La morte in musica – IV

Nell’agosto del 1967 tutti in America parlavano di Ode to Billie Joe. Il singolo di debutto dell’allora sconosciuta Bobbie Gentry aveva scalzato All You Need Is Love dei Beatles dalle classifiche, vendendo 750.000 copie in pochissimo tempo. Era un successo totalmente inaspettato, tanto che i produttori della Capitol Records l’avevano originariamente relegato a B-side, convinti che nessuno l’avrebbe mai sentito. Eppure la canzone sarebbe divenuta una delle più celebri di sempre, ispirando addirittura un film, e il mistero contenuto fra le righe del testo avrebbe affascinato gli ascoltatori fino ad oggi.

Ode to Billie Joe

Ode to Billie Joe comincia come una vivida rappresentazione della vita quotidiana nell’assolato e povero entroterra della regione del Delta del Mississippi degli anni ’30 o ’40: la narratrice, evidentemente una teenager, lavora già nei campi assieme al padre e al fratello, nella calura di un’altra “assonnata e polverosa giornata nel Delta”. Ma è durante il pranzo che il vero tema della canzone emerge: il suicidio di Billie Joe, un ragazzo ben conosciuto alla famiglia della ragazza.

E qui di colpo la finezza della scrittura diviene prodigiosa. Con pochi, semplici tocchi, il testo ci racconta la banalità della morte nelle reazioni dei familiari: il cinismo del padre, che liquida il ragazzo suicida come una testa vuota (e quel “passa i biscotti” appena dopo il tranciante giudizio, a indicare il totale disinteresse per la notizia), il fratello che ricorda un vecchio scherzo senza apparente importanza, e la madre che, più empatica ma ugualmente superficiale nel suo chiacchiericcio, conduce la conversazione come una comare di paese.
La narratrice, invece, rimane chiusa nel suo mutismo, senza più appetito, e non possiamo sapere cosa pensi davvero: le sue emozioni non vengono descritte se non di riflesso, attraverso piccoli indizi sottilmente sparsi qua e là. È evidente che per lei Billie Joe significava più di quanto abbiano compreso i suoi disattenti familiari. L’hanno vista parlare con il suicida dopo la messa, e gettare “qualcosa” giù dal ponte dove egli si è tolto la vita. E qui arriviamo al vero mistero della canzone: cosa stavano buttando nella corrente del Tallahatchie lei e Billie Joe?

Le congetture sono molte: c’è chi è convinto che i due amanti stessero semplicemente gettando dei fiori (come riecheggiato nel finale della canzone), oppure un anello di fidanzamento, il che motiverebbe il suicidio del giovane, depresso per la rottura dell’idillio. Una cosa risulta evidente, dal silenzio della protagonista durante il pranzo – il loro era certamente un amore clandestino, soprattutto considerando l’opinione che il padre aveva del ragazzo; secondo alcuni, la pericolosità della relazione potrebbe indicare che Billie Joe era bianco, mentre la narratrice sarebbe di colore. Ecco allora che un’altra ipotesi, ancora più terribile, si fa strada: ciò di cui i due ragazzi si stavano disfando sul ponte era forse il loro bambino, prematuro o abortito, frutto di una gravidanza indesiderata e inconfessabile. Billie Joe, in preda ai sensi di colpa, non avrebbe resistito al rimorso e si sarebbe gettato in acqua nello stesso punto.

Questo enigma ha spesso oscurato, nelle discussioni, gli altri evidenti meriti del brano, primo fra tutti l’inquietante descrizione di una mentalità ottusa. La stessa autrice Bobbie Gentry ha fatto notare, spazientita, che “la canzone è una specie di studio sulla crudeltà inconscia. Ma tutti sembrano più interessati a cosa è stato gettato dal ponte, piuttosto che all’insensibilità della gente che viene raccontata nella canzone. Cos’hanno buttato dal ponte non è veramente importante. […] Chiunque ascolti la canzone può pensare cosa vuole al riguardo, ma il vero messaggio della canzone, se dev’esserci, è incentrato sulla maniera noncurante con cui la famiglia parla del suicidio. Se ne stanno seduti a mangiare i loro piselli e la torta di mele e parlano, senza nemmeno accorgersi che la fidanzata di Billie Joe è seduta lì con loro, ed è un membro della famiglia“.

Tutto, in Ode to Billie Joe, è cupo, opprimente, senza scampo. L’atmosfera ipnotica e paludosa della musica sembra rimandare alle lente, fangose acque del fiume, unica via di fuga possibile dalla pesante realtà per Billie Joe. Lo splendido finale ci racconta la dissoluzione della famiglia: il fratello si trasferisce, il padre muore (ma l’evento ci viene raccontato soltanto dopo le notizie sul fratello – una riprova del poco affetto provato per il genitore dalla narratrice?), la madre perde ogni vitalità e la giovane protagonista finisce per rimanere bloccata nel proprio personale purgatorio, in un rituale funebre ripetuto ossessivamente. Come i fiori inghiottiti dall’acqua marrone, anche la speranza affonda inesorabilmente.

Questa pagina (in inglese) riassume bene tutte le varie proposte di lettura avanzate, nel tempo, sulla canzone e i suoi “non detti”.

Coffin Joe

Benvenuti in Brasile, terra di sole, samba, bossa nova, piume colorate e carnevali pittoreschi.

E terra di una delle icone più tenebrose, ciniche e strambe del cinema weird – benvenuti anche nello strano mondo di Coffin Joe.

Coffin Joe (americanizzazione di Zé do Caixão, “Joe della Bara”) è il personaggio creato da José Mojica Marins nel 1963 per il film seminale À Meia-Noite Levarei Sua Alma (“A mezzanotte prenderò la tua anima”). Il film è considerato il primo horror brasiliano, e Marins si era deciso a girarlo a basso budget ispirandosi a un incubo che aveva fatto, nel quale un demoniaco becchino lo trascinava verso la tomba; poco prima delle riprese l’attore protagonista diede forfait, e José fu costretto a interpretarlo di persona, oltre che a dirigere. Questa fu, nell’imprevisto, la più grande fortuna nella vita di Marins.

Zé do Caixão è un personaggio che sembra uscito dritto dritto dagli E.C. Comics, quelli di Crypt Keeper (Zio Tibia, per intenderci): è un becchino perennemente vestito di nero, porta una vistosa tuba, barbetta mefistofelica e unghie lunghissime ed arricciate a mo’ di artigli. Odiato dai campesinos, che lo temono per i suoi continui soprusi, egli spadroneggia con crudeltà e violenza nel piccolo borgo rurale in cui vive. Ma Zé ha anche un lato più “adulto” e scorretto, che lo distingue dai personaggi classici dei film horror di quegli anni: è un assassino amorale, apertamente nichilista e blasfemo, e dedito alla ricerca dell’unica cosa che abbia valore per un ateo come lui: la “continuità del sangue”, cioè la creazione di una stirpe. Per questo cerca incessantemente la donna giusta da violentare affinché gli doni un figlio.

Già da questa breve sintesi si comprende come, in un paese radicalmente cattolico come il Brasile di inizio anni ’60, una pellicola “cattiva” e aggressiva come A Meia-Noite potesse creare scalpore. In una scena Zé, contro ogni precetto religioso, mangia euforico uno stinco di maiale davanti alla processione del Venerdì Santo, sbeffeggiando i credenti per la loro stupidità. In un’altra, lega sua moglie al letto e, come punizione per non aver saputo dargli una discendenza, le fa camminare sul corpo semisvestito un’enorme tarantola che la morde, uccidendola. Zé quindi, pur di ottenere la donna di un suo amico, non esita ad annegarlo senza pietà per poi cercare di ingravidare la spaventata vedova. Il tutto condito dalle considerazioni filosofiche rabbiose, le invettive contro la codardia e l’inferiorità dei suoi simili, e la sfrenata mitomania di un super-uomo negativo e malvagio, in una specie di ingenua e fumettistica elegia del male. Nietzsche filtrato dalla sensibilità di un adolescente cresciuto a pane e Dracula, insomma.

L’anti-eroe creato da Marins fu censurato, osteggiato e creò un putiferio all’uscita nelle sale. Nelle provincie in cui era possibile vederlo nei cinema, il film fece incassi senza precedenti. Il successo enorme spinse Marins a continuare su quella strada, e a sviluppare ulteriormente il suo personaggio. Nel seguito al primo film, intitolato Esta Noite encarnarei no Teu Cadàver (“Questa notte possiederò il tuo cadavere”), del 1967, Coffin Joe ritorna più cattivo e potente che mai… e ancora ossessionato dalla ricerca della madre perfetta per la sua discendenza. Da questo momento in poi Zé do Caixão diventa una vera e propria icona del cinema brasiliano, e conquista fumetti, musica, TV, patrocinando il merchandising più vario (da una linea di profumi a una di manicure!). José Mojica Marins raramente esce dal personaggio anche durante le interviste e le apparizioni televisive o per la stampa: si presenta immancabilmente vestito di nero, con la sua tuba e le unghie  lunghissime (che si lascerà crescere fino al 1998).

Coffin Joe è fin dall’inizio immaginato come protagonista di un’imponenete esalogia dantesca, ma i soldi per il terzo titolo della saga arriveranno solo nel 2008, con il titolo Encarnação do Demônio. Nel frattempo, Marins sforna innumerevoli altri film in cui Coffin Joe appare marginalmente, solitamente confinato nel mondo degli incubi, o in limbi allucinati e surreali. Da un certo punto in poi la sua popolarità decresce, nonostante Marins continui a tenere vivo il suo personaggio tramite trasmissioni televisive, fumetti e quant’altro. In alcuni film egli gioca con il suo personaggio, mettendosi a nudo in prima persona, cominciando a prendere le distanze dal suo alter ego mefistofelico (“Zé do Caixão non esiste!”), e in alcune sequenze Marins sfida Coffin Joe in duelli all’ultimo sangue.

Nel 1985 Marins, per motivi finanziari, acconsente a dirigere un film pornografico, che ha un inaspettato successo; nonostante il suo disprezzo per la pornografia, Marins ne dirige quindi il sequel, ma decide di buttarsi nuovamente in prima persona nel film. Così, nel corso di una maratona di 48 ore di sesso, Marins si aggira attraverso la marea di corpi sudati e copulanti, impartendo ordini, dando istruzioni su che posizioni assumere, come e dove eiaculare. Scrivono Curti e La Selva nel loro imprescindibile saggio Sex and violence: percorsi nel cinema estremo (Lindau, 2003): “più che il discorso metalinguistico, colpiscono l’ammirevole coerenza e la faccia tosta, la stessa che il regista mostra oggi, a 70 anni suonati, salendo sui palchi dei festival con gli inseparabili mantello e tuba ed esibendosi nella parte di Zé do Caixão per un pubblico che dei suoi film apprezza spesso solo il fattore camp. Pare innocuo, con quell’aria un po’ da imbonitore di fiera e un po’ da pugile suonato, ma alla fine resta il sospetto che sia lui a ridere alle nostre spalle, anziché il contrario. Proprio come nei suoi migliori film”.

Nel 2001, il documentario che ripercorre la carriera del regista, intitolato Maldito – O Estranho Mundo de José Mojica Marins, vince il premio speciale della giuria al Sundance Film Festival.

Resta il fatto che, nella marea di filmacci “rivalutati” negli ultimi anni dagli amanti del trash, José Mojica Marins sia fra gli autori meno sprovveduti, soprattutto a livello figurativo. Egli resta a metà strada fra Mario Bava, il surrealismo di Buñuel o il panico di Jodorowksy, e l’exploitation “d’autore” di un Russ Meyer. I suoi film, seppur girati con budget irrisori, vantano sempre una fotografia suggestiva, e una particolare cura per le location. E seppure nelle intenzioni dell’autore fossero degli horror con un messaggio (l’attacco alla sonnolenza di un proletariato bigotto e superstizioso), la critica sociale è sempre smorzata dallo sguardo sornione, sopra le righe, del becchino dalle unghie smisurate.