In India, fra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, i colori esplodono nelle strade. Si tratta della festa tradizionale chiamata Holi; due giorni in cui, in modo vagamente simile al nostro carnevale, le regole sociali e le distanze fra le varie caste vengono abolite (entro certi ragionevoli limiti).
I significati simbolici di Holi sono molteplici. Originariamente la festa commemorava un episodio dei Purāṇa, in cui Prahlada resiste alle imposizioni di suo padre Hiranyakashipu e, contro la volontà di quest’ultimo, continua ad essere fedele a Vishnu; a farne le spese è però sua sorella, Holika, che morirà bruciata sulla pira. Al di là delle scritture tradizionali, Holi simboleggia principalmente la fine della stagione invernale e l’inizio della primavera: la terra diviene fertile, si riempie di colori e la vita rifiorisce.
Nel tempo, la festa ha addolcito i suoi tratti religiosi in favore di celebrazioni più popolari, gioiose e spensierate. Nel giorno centrale del Holi, si allestiscono enormi falò di fronte a cui si prega e si canta; in seguito polveri profumate e colorate, e tinozze di acqua similmente tinta e aromatizzata, vengono distribuiti fra la gente. Comincia allora una vera e propria battaglia, folle e selvaggia, in cui gli eccitati partecipanti vengono bersagliati di nuvole variopinte e sgargianti.
E’ davvero un ritorno alla vita, liberatasi dal tetro spettro dell’inverno; e il colore si fa veicolo di allegria, essenza stessa del ringraziamento alla divinità che ci ha donato di godere delle mille sfumature della realtà.
Il mondo non è altro che illusione. È facile dirlo, ma se dovessimo davvero crederci, come imposteremmo la nostra vita? Avrebbero ancora senso le leggi degli uomini, le regole di comportamento? E se perfino l’etica fosse un ulteriore tranello mentale, e in realtà Dio se la ridesse di tutti i nostri dubbi e scrupoli morali?
Simili questioni stanno al centro di molte tradizioni religiose, ma nessuna ha portato il ragionamento alle estreme conseguenze quanto la setta degli Aghori.
Asceti shivaisti, lo scopo degli Aghori è liberarsi una volta per tutte dalla ruota delle reincarnazioni; per fare questo puntano, attraverso la meditazione e un ascetismo estremo, a fondere il proprio Sé (Atman) con il tutto (Brahman), superando il pensiero bloccato in illusori dualismi. Gli opposti non esistono, per loro, e così non esiste nulla di bello o di brutto, di buono o di cattivo; tutto è emanazione di Shiva, dunque tutto è perfetto.
Così, gli Aghori hanno sviluppato un percorso spirituale davvero incredibile: abbracciare tutti quei comportamenti che la società normalmente condanna ed aborre, tutte le pratiche più disgustose e oscene, tutte le azioni moralmente condannabili secondo le tradizionali regole del karma.
Per raggiungere l’estasi che permetterà loro di trascendere le categorie del pensiero umano, gli Aghori fanno uso di cannabis, bevono alcool, mangiano cibi conditi con oppiacei e allucinogeni. Si abbandonano anche a rituali sessuali di matrice tantrica, se non a vere e proprie orge. Mica male come asceti, direte.
Ma gli Aghori non si fermano certo qui. Per dimostrare che hanno abbandonato ogni preconcetto, inclusi i dualismi gusto/disgusto e puro/impuro, si dedicano senza battere ciglio a urofagia e coprofagia. Si aggirano anche spesso negli ossari a cielo aperto dove le salme vengono lasciate a decomporsi, e sono stati più volte avvistati mentre si spalmavano su tutto il corpo le ceneri di una cremazione. Uno dei loro rituali (il shava samskara) utilizza un cadavere come “altare” su cui si celebra la cerimonia.
Terrificanti già nell’aspetto, adorni di monili ricavati da ossa umane e teschi utilizzati come coppe da cui bevono, non arretrano nemmeno di fronte all’ultimo dei tabù: il cannibalismo. Quest’ultimo viene praticato su cadaveri trafugati o dissepolti, e secondo alcune fonti la fine preferita dai maestri Aghori è quella di venire divorati dal proprio successore, in modo da trasferirgli tutti i “poteri” acquisiti durante la vita.
Potrebbe sembrare che nulla sia troppo sacro per un Aghori; in realtà è esattamente l’opposto. L’asceta cerca infatti di vedere Dio in qualsiasi fenomeno dell’universo, in tutte le manifestazioni della catena di causa ed effetto. Quindi, se ogni cosa è sacra e illuminata, la tenebra e la paura sono soltanto nella nostra mente. Mangiare carne di mucca (proibitissimo per qualsiasi tradizione induista) o mangiare un corpo umano sono azioni che non possono dispiacere a Shiva, in quanto egli permette che esistano. Anzi, Shiva è in quelle azioni così come in tutte le altre, sempre, contemporaneamente, ovunque.
La ricerca spirituale è dunque un precipitarsi nella turpitudine, nell’osceno e nel rivoltante, salvo accorgersi poi che quella che sembrava oscurità era in verità luce – è un tentativo di disimparare tutto ciò che ci hanno insegnato sul bene e sul male, per guardare il mondo con uno sguardo primordiale, con gli occhi di un bambino ancora privo di categorie di pensiero.
Ora, quanto avete letto finora è la teoria, fin troppo nobilitante.
Nella realtà molte frange della setta sono più interessate agli aspetti magico-sciamanici che a quelli filosofici: così i rituali divengono veri e propri atti magici, violenti e rivoltanti, finalizzati all’acquisizione di poteri soprannaturali, e che comportano il sacrificio di animali e perfino di esseri umani. La comunione con Shiva passa in secondo piano rispetto alle fatture contro i nemici, e al potenziamento delle virtù magiche degli “stregoni” attraverso il rito. Secondo alcune fonti, gli Aghori sarebbero addirittura convinti che Shiva perdona fino a sette omicidi (esclusi i sacrifici umani, che sono sempre a fin di bene e che quindi non entrano nel conto).
La setta degli Aghori, sparsa principalmente su India e Nepal, è avvolta nel segreto e nel mistero, in quanto i suoi adepti non hanno alcuna voglia di fare troppa pubblicità alle proprie azioni. Nelle campagne, gli asceti sono temuti e venerati come uomini dagli enormi poteri magici, proprio in virtù della forza che dimostrano nel dedicarsi agli aspetti più terribili dell’esistenza.