioni si compone normalmente di teste allungate, teste schiacciate, teste coniche o sferiche. Il comune denominatore è la restrizione della normale crescita delle ossa del cranio durante le primissime fasi della formazione, quando le ossa sono ancora soffici, tramite diversi strumenti: ad esempio, per ottenere un figlio dalla testa allungata occorreva farlo crescere con due pezzi di legno saldamente legati ai lati del capo, in modo che il cranio si sviluppasse verso l’alto. Per avere una testa completamente rotonda occorreva stringerla in forti giri di stoffa.

I primi a utilizzare questo tipo di pratiche di modificazione corporale permanente sembra fossero gli antichi Egizi (infatti Tutankhamen e Nefertiti avevano la testa oblunga), ma alcuni studi indicano che forse anche gli uomini di Neanderthal, vissuti 45.000 anni prima di Cristo, potrebbero averne fatto uso. Nel 400 a.C. Ippocrate scrisse di abitudini simili riferendosi a una tribù che aveva denominato “i Macrocefali”. Congo, Borneo, Tahiti, Samoa, Hawaii, aborigeni australiani, Inca e Maya, nativi Americani, Unni, Ostrogoti,  tribù Melanesiane: ai quattro angoli del globo le tecniche differivano ma l’obiettivo era lo stesso – assicurare al bambino un futuro migliore. Le persone con una testa allungata, infatti, venivano ritenute più intelligenti e più vicine agli spiriti; non soltanto, erano immediatamente riconoscibili come appartenenti ad un determinato gruppo o tribù. Così, più o meno a un mese dalla nascita, i bambini cominciavano a venire fasciati fino circa all’età di sei mesi, ma talvolta oltre l’anno di età.

Non è escluso che queste pratiche avessero altri tipi di valenze – magiche, mediche, ecc. Lascia interdetti scoprire che in Francia la fasciatura della testa durò addirittura fino al 1800: nell’area di Deux-Sevres, si bendavano le teste dei bambini dai due ai quattro mesi; poi si continuava sostituendo il bendaggio con una sorta di cesto di vimini posto sulla testa del bambino, e rinforzato con filo di metallo mano a mano che il ragazzo cresceva.