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Inferno fresco: Dante Alighieri e la cultura goth
This Way Up
La quotidiana routine di due operatori funebri – sconvolta da una serie di improbabili eventi – non è mai stata così divertente come nel cortometraggio This Way Up (2008) diretto da Alan Smith e Adam Foulkes e vincitore di numerosi premi, fra cui la nomination agli Oscar 2009 come miglior corto di animazione. In questa folle e imprevedibile corsa contro il tempo, i toni macabri sono stemperati da un irresistibile umorismo nero, estremamente british.
[vimeo https://vimeo.com/102605293]
I soldi dei morti
Per i cinesi, ogni uomo è composto da diversi spiriti: fra tutti, i due più importanti sono quello materiale, chiamato po, con sede nel fegato e nutrito dal cibo, che al momento della morte rimane nella tomba; e l’anima spirituale, chiamata hun, con sede nei polmoni e nutrita dal respiro, che al trapasso si stacca invece dal corpo e va incontro al suo destino.
Un destino che è ovviamente conseguenza delle azioni terrene, della virtù e delle qualità del morto. Così, nell’oltretomba, esiste una gamma di possibili mutamenti che attendono lo hun del defunto: il più difficile e prestigioso è ovviamente divenire uno xiandao, un Immortale taoista – oppure raggiungere Jing-tu, la Terra Pura, se si è buddhisti. Ma, qualora in vita le azioni del morto non siano state per nulla virtuose, l’anima può finire per incrementare le fila degli egui, “spiriti affamati” che arrecano danni e problemi ai viventi a causa della fame e della sete insaziabili che li divorano.
Tutti coloro che stanno nel mezzo – né spiriti eccelsi, né peccatori senza speranza – vengono destinati alla “Via dell’Uomo” (rendao), vale a dire a reincarnarsi fino a che non saranno finalmente degni di lasciare questo mondo. Queste anime, però, prima di potersi reincarnare dovranno passare per una sorta di regno di mezzo chiamato diyu, assimilabile al nostro purgatorio.
Il diyu non è altro che una terribile “prigione sotterranea” che in qualche modo riflette specularmente la burocrazia del nostro mondo. Qui le anime vengono imputate in un vero e proprio processo in dieci differenti stadi, i Dieci Tribunali dell’Inferno: alla fine del lungo dibattimento giudiziario, il defunto viene assegnato ad un supplizio specifico a seconda delle sue colpe e mancanze. Si tratta di pene e torture dantesche sia nella crudeltà che nel contrappasso, che l’anima patisce provando dolori atroci, proprio come se avesse ancora un corpo. Fra lame che mozzano la lingua ai bugiardi, seghe che tagliano in due gli uomini d’affari scorretti, stupratori e ladri gettati in calderoni d’olio bollente o cotti al vapore, gente macinata e ridotta in polvere con mole di pietra, il diyu è una fiera degli orrori senza fine. Le anime, una volta subìto il supplizio, vengono ricomposte e la pena ricomincia.
Una volta scontato il periodo di “carcere duro” previsto dai giudici, all’anima è somministrata una pozione che le fa dimenticare quanto ha visto, e infine viene rispedita sulla terra… spesso con un bel calcio nel sedere (il che spiega le voglie violacee all’altezza delle natiche che a volte mostrano i neonati).
Dicevamo però che il diyu è una sorta di versione ribaltata del nostro mondo. Non crediate quindi che le delibere del Tribunale dell’Inferno siano infallibili: proprio come accade nei Palazzi di Giustizia terreni, nell’oltretomba cinese possono verificarsi degli errori giudiziari; c’è una mole impressionante di pratiche burocratiche da sbrigare, e anche fra i demoni esistono corruzione e nepotismo.
Ecco perché i cinesi hanno sviluppato uno dei rituali sacrificali più particolari e bizzarri: quello delle qian zhi, le “banconote di carta”.
Si tratta di imitazioni di banconote su cui è impresso il volto del sovrano dell’Aldilà, simili ai soldi finti dei giochi in scatola, stampate su carta di riso ed emesse dalla Banca degli Inferi, Yantong Yinhang. I tagli variano (anche a seconda dell’inflazione!) da diecimila a centinaia di miliardi di yuan – anche se ovviamente il prezzo d’acquisto è infinitamente inferiore a quello nominale. Si possono comprare in svariati empori e negozi.
Le banconote vengono bruciate in falò rituali accesi vicino alle tombe, così che il fuoco le “trasporti” oltre il confine fra vivi e morti, recapitandole al caro estinto. L’anima del defunto potrà quindi usare i soldi inviatigli dalla famiglia per acquistare beni di consumo, per “comprare” i favori delle guardie, oppure per guadagnarsi rispetto e status sociale, o magari addirittura per corrompere un giudice e ottenere così uno sconto di pena.
Vi sono regole strette e tabù collegati al modo in cui le banconote vanno bruciate, così come ad esempio regalarne una ad una persona ancora in vita è altamente offensivo: insomma, i soldi dei morti sono un affare serio per molti cinesi.
Il defunto è in definitiva considerato come un parente vivo e vegeto, che si trova in un luogo lontano e sta attraversando un periodo di difficoltà. Quale famiglia amorevole non gli manderebbe un po’ di soldi?
Se questo approccio, tipico della pratica e concreta mentalità cinese, ci sembra strano ad un primo sguardo, si tratta in realtà di una pratica non molto distante dal nostro atteggiamento verso i cari estinti: compriamo una bella lapide, raccomandiamo a Dio la loro anima, in modo da ottenere la loro benevolenza; in cambio, li preghiamo per avere intercessioni, protezione e favori.
Il culto degli antenati è pressoché universale, e la versione cinese delle qian zhi non fa che rendere evidente il meccanismo che lo sottende.
L’appartenenza alla società è di norma sancita dallo scambio (economico, di lavoro, di sostegno e di aiuto) fra i membri della società stessa: la barriera della morte, che in teoria dovrebbe interrompere questo commercio, non è affatto insormontabile, perché in tutte le culture lo scambio fra vivi e morti non viene mai meno, diventa semplicemente simbolico.
La peculiarità non sta quindi nel tentativo di regalare qualcosa ai morti, poiché è proprio questo il nocciolo del culto dei defunti, in ogni epoca e latitudine: vogliamo continuare a proteggere i nostri cari, e a dimostrare attraverso il dono sacrificale quanto forte sia ancora l’affetto che ci lega a loro. Il vero aspetto singolare di questa tradizione sta nella somiglianza quasi comica dell’Aldilà cinese con il nostro mondo.
Con il passare del tempo e con l’evolversi della tecnologia, ormai anche all’Inferno le semplici mazzette non bastano più. Forse i diavoli sono diventati più esigenti, o forse nell’Aldilà – dove comunque è indispensabile darsi un tono – le stesse anime dei defunti si fanno influenzare dalle mode consumistiche; fatto sta che nei negozi, accanto alle banconote, sono oggi esposte delle raffigurazioni cartacee di bottiglie di champagne (conquistare la simpatia del carceriere con un goccetto funziona sempre), prodotti di bellezza, completi in gessato, ciabatte contraffatte di Louis Vuitton con cui pavoneggiarsi, carte di credito, addirittura ville in miniatura, macchine di lusso, televisori al plasma, laptop, cellulari, iPhone e iPad taroccati con tanto di custodia. Tutto in carta, pronto da bruciare, in vendita per pochi euro.
Un oltretomba fin troppo familiare, che rispecchia vizi e problemi per i quali nemmeno la morte sembra essere un rimedio sicuro: non c’è da stupirsi quindi che, fra i vari gadget che si possono inviare nell’oltretomba, vi siano anche le repliche delle scatole di Viagra.
La maggior parte delle informazioni sono tratte dall’illuminante e consigliatissimo Tre uomini fanno una tigre. Viaggio nella cultura e nella lingua cinese (2014) di Nazzarena Fazzari.
Cafés maudits
La bohème dei decadentisti esercita ancora su di noi un fascino irresistibile. Nell’immaginario moderno, gli eccessi dei poeti maledetti sono indissolubilmente associati a Montmartre, ai café-concert nei quali Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Musset e compagnia bella si perdevano nel florilegio di visioni sbocciate dal loro assenzio. Pochi anni più tardi, durante la Belle Époque, Parigi era un ribollire di mode, tendenze e stimoli artistici diversi: il Novecento si annunciava ottimisticamente come un secolo di progresso, di pace e di benessere, il cinema e la radio erano appena nati, perfino la morale stava cambiando e la zona dei divertimenti notturni “proibiti”, attorno a Pigalle, conosceva il suo apogeo.
A Pigalle non c’erano soltanto il cabaret con i suoi can-can e le prostitute. All’epoca sorgevano come funghi piccoli locali “a tema”, i cui esercenti facevano a gara per attirare il pubblico superandosi l’un l’altro in fantasia e bizzarrie. C’erano cabaret di ispirazione medievale, caffè lillipuziani, oppure ambientati nei fondali marini, e via dicendo – oltre ovviamente al Grand Guignol (di cui abbiamo parlato qui).
Fra i locali più incredibili spiccavano tre piccoli caffè, fondati alla fine dell’Ottocento e gestiti da un unico proprietario, che promettevano meraviglie già dal nome: il Cabaret de l’Enfer, il Cabaret du Ciel e il Cabaret du Néant.
Il Cabaret “dell’Inferno” e quello “del Cielo” erano situati sul Boulevard de Clichy accanto all’Hotel de Place Blanche, e già a vederli dalla strada si proponevano come locali gemelli, o per meglio dire speculari.
Si poteva scegliere di rilassarsi nell’angelica atmosfera del Paradiso, dove si veniva accolti da camerieri travestiti da cherubini, con tanto di ali e parrucca bionda. Nella grande sala, simile all’interno di una cattedrale gotica e allietata dalla musica di un organo, si sorseggiava il liquore dalla “sacra coppa”; cominciavano poi vari spettacoli e pantomime che sbeffeggiavano la liturgia cristiana, balletti celestiali piuttosto “discinti”, esibizioni di cori angelici.
Alla fine di questi spettacoli, un attore che impersonava San Pietro apriva con la sua enorme chiave la porta che conduceva alla seconda sala, una sorta di grotta dorata dalle cui stalattiti pendevano statuine di angeli e altri arredi sacri. Qui un ultimo numero di varietà concludeva la serata.
Ma molti preferivano entrare attraverso le enormi fauci che portavano dritti al regno di Satana. Qui erano i diavoli a dare il benvenuto all’avventore, e a scagliarlo in una sorta di pacchiana e impressionante raffigurazione di un girone infernale.
Le pareti della cupa e oscura grotta erano ricoperte da una babele di altorilievi raffiguranti la dannazione eterna delle anime peccatrici e dei tormenti che i demoni infliggevano loro. Mani artigliate, piedi, volti contorti dall’agonia sporgevano dalle pareti proprio sopra i tavolini dove il pubblico si fermava a bere. Anche qui venivano messe in scena delle rappresentazioni grottesche: un dannato veniva cotto da alcuni diavoli in un grande calderone, e altre attrazioni prevedevano differenti e crudeli supplizi.
Seguendo la stessa falsariga, verso la fine della serata si veniva invitati ad entrare nella seconda sala, l'”Antro di Satana”, in cui si assisteva ad un ultimo spettacolo in cui Mephisto torturava alcuni peccatori, sempre in maniera esagerata e goliardica.
Il Cabaret du Néant (“Cabaret del Nulla”) stava poco distante dagli altri due, e oltre ad essere il locale più antico fu anche quello che godette di maggior fama, tanto da inaugurare per breve tempo una succursale anche a New York.
Dopo aver pagato l’ingresso e ricevuto il gettone, l’avventore veniva introdotto nella buia sala “dell’intossicazione” da camerieri incipriati di bianco e vestiti come becchini. Qui tutto l’arredamento rimandava alla morte: bare al posto dei tavoli, pareti tappezzate di aforismi sul Tristo Mietitore, un lampadario costruito con vere ossa umane e teschi appesi ai muri. Una volta accomodatisi ad una bara, il cameriere accendeva il cero funebre e prendeva le ordinazioni: i drink offerti dal menu portavano i nomi dei più celebri bacilli, germi mortiferi e morbi incurabili. L’ospite, così, sceglieva “di che morte morire” e ordinava la dipartita a lui più congeniale.
Dopo aver bevuto il pubblico veniva fatto spostare nella cameretta sul retro, la Grotta dei Trapassati. Mentre un monaco suonava un organo, un volontario veniva fatto entrare in una bara, avvolto in un sudario e infine “trasformato” di fronte agli occhi degli avventori in uno scheletro (mediante l’effetto Pepper’s Ghost di cui abbiamo già parlato in questo articolo).
Il Cabaret de l’Enfer e quello du Ciel rimasero in piedi fino agli anni ’50, prima di essere smantellati; il Cabaret du Néant venne chiuso un po’ più tardi, all’inizio degli anni ’60.
Per questo articolo dobbiamo ringraziare uno dei nostri blog preferiti di sempre: La Rocaille, colto e curatissimo spazio dedicato alla decadenza, al kitsch e all’arte in generale (moda, architettura, design, iconografia, ecc.). Tutte le fotografie e gran parte delle info provengono da lì. Grazie, Annalisa!
Il Tempio delle Torture
Wat Phai Rong Wua.
Se visitate la Thailandia, ricordatevi questo nome. Si tratta di un luogo sacro, unico e assolutamente weird, almeno agli occhi di un occidentale. Tempio buddista, mèta annuale di migliaia di famiglie, è celebre per ospitare la più grande scultura metallica del Buddha. Ma non è questo che ci interessa. È famoso anche per il suo Palazzo delle Cento Spire, ma nemmeno questo ci interessa. Quello che segnaliamo qui sono le dozzine di figure e complessi statuari che descrivono torture e sevizie riservate dai demoni dell’inferno alle anime in pena.
Infilzate in faccia, o intrappolate nelle fauci di orrendi mostri, con le interiora esposte, trafitte da spade e lance, queste sculture lasciano ben poco all’immaginazione: se non diciamo le preghierine alla sera, non ce la passeremo tanto bene nell’aldilà. Questo macabro e violentissimo “parco di attrazioni” ha per i fedeli un valore educativo. È una visualizzazione grafica e figurativa della sofferenza e dell’inferno.
Certo, c’è da dire che il rapporto dei thailandesi con la morte è meno travagliato del nostro; eppure, per quanto a prima vista il giardino delle torture di Wat Phai Rong Wua possa sembrare una soluzione estrema per colpire la fantasia dell’uomo illetterato, ricordiamoci che anche le nostre chiese abbondano di dipinti e allegorie non meno violente o macabre. Ormai abituati all’arte del Novecento, che si è man mano astratta dal bisogno di veicolare o avere un significato, ci dimentichiamo facilmente del ruolo avuto anche nella nostra storia dell’arte figurativa: quella di educare le masse, di proporsi come libro illustrato, e di servire quindi alla formazione di un immaginario anche per quanto riguarda i mondi a venire.
Scoperto via Oddity Central.