Joshua Hoffine

Article by guestblogger Dario Carere

Joshua Hoffine‘s terrifying images drag us into a world of nightmares, hunting, danger, and they also contain a touch of irony and romance.
His first horror photographs, dating back to 2003, have consecrated him as the founder of a real sub-genre, which combines elements of literature and cinema to generate a new perspective for the photographic art; as he stated in an interview, unlike video games, music, etc., photography has never enjoyed a true horror conjugation before.

Hoffine’s monsters populate cellars, attics, bathrooms, all those places that are most familiar to us and that we consider safe; demons mock us from dark corners, as we try to figure out where they are. But above all, they can hide inside us.
Looking in the mirror we discover that we are only a grotesque copy of our own fears; beauty, as it often happens in romantic literature, is just the superficial layer for a corrupt and deformed soul. Nineteenth-century scenarios become the background for brutal crimes and surreal apparitions, through which Hoffine’s imagery produces silent and unprecedented stories, compressed in a single shot capable of throwing up a thousand questions.

 

As a lover of horror classics, Hoffine takes advantage of the immortal fame of icons such as Jack the Ripper, Dr. Jekill and Mr. Hyde, Nosferatu and Elizabeth Bathory (beautifully captured as she wears a beauty mask during her usual bath in a virgin’s blood), to revisit their spirit in a modern way, telling the story in one or more shots. Lighting, make-up and expressiveness are studied in detail to transform the image into a continuous exchange between reality and vision, which is why each picture is always something more than a simple “movie scene”. The moment he decides to immortalize is the perfect point of maximum dramatic tension.

The classics of horror are often represented in his work, as you can see in his recently published anthology, a collection that spans across his last thirteen years of work. The silent killer, Stephen King’s clown with his menacing balloon, the horde of ravenous zombies, the corpse bride: it’s a great tribute to the horror genre which, as intended by the author, by stabbing our imagination forces us to “see what we did not want to see“.
It is not surprising, therefore, that Hoffine has also ventured into taking the role of director in 2014, for his first short (yet very intense) film, Dark Lullaby.

https://vimeo.com/150959454

The protagonist of Dark Lulllaby is one of Hoffine’s daughters. Starting from his very first shots, dedicated to childhood nightmares, Hoffine has often immersed his daughters (along with other relatives) in the surreal scenarios he creates; these photographs, collected in his most famous work After Dark My Sweet, are still in my opinion the best of his vast production.
The reason is that they concern us closely: the monster under the bed, the spiders entering from the window, the jaws that seem to come out of the darkness of the closet — they all belong to the oldest memories each of us has, and sometimes even to our everyday adult life. These are primordial, indelible nightmares: darkness, insects and ghosts are three things that almost all of us fear, even when there’s really no reason, even when it might feel silly to be afraid.

Combining fantastic monsters and little girls is a way to create a terribly effective contrast, one that was always dear to the horror genre. However rich the artist’s imagination and the skill of the model/actor may be, no one can represent horror better than children. In truth, through horror, we always go back to childhood, reopening our trunk of memories we left in the attic, to return to that good old pavor nocturnus. This is why a child remains the perfect protagonist of any scary scene.

One wonders what kind of memory Hoffine’s five daughters will retain from this experience.
Of course, this master of horror should be credited with having created a new kind of photography, which through the excellent use of makeup is able to show us what we did not want to see.

Here is Joshua Hoffine’s official website.

Il babbuino ferroviere

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Sud Africa, 1880 circa.
Nello scompartimento di prima classe il caldo era soffocante.
Vicino al finestrino, ambrato dalla polvere esterna, sedeva una matrona sprofondata nelle sue trine e nei pesanti abiti scuri. Il ventaglio ricamato, con cui cercava un po’ di refrigerio, non conosceva riposo; la signora se lo passava da una mano all’altra non appena il polso si affaticava troppo.
Proprio mentre entravano nella stazione di Port Elizabeth, però, di colpo la sua intera figura si immobilizzò, come fosse diventata di sale, lo sguardo sbigottito fisso su un punto al di là del finestrino.
Boccheggiando, la signora cercò di trovare il fiato per dare l’allarme: infine un grido strozzato le uscì dalla gola: “Santo cielo! Mi è sembrato di vedere… c’è… c’è una scimmia che sta tirando le leve degli scambi ferroviari!”

Il treno continuò la sua crociera verso Cape Town senza problemi e, una volta sbarcata, la gentildonna allertò immediatamente le autorità ferroviarie dell’incresciosa e pericolosa scena a cui aveva assistito. All’inizio gli ufficiali erano piuttosto scettici riguardo alla storia di questa signora – una scimmia ai comandi della ferrovia? -, ma per dissipare qualsiasi dubbio ordinarono un’ispezione a Port Elizabeth. Quello che scoprirono li lasciò allibiti.

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Flashback a qualche anno prima.
Il casellante responsabile in quella stazione era un certo James Edwin “Jumper” Wide. Il soprannome, Jumper, non se l’era guadagnato per caso: per spostarsi velocemente all’interno della stazione, James aveva l’abitudine di saltare da un vagone all’altro finché erano in movimento, certe volte perfino da treno a treno. Un pomeriggio, mentre eseguiva uno di questi stunt che l’avevano reso celebre, il piede lo tradì e James cadde sotto le ruote del treno. Il convoglio gli tranciò di netto entrambe le gambe.

Una volta ripresosi, James comprese subito che, oltre alle gambe, quell’incidente gli avrebbe portato via anche il lavoro: come avrebbe potuto continuare ad essere utile alla Cape Government Railway? Il capostazione non si diede per vinto. Si costruì due gambe di legno su cui poter ricominciare a camminare, e prese a spostarsi seduto su un carrello abbastanza basso da essere spinto a forza di braccia. Ma, anche così, il suo lavoro divenne estremamente faticoso, e correre alle leve degli scambi ferroviari per rispondere in tempo al fischio dei treni in arrivo era un’impresa.

Un giorno James si stava aggirando per un mercato locale, quando vide un babbuino nero che guidava una carrozza. L’orgoglioso proprietario gli mostrò tutte le cose che l’intelligente primate era in grado di fare, e d’un tratto James si convinse che quel babbuino poteva davvero essere la soluzione ai suoi problemi. Acquistò l’animale, e lo portò a vivere con sé nella sua modesta abitazione, a mezzo miglio dalla stazione ferroviaria.

In breve tempo James e il babbuino (battezzato Jack) divennero amici inseparabili. James insegnò al primate a fare un po’ di pulizia in giro per casa, a ramazzare il pavimento della cucina, e via dicendo. Jack era anche un’ottima sentinella, e faceva da guardia al cottage intimorendo i visitatori indesiderati con le sue grida, e sfoggiando le sue temibili mascelle.

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Ogni mattina James si accomodava sul suo carrello, e Jack lo spingeva fino alla stazione ferroviaria. Ma il babbuino apprese presto ad aiutare il suo amato padrone anche sul lavoro.
Ogni volta che un macchinista era in arrivo, e aveva bisogno di carbone, faceva fischiare la locomotiva per quattro volte. James allora consegnava a Jack la chiave che sbloccava gli snodi per i depositi di carbone, e il solerte aiutante si occupava di aprire la scatola dei comandi. Si girava poi verso il padrone, aspettando il suo segnale: quando James abbassava il dito, il primate tirava infallibilmente le leve corrette. Il babbuino guardava addirittura verso il treno in arrivo per assicurarsi che il segnale relativo al binario fosse effettivamente cambiato, e si godeva il passaggio del convoglio nella giusta direzione. Evidentemente, quella mansione divertiva molto l’animale, e gli regalava una particolare soddisfazione.

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L’impeccabile lavoro di squadra di James e Jack continuò per diversi anni, fino all’ispezione di cui raccontavamo all’inizio, scattata in seguito alla denuncia della facoltosa passeggera. Una volta scoperto che era effettivamente un babbuino a comandare gli scambi, la società licenziò in tronco James. Ancora una volta, però, il capostazione non volle demordere.
Fece ricorso alle autorità ferroviarie, chiedendo che le abilità del suo babbuino venissero testate e valutate come quelle di qualsiasi impiegato della compagnia. Il manager, incredibilmente, accettò: vennero organizzate delle prove, in cui alcuni macchinisti fischiavano al loro arrivo in stazione – e di fronte agli occhi sorpresi degli ispettori, il primate non ebbe alcun problema nell’operare le leve alla perfezione.

Impressionati, i responsabili decisero di ridare nuovamente a “Jumper” James l’incarico di capostazione, e assunsero Jack come suo assistente, garantendo al babbuino le stesse razioni di cibo dei normali lavoratori, e perfino una piccola quantità di brandy al giorno. Aveva anche un numero lavoro, proprio come gli altri dipendenti della ferrovia.
Negli anni Jack The Signalman divenne una piccola celebrità, e spesso frotte di curiosi si attardavano a vedere all’opera l’improbabile casellante.

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Jack morì nel 1890 di tubercolosi, dopo nove anni di onorato lavoro. All’Albany Museum di Grahamston è ancora possibile vedere il suo teschio, a memoria dell’unico babbuino della storia ad essere stato regolarmente assunto da una società ferroviaria.

Il boia maldestro

Londra, durante i circa trent’anni della Restaurazione (1660-1688), era una città in preda alla violenza, immersa in un clima di paranoia e terrore. Oltre ai “classici” crimini come furti, rapine, omicidi e via dicendo, si rischiava anche di venire denunciati come cattolici, o peggio ancora nemici della corona: i processi, religiosi e politici, colpivano chi non era devotamente aderente all’ortodossia anglicana, così come chi aveva avversato il ritorno di Re Carlo II. E la pena capitale era inflitta con inquietante leggerezza, soprattutto durante le famigerate “assise sanguinose” nel 1685, presiedute dal temibile giudice Jeffreys che mandò al patibolo quasi 300 uomini senza battere ciglio.

Dal 1666 al 1678, il più celebre fra i boia era certamente Jack Ketch. Forse di origini irlandesi, la sua data di nascita non si conosce, né si sa quale mestiere svolgesse prima di diventare carnefice della corona. Molto spesso gli aguzzini avevano una carriera di macellaio alle spalle, e in effetti Ketch mostrava una certa dimestichezza nello squartare i cadaveri dei condannati.


All’epoca, infatti, la pena più severa fra tutte era riservata agli accusati di alto tradimento, e veniva denominata hanged, drawn and quartered: il condannato veniva legato a un’asse e trascinato da un cavallo fino alla pubblica piazza; qui, veniva completamente denudato e legato ad una scala in legno. (Per legge, le donne accusate del medesimo crimine andavano a questo punto arse vive – perché denudarle pubblicamente avrebbe offeso il comune pudore…).
Il collo veniva assicurato ad uno dei pioli della scala con una corda stretta a nodo corto, in modo da soffocare il suppliziato ma senza ucciderlo. Gli venivano tagliati pene e testicoli, e gettati in un braciere; ancora vivo, il condannato veniva poi sbudellato, e le sue viscere erano estratte dal boia che le bruciava di fronte ai suoi occhi. Infine si procedeva a decapitare il condannato, e a squartarne il corpo in quattro parti.


Ma non era finita qui: i resti del giustiziato dovevano essere esposti in vari punti strategici di Londra, come ad esempio lungo il London Bridge o a Temple Bar, affinché servissero da monito. Ecco che Ketch procedeva quindi, nelle segrete della prigione di Newgate, chiamate appropriatamente Jack Ketch’s Kitchen, a bollire i “quarti” dei condannati. Nel 1661 un visitatore di nome Ellwood descrisse quanto vide, come in una scena di un moderno film horror: “teste venivano portate per essere bollite, dentro a sporchi cesti di vimini, e i boia compiaciuti e beffardi le canzonavano”. Le teste venivano gettate nelle pentole e bollite nella canfora per prevenire la putrefazione, prima di essere esposte nei luoghi di maggior passaggio.


Ketch dovette occuparsi di diversi condannati a questo tipo di supplizio, perché quando Carlo II cominciò la restaurazione vennero mandati a morte tutti i regicidi (responsabili di aver firmato la condanna di Carlo I) che erano ancora in vita. Ma la maggior parte dei suoi servigi riguardavano le “semplici” impiccagioni, nelle quali eccelleva.

Purtroppo per lui, un punto debole Ketch ce l’aveva. Per quanto fosse a suo agio con cappi e coltelli, non sapeva proprio maneggiare l’ascia. A sua discolpa, c’è da dire che le decapitazioni erano relativamente rare e riservate ai nobili; fino a pochi anni prima, si faceva addirittura arrivare un boia dal Continente, esperto nell’utilizzo dell’ascia. Fatto sta che Ketch (a causa di tagli nel budget giudiziario?) si prese carico anche di quest’arte in cui non aveva alcuna esperienza, e che avrebbe macchiato per sempre il suo buon nome.

Il primo grosso scandalo che riguardò il boia fu l’esecuzione di Lord Russell nel 1683. Secondo la legge, il nobiluomo andava decapitato con un solo fendente, e una volta sul patibolo Lord Russell pagò, com’era d’uso a quel tempo, una bella somma a Ketch affinché svolgesse il suo lavoro in maniera decisa e pulita.
Mai soldi furono spesi peggio.

Secondo alcuni, il boia esagerava spesso con l’alcol – abitudine che, come si sa, non aiuta la mira. Fatto sta che Ketch sollevò la mannaia, ma il colpo che si abbattè sul condannato ferì il collo senza staccare la testa; la seconda stoccata ancora una volta non bastò. Lord Russell era ancora vivo, fra spruzzi di sangue e urla disumane. Un altro paio di colpi, e finalmente la lama fece rotolare via la testa di Lord Russell. Quell’infinita agonia fu talmente straziante da impressionare perfino le folle abituate al sangue, che seguivano avidamente e con regolarità le esecuzioni. Ketch fu costretto a pubblicare un opuscolo intitolato Apologie, in cui si scusava per la barbarie dello spettacolo, adducendo come attenuante il fatto che Lord Russell aveva sbagliato a “posizionarsi nel modo corretto” sui ceppi.

Due anni dopo, venne il turno di James Scott, primo Duca di Monmouth, anch’egli condannato alla decapitazione. Il Duca rifiutò il cappuccio o qualsiasi altro trattamento di favore, e una volta sul patibolo allungò la solita, profumata mancia a Ketch. Le sue ultime parole furono: “Non servitemi come avete fatto con Lord Russell. Ho sentito che l’avete colpito tre o quattro volte…”


Questa volta, se possibile, andò ancora peggio. Il primo fendente colpì addirittura la spalla del povero Duca; il secondo e il terzo non fecero che aprire nuove ferite non fatali. Fra i fischi della folla, Ketch depose l’ascia, deciso a lasciar perdere: lo fecero risalire sul patibolo a completare il lavoro. Ci vollero dai cinque agli otto colpi prima che il condannato finisse di soffrire. La gente era talmente inferocita che, se non ci fossero state le guardie a proteggerlo mentre si allontanava, Ketch sarebbe stato linciato sul posto.


Un anno dopo, nel 1686, Ketch fu incarcerato per resistenza ad un ufficiale; il suo assistente, Paskah Rose, prese il suo posto ma venne arrestato dopo appena quattro mesi, per rapina. Una volta uscito di prigione, Ketch riprese la sua carica, e ricominciò proprio dall’impiccagione del suo assistente a Tyburn. Verso la fine dello stesso anno, Jack Ketch morì.


A quanto si dice, Ketch fu un personaggio davvero spiacevole, costantemente ubriaco, ossessivamente avido di denaro, sempre pronto a lamentarsi del proprio compenso e a rivendere i vestiti dei condannati più nobili. Eppure, a causa delle sue ultime, maldestre performance, la figura di Ketch si guadagnò inaspettatamente un posto di rilievo nell’immaginario popolare: protagonista di ballate, poemi, pamphlet, citato da scrittori del calibro di Dickens, divenne il classico spauracchio per minacciare i bambini indisciplinati. E, grazie al tipico black humor inglese, entrò a far parte dei teatri di burattini della tradizione di Punch & Judy: in questi spettacoli, spesso il “boia pasticcione” viene ingannato e finisce immancabilmente per impiccarsi da solo.

Speciale: Fotografare la morte – II

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Negli ultimi trent’anni Jack Burman ha esplorato il mondo alla ricerca dei morti. Da quando, negli anni ’80, ha visitato le catacombe dei Cappuccini a Palermo, la sua arte è divenuta instancabilmente concentrata sull’esplorazione di ciò che rimane del corpo dopo la morte.

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Dal Sud America all’Italia, dalla Spagna alla Francia e alla Germania, Burman ha visitato luoghi sacri, musei di anatomia, obitori e scuole di medicina; in ognuno di questi luoghi ha fotografato quei morti che al  tempo stesso “riposano” e “non riposano”, poiché le loro spoglie sono ancora visibili e intatte, che siano delle mummie o delle reliquie, o dei preparati conservati per lo studio medico.

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L’approccio di Burman a questo soggetto macabro ed estremo è di grandissimo rispetto: spesso inquadrati di fronte a un backdrop nero, sapientemente illuminati, questi resti umani acquistano una nobiltà e un’astrazione inaspettate. La testa di una donna è racchiusa in un vaso di vetro: i suoi occhi socchiusi, la serenità dell’espressione, l’immobilità della carne le donano un’aura quasi sacra; questa donna ha conosciuto il segreto, è passata dall’altra parte e la sua seraficità ci parla di una conoscenza per noi irraggiungibile. Sarebbe facile parlare di memento mori – eppure forse c’è di più. Di fronte agli scatti di Burman, paradossalmente, il sentimento che proviamo non è quello della morte che conquista ogni cosa: non assistiamo alla decomposizione che annulla ogni speranza, ma siamo invece confrontati con un concetto forse ormai fuori moda – la dignità.

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Le fotografie di Burman ci mostrano con estrema compassione la bellezza e il dramma dell’uomo, fissate per sempre nell’istante ultimo. Impossibile non immaginare le aspirazioni, le passioni, la vitalità dei soggetti ritratti: e le composizioni del fotografo sembrano perpetuare questa forza vitale, come se i morti fossero ancora in grado di parlarci della vita quaggiù, delle nostre stesse esistenze, piccole ma commoventi, in cui lo splendore e la miseria sono le due facce dell’identica medaglia. Più si guardano queste fotografie, e più cresce forte la sensazione di essere guardati. E chi ha attraversato la soglia forse ha elementi in più, ha per così dire un quadro più completo – ma il suo mistero è inaccessibile, e Burman immortala questi “resti”, cosciente di fotografare uno scrigno che non potrà mai essere aperto.

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Ecco le nostre cinque domande a Jack Burman.

1. Perché hai deciso che era importante raffigurare la morte nei tuoi lavori fotografici?

Sebald ha scritto che “la fisicità è scolpita più fortemente, e la sua natura diviene più percettibile nell’indistinto confine con la trascendenza”. Io cerco di lavorare vicino al corpo e porre il mio lavoro proprio su quel confine.

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2. Quale credi che sia lo scopo, se ce n’è uno, delle tue fotografie post-mortem? Stai soltanto fotografando i corpi, o sei alla ricerca di qualcos’altro?

Una parte di questa domanda trova già risposta nella prima. Fammi aggiungere questo: io cerco di trovare una parte della presenza del corpo. La forza del danno e della perdita. La durezza e i moti del tempo che si depositano sulla (e sotto la) pelle. Il sentimento.

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3. Come succede per tutto ciò che mette alla prova il nostro rifiuto della morte, il tono macabro e sconvolgente delle tue fotografie potrebbe essere visto da alcuni come osceno e irrispettoso. Ti interessa scioccare il pubblico, e come ti poni nei riguardi della carica di tabù presente nei tuoi soggetti?

Ricordi i capelli della ragazza all’inizio di Dell’amore e di altri demoni di Garcia Marquez? I capelli sono le orecchie, gli occhi, i nervi della ragazza. Così ciascuna mano, ed il volto.  Quando entro nella sfera privata dei morti, lo faccio con un lento e forte rispetto per le loro mani, braccia, spalle e occhi. I pochi collezionisti che comprano le mie stampe (o il mio libro) per portarle fra le loro mani e nelle loro stanze – almeno quelli che conosco – vedono le cose con lo stesso rigore.

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4. È stato difficile approcciare i cadaveri, a livello personale? C’è qualche aneddoto particolare o interessante riguardo le circostanze di una tua foto?

No, non è stato mai difficile.
Tempo fa, il mio lavoro mi portò in una cittadina sulle Ande Peruviane. Ogni mattino, all’alba, una mandria di alpaca veniva condotta al pascolo attraverso uno stretto vicolo proprio dietro al muro contro il quale stava il mio letto. Il loro movimento attraversava il muro e faceva vibrare il letto. Era interessante poi alzarsi e andare a lavorare con dei cadaveri del 1500.

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5. Riguardo alle foto post-mortem, ti piacerebbe che te ne venisse scattata una dopo che sei morto? Come ti immagini una simile foto?

Sì, mi piacerebbe, a condizione che la persona che la scatterà sia capace di vedere attraverso i miei occhi, il mio passato, i miei bisogni.
La immagino pulita; scura; danneggiata; semplice; punteggiata dalla luce.

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Questo è il sito ufficiale dell’artista. Il suo libro fotografico The Dead può essere acquistato sul sito di Magenta.