Endocannibalismo

 Che cos’è il cannibalismo, se non il riconoscimento
del “valore” dell’altro, a tal punto da doverlo ingoiare?

(Francesco Remotti, Identità, 2013)

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Mangiare le carni di un essere umano è una pratica antica come il mondo, dallo stratificato e complesso valore simbolico.
In generale, dalla selva di teorie antropologiche o psicanalitiche al riguardo, non tutte condivisibili, emerge un elemento fondamentale, ossia la credenza magico-spirituale di poter assimilare attraverso il banchetto antropofago le qualità del morto. Dall’Africa all’Amazzonia alle Indie, divorare un valoroso nemico ucciso o fatto prigioniero in battaglia era certo un modo per vendicarsi, per negare l’alterità (e per contro, così facendo, rinforzare la propria identità culturale); ma a questo si unisce la speranza di acquisire il suo coraggio e la sua forza. Quest’idea è corroborata dal fatto che lo stesso meccanismo di transfert sarebbe stato presente anche nei riguardi della selvaggina, per cui alcune tribù del Sudamerica non cacciavano animali che si muovevano lentamente per timore di perdere le forze dopo essersene cibati.

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Il cannibalismo, quasi universalmente, era poi ritualizzato e regolato da divieti precisi: l’identificazione fra vivi e defunti avveniva su diversi livelli, e ad esempio fra i Tupinamba chi aveva ucciso un determinato nemico non poteva assolutamente mangiare le sue carni, mentre gli era consentito nutrirsi dei corpi delle vittime dei suoi compagni guerrieri; rispetto a tutti gli altri pasti quotidiani, spesso l’agape cannibalesca era riservata ai soli guerrieri, avveniva di notte in speciali luoghi deputati allo scopo, e via dicendo. Tutto questo dimostra la prevalenza della significazione simbolica sull’effettiva necessità alimentare – l’idea che il cannibalismo potesse essere la soluzione ad una dieta con scarso apporto proteico, che pure alcuni autori sostengono, sembra secondaria. Nei contesti rituali, l’atto di consumare il cadavere di un proprio simile è eminentemente magico, e spesso superfluo ai fini della sopravvivenza.
I Tupì-Guaranì, ad esempio, bollivano le interiora dell’ucciso, ottenendo un brodo chiamato mingau che veniva distribuito a tutta la tribù, ospiti e alleati inclusi. Il reale apporto nutritivo fornito dalla carne umana, suddivisa fra decine e decine di persone, in questo caso era del tutto trascurabile.

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Ancora più interessante sotto il profilo simbolico si presenta l’endocannibalismo, o allelofagia, vale a dire il cannibalismo verso individui appartenenti al proprio gruppo sociale.
Il primo a parlarne fu Erodoto nelle sue Storie (III,99):

Altre genti dell’India, localizzabili più verso oriente, sono nomadi e si nutrono di carni crude: si chiamano Padei; ed ecco quali sono, a quanto si racconta, le loro abitudini: quando uno di loro si ammala, uomo o donna che sia, viene ucciso; se è uomo, lo uccidono gli amici più intimi sostenendo che una volta consunto dalla malattia le sue carni per loro andrebbero perdute; ovviamente l’ammalato nega di essere tale, ma gli altri non accettano le sue proteste, lo uccidono e se lo mangiano. Se è una donna a cadere inferma, le donne a lei più legate si comportano esattamente come gli uomini. Del resto sacrificano chiunque giunga alla soglia della vecchiaia e se lo mangiano. Ma a dire il vero non sono molti ad arrivare a tarda età, visto che eliminano prima chiunque incappi in una malattia.

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Se questa descrizione presenta l’endocannibalismo sotto una luce cinica e spietata, la maggior parte delle tradizioni in realtà vi ricorrevano in maniera ritualistica. In linea generale, infatti, soltanto gli estranei o i nemici venivano mangiati per fame o come forma di violazione; nel caso di defunti appartenenti al proprio clan le cose si facevano più complesse. Il capo tribù dei Jukun dell’Africa Occidentale, ad esempio, mangiava il cuore del suo predecessore per assorbirne le virtù; in molti altri casi l’assunzione delle carni umane era trattata come una vera e propria forma di rispetto per i defunti. Per noi risulta forse difficile accettare che vi sia della pietà filiale nell’atto di mangiare il corpo del proprio padre (patrofagia), ma possiamo comunque intuire la portata simbolica di questo gesto: il morto viene assimilato, e diventa parte vivente della sua progenie. Gli antenati, in questo modo, non sono degli spiriti lontani la cui protezione va invocata con riti e preghiere, ma sono verità tangibile e pulsante nella carne della propria stirpe.

Piuttosto significativo in quest’ambito di discussione risulta il caso dei Tapuya brasiliani, presso i quali talvolta, quando un padre invecchiava al punto da non potere più seguire gli spostamenti del gruppo, intrapresi solitamente per soddisfare i bisogni dei vari nuclei familiari, chiedeva ai parenti stretti di mangiare le sue carni e continuare così a vivere nei discendenti, dal momento che le sue precarie condizioni fisiche avrebbero costituito un ostacolo per l’intera comunità. A tale richiesta dunque il figlio maggiore concedeva il suo assenso ed esternava il suo dolore innalzando grida di sgomento di fronte ai propri consanguinei.
Dopo la morte per cause naturali dell’anziano del gruppo, il suo corpo veniva arrostito nel corso di una complessa cerimonia accuratamente eseguita e l’intera famiglia, unitamente alla comunità, ne divorava le parti, accompagnando il pasto comune con urla e lamenti, alternati a racconti delle gesta del defunto. Ossa e cranio venivano frantumati e bruciati, mentre il resto del corpo era disposto in un grande recipiente di terracotta e quindi sotterrato.
Sembra che i bambini invece fossero mangiati soltanto in caso di estrema necessità o di pericolo e unicamente dalla propria madre, oppure quando morivano per cause sconosciute; si pensava infatti di non potere offrire loro una tomba migliore del corpo nel quale si erano formati.

(L. Monferdini, Il cannibalismo, 2000)

Usanze similari erano diffuse in Africa e nel Sudamerica (Amazzonia, Valle di Cauca, ecc.) dove diverse tribù solevano nutrirsi delle ceneri dei familiari mescolate assieme a bevande fermentate. In diverse tradizioni, erano solo le ossa ad essere mangiate, una volta bruciata la carne. I Tariana e i Tucano del Brasile riesumavano la salma alcuni mesi dopo la sepoltura, arrostivano le carni fino a che non rimaneva soltanto lo scheletro, che poi veniva finemente triturato e aggiunto a una bevanda destinata al consumo dell’intera comunità.

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Gli Yanomami del Venezuela praticano questa forma di endocannibalismo delle ceneri ancora oggi. Il corpo del defunto viene in un primo momento avvolto in strati di foglie e portato lontano dal villaggio, nella foresta. Lì viene lasciato agli insetti per poco più di un mese, finché tutti i tessuti molli non sono scomparsi. Allora le ossa vengono raccolte, cremate, e le ceneri sono disciolte in una zuppa di banane distribuita a tutta la tribù. Se avanzano delle ceneri, queste possono essere conservate in un vaso fino all’anno successivo, quando per un giorno (il “giorno della memoria”) viene sollevato il divieto di parlare dei morti e, bevendo la zuppa, l’intero villaggio si riunisce per ricordare le vite e le gesta dei defunti.

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Ma questi esempi non dovrebbero suggerire l’erronea impressione che il cannibalismo sia stato appannaggio esclusivo delle popolazioni tribali del Sudamerica, dell’Oceania o dell’Africa. Recenti scoperte hanno mostrato come la pratica fosse diffusa nelle isole britanniche all’epoca dei Romani, negli Stati Uniti del Sud, e che le abitudini antropofaghe risalgono addirittura all’epoca degli ominidi di Neanderthal o a prima ancora (vedi Homo antecessor). I ritrovamenti di ossa con segni di cottura e raschiatura, e di feci umane fossili contenenti mioglobina (una proteina che si trova esclusivamente nel cuore e nei muscoli), sembrano confermare l’ipotesi che il cannibalismo sia esistito nel nostro passato in maniera molto più diffusa del previsto.

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Un team di esperti capitanati dal professor Michael Alpers della Curtin University of Technology, studiando nel 2003 le malattie da prioni, per capire in particolare perché una buona percentuale di persone in tutto il mondo ne sia immune, è arrivato alla conclusione che si deve ringraziare proprio il cannibalismo. Esaminando un gruppo di donne della tribù Fore della Papua Nuova Guinea, particolarmente resistenti alla patologia da prioni chiamata kuru, si è scoperto che il responsabile della protezione dalla malattia è un particolare gene “duplicato”: le persone che posseggono il doppio gene sono al riparo dal kuru, quelle che hanno un gene singolo sono a rischio. Tutte le femmine Fore dotate di questa specie di “anticorpo” avevano preso parte, dagli anni ’20 agli anni ’50, a banchetti cannibali durante la più disastrosa epidemia di encefalopatie da prioni. Alle donne e ai bambini era consentito di mangiare soltanto il cervello e gli organi interni dei defunti, mentre i maschi si dividevano la carne (non infetta dai prioni). In alcune comunità le donne furono quasi completamente decimate, ma quelle che sopravvissero svilupparono la seconda copia del gene in grado di salvarle.
Il fatto però che questo doppio gene sia piuttosto comune nella popolazione mondiale ha fatto ipotizzare ad Alpers che esso sia un lascito dell’antica diffusione del cannibalismo, o perlomeno dell’endocannibalismo ritualistico, su scala globale: un passato che accomunerebbe gran parte dell’umanità.

Il divoratore di bambini

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La Svizzera, si sa, è un posto tranquillo e la capitale elvetica, Berna, accoglie il visitatore con il distillato delle migliori attrattive nazionali: aria fresca, cucina prelibata, pulizia, precisione e ordine. Il centro storico della città è perfettamente conservato, e sorge sulla penisola all’interno di un’ansa del fiume Aare. Proprio nel cuore di questo gioiello di architettura medievale, quasi a contrastare con l’operosa ma placida atmosfera della Kornhausplatz, si erge un simbolo tutt’altro che mite e sereno. Si tratta del Kindlifresser, il Mangiatore di Bambini.


Alla base della colonna decorata, il fregio mostra degli orsi bruni (simbolo della città), armati di tutto punto, che partono per la guerra suonando strumenti militari come una cornamusa e un tamburo. In alto, invece, ecco il vero protagonista della composizione: un orco, appollaiato su un capitello corinzio, si infila in gola un bambino nudo, mentre altri neonati spuntano da un sacco per le provviste.


La Kindlifresserbrunnen, costruita nel 1546, è una delle fontane più antiche della città, ed è anche un esempio di come la storia e la cultura possano talvolta “perdersi” e venire dimenticate: oggi, infatti, nessuno sa perché quella statua stia lì, e quale fosse il suo significato originario.


Quello che si sa di certo è che l’autore della scultura è Hans Gieng, a cui secondo gli studiosi si devono quasi tutte le splendide fontane cinquecentesche che adornano la Città Vecchia, come ad esempio il bellissimo Sansone che uccide il leone (Simsonbrunnen). Ma, a differenza delle altre, l’orco che divora i bambini non è una rappresentazione classica facilmente comprensibile, e non essendo rimasto negli archivi nessun accenno al suo senso allegorico originale, per gli storici il Kindlifresser rimane un mistero.


Le teorie sono diverse. Secondo alcuni, potrebbe trattarsi di una raffigurazione di Crono, il Titano della mitologia Greca che, per non essere spodestato dai propri figli, li divorò ad uno ad uno mentre erano ancora in fasce (unico sopravvissuto: Zeus).

Un’altra teoria vede nella grottesca figura una sorta di monito per la comunità ebraica della città. In effetti pare che il vestito del Kindlifresser fosse originariamente pitturato in giallo, colore dei Giudei; anche il copricapo che indossa ricorda effettivamente il cappello conico imposto in Germania agli ebrei askenaziti, assieme alla rotella cucita sulle vesti o sul mantello. Se questo fosse vero, la statua avrebbe avuto allora un intento denigratorio collegato alla cosiddetta “accusa del sangue“, cioè alla diceria che gli israeliti praticassero sacrifici e omicidi rituali.


Ma le ipotesi non si fermano qui. C’è chi suppone che il Kindlifresser sia il fratello maggiore del Duca Berchtold V. von Zähringen, fondatore di Berna, che in un accesso di follia avrebbe mangiato i bambini della città; secondo altri, il personaggio misterioso sarebbe il Cardinale Matthäus Schiner, comandante militare in diverse battaglie nel Nord Italia; secondo altri studi potrebbe trattarsi di uno spauracchio pensato perché i bambini stessero alla larga dalla celebre fossa degli orsi che si apriva lì vicino; infine, l’inquietante figura potrebbe semplicemente essere una maschera collegata alla Fastnacht, il Carnevale nato proprio nelle prime decadi del 1500 e ancora oggi celebrato in Svizzera.


La ridda di congetture non intacca la foga con cui il Kindlifresser, da 500 anni, consuma il suo crudele pasto; spaventando i bambini bernesi, attirando frotte di turisti e ispirando artisti e scrittori.

Il fornaio di Hannibal Lecter

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(Articolo a cura del nostro guestblogger Andrea Ferreri)

Il suo negozio si chiama Body Bakery, cioè la “panetteria dei corpi”. Se volete visitarla, dovete fare un po’ di strada, perché è a Ratchabury, a 100 km da Bangkok, in Thailandia. Il fornaio si chiama Kittiwat Unarrom, ha 35 anni, e, quando andate a trovarlo nel suo negozio, vi arriva subito la sensazione di essere capitati nel rifugio di un serial killer: nelle vetrine sono in esposizione teste, braccia, mani, intestini, attaccati a ganci come se fossero pezzi di carne in esposizione in una macelleria.

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Kittiwat li rende simili al vero grazie alla sua abilità nel manipolare acqua e farina, cui aggiunge però cioccolato, resine e coloranti tutti naturali, uvetta, anacardi e gli altri seducenti sapori cui siamo abituati nelle nostre città. Insomma, quei rimasugli di corpi li potete anche mangiare: basta solo superare l’idea che siete diventati cannibali.

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L’idea di produrre un pane così raccapricciante nasce da una massima buddista secondo la quale “ciò che vedi potrebbe non essere vero quanto ciò che pensi”. E, infatti, quelli che sembrano i resti di un massacro nascondono la fragranza e la freschezza del pane, alimento della vita. «Quando i miei clienti vedono i miei lavori – racconta Kittiwat – scappano via, non vogliono nemmeno provare a mangiarli. Però, se li assaggiano, scoprono che sono solo pane e ne traggono una lezione: mai giudicare dalle apparenze!».

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La food art fa parte della cultura artistica asiatica: in Thailandia c’è una vera e propria scuola di scultori di frutta che producono capolavori, per esempio, lavorando su un cocomero. Ma c’è anche una vicinanza profonda, antropologica, dello spirito thai alla morte (ne trovate un esempio in questo articolo). Così, il “fornaio di Hannibal Lecter” realizza le sue opere in perfetta sintonia con il suo ambiente culturale. Ma intorno a lui fioccano le leggende: si dice che suo padre lavorasse all’obitorio di Bangkok e che Kittiwat abbia passato la vita dividendosi tra il forno di famiglia e i cadaveri dimenticati sui tavoli di marmo della morgue.

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È quasi tutto vero. Kittiwat viene da una famiglia di fornai e ha imparato a fare il pane a 10 anni, ma dal 2006, quando cioè si è laureato in Belle Arti e ha cominciato a realizzare le sue sculture “alimentari”, il suo mestiere si è trasformato in qualcosa di più raffinato, in uno strano, irrituale tentativo di raccontare il proprio mondo religioso. Si è documentato studiando libri di medicina, visitando musei anatomici e ha conquistato una straordinaria conoscenza dei suoi materiali base: l’acqua e la farina. Le sue opere sono incredibilmente somiglianti al vero, perturbanti e violente, ma non sono pensate soltanto con l’intenzione di creare disagio. Incartando i suoi lavori come se fossero alimenti (e di fatto lo sono), Kittiwat mette i clienti di fronte al loro lato oscuro, alla capacità di vedere la morte non più come un evento dal quale fuggire, ma come qualcosa da mangiare. Peccato però che questo aspetto sia passato in secondo piano: negli ultimi anni, anche grazie alla celebrità regalata da internet, lo spettacolo horror del suo obitorio commestibile è diventato un’attrazione turistica che potete trovare perfino nelle guide.

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Gourmand e gourmet

(Articolo a cura del nostro guestblogger Pee Gee Daniel)

Che altro è l’ingordo se non un entusiasta della vita che pretenda di degustarla il più possibile attraverso le cavità orali?
Se il filosofo ambisce a comprendere l’universo attraverso il pensiero, il dandy grazie ai lussi sibaritici di cui si circonda, e il grande amatore giacendo con un’infinità di partner, il mangione eserciterà questa disposizione d’animo assimilando tutto il cibo che l’elasticità delle pareti intestinali gli permetta di ingurgitare.
I due campioni di quest’ultima inclinazione, che andremo qui di seguito a descrivere, sarebbero piaciuti a Rabelais: ben testimoniano infatti le prerogative che il mostruoso sviluppo della fase orale può assumere, tra quantità e qualità, tra il polifago e l’onnivoro, tra la fame e l’appetito.

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Nonostante sia vissuto in tempi relativamente recenti (la sua breve vita si svolse infatti tra il 1772 e il 1798) di Tarrare non ci sono rimaste notizie biografiche inoppugnabili e tutto di questa figura tende a sconfinare nel leggendario. Unica certezza è la bulimia pantagruelica da cui era affetto.
Sembra che sin dalla più tenera età fosse capace di ingurgitare intere derrate di carne, tanto che la modesta famiglia d’origine si vide presto costretta a buttarlo fuori casa, intimandogli di provvedere da solo alla propria inestinguibile voracità. Tarrare partì dunque dalla natia Lione per esibirsi in tutta la Francia con compagnie di giro, presso cui rivestiva il ruolo di una sorta di geek ante litteram. Il suo numero consisteva nell’ingoiare qualunque cosa il pubblico gli porgesse: pietre, animali vivi e frutti interi.
Giunto a Parigi si arruolò nell’Esercito Rivoluzionario, tra le cui fila ben presto ci si accorse che le razioni militari non erano minimamente sufficienti a saziare quello stomaco senza fondo. Venne  ospedalizzato e fu allora che i medici per la prima volta ebbero modo di condurre alcuni test circa le sue potenzialità digestive. Il soggetto si dimostrò capace di divorare in una sola volta, e senza apparente sforzo, le portate di una mensa imbandita per 15 persone, una quantità di gatti, cagnolini, lucertole e serpenti vivi e, dulcis in fundo, un’intera anguilla, che butto giù senza masticare.
Avendo tra l’altro dato prova di poter ingoiare un’intera risma di fogli, “restituendoli” a fine giornata pressoché intonsi, il generale Beauharnais lo impiegò per il buon esito della guerra in corso contro i prussiani, obbligando Tarrare a ingoiare documenti della massima importanza che, custoditi nelle sue budella, egli avrebbe poi “depositato” oltre le linee nemiche. Intercettato dall’esercito tedesco, si ritrovò ancora tra le corsie di un nosocomio, dove stavolta l’equipe medica tentò di curare l’inusuale patologia tramite una terapia a base di laudano, pillole di tabacco, aceto di vino e uova sode, destinata comunque all’insuccesso. Tiranneggiato da languori sempre più incontenibili, Tarrare si spinse a sgranocchiare immondizie e scarti di fogna e fu fermato appena in tempo mentre cercava di bere sangue prelevato ad altri pazienti o di cibarsi dei cadaveri ricoverati nella morgue. Gli venne persino imputata la scomparsa di un infante di 14 mesi, avvenuta in sospetta concomitanza con il suo passaggio… Morì a Versailles in seguito a un violento accesso di dissenteria.
Particolare curioso è che, a dispetto di questa sua mania, aveva sempre conservato un peso corporeo nella media.

William Buckland, geologist, 1823.
Ben diverso fu invece l’approccio all’alimentazione di Sir William Buckland (1784-1856).
Eminente geologo presso l’università di Oxford (a lui si devono le prime descrizioni scientifiche di fossili di dinosauri), affiancava al ruolo accademico una passione a dir poco eccentrica, che lo rese non meno celebre.
A muovere Buckland era una curiosità scientifica, applicata al campo dietetico. La missione che Buckland si prefisse sin dalla giovinezza fu quella di assaggiare almeno un esemplare di ogni specie vivente. E in effetti, nel corso dei suoi settant’anni abbondanti di vita, ebbe modo di comporre un catalogo variegatissimo di bestie commestibili.
Durante questa carriera mangereccia degustò carne di vari animali domestici, proscimmie, primati, grossi felini (si narra di una famigerata libagione a base di pantera), rettili, anfibi e meduse urticanti, solo per fare qualche esempio. Tipico il suo modo di accogliere gli ospiti: con una galletta spalmata di polpa di topo in una mano e una tazza di tè fumante nell’altra. Si lagnò solo un paio di volte del proprio desinare, a proposito della consistenza eccessivamente stopposa della talpa e, in un’altra occasione, del cattivo sapore del moscone. Come avrete capito le storie sulle sue eccentricità, vere o romanzate che siano, non si contano.
A quanto si narra questo Casanova gastronomico non si sarebbe nemmeno limitato a sperimentare i gusti del regno animale. In seguito a una sua visita presso la Cattedrale di San Paolo, per esempio, venne fatta una scoperta sconcertante: un calice contenente il sangue di un martire cristiano fu ritrovato completamente vuoto, come se qualcuno ne avesse bevuto il sacro contenuto…
Il picco delle stranezze fu raggiunto allorché il lord venne introdotto a una mostra di preziosi cimeli. Quando si trovò davanti alla teca che conteneva il cuore di Luigi XIV non resistette all’impulso e, subito dopo aver pronunciato la fatidica frase: «Il cuore di un Re mi manca!», si avventò sull’organo imbalsamato e lo trangugiò in un sol boccone senza che gli accompagnatori avessero il tempo di bloccarlo.

Per quanto circonfusi da un evidente alone di leggenda, i disturbi alimentari di questi signori non vanno per forza letti come frutto di fantasia; benché molto rari, sono oggi noti nelle loro varianti cliniche denominate iperfagia (appetito ossessivo) e picacismo.

The Dangerous Kitchen – IV

Esiste un tipo di cibo che probabilmente voi non avete mai assaggiato, ma che la maggioranza degli esseri umani mangia regolarmente: gli insetti. Secondo molti studiosi potrebbero essere proprio gli insetti la chiave per risolvere la malnutrizione in molte parti del mondo, per la facilità nell’allevamento, la loro resistenza praticamente a tutte le latitudini e l’importante apporto calorico e proteico della loro carne. Ma mangiare insetti potrebbe anche avere un ulteriore effetto positivo: potrebbe aiutare a salvare l’ecosistema.

Avrete certamente sentito parlare del temibile scarafaggio parassita che attacca le palme: si tratta del punteruolo rosso, un coleottero proveniente dal sud est asiatico che in breve tempo si è diffuso in tutto il mondo, arrivando qualche anno fa anche in Italia. La sua riproduzione incontrollata e l’aggressiva voracità pongono seri problemi in tutto il mondo per la coltivazione delle palme da frutto, in quanto un’infestazione di punteruoli può distruggere una palma secolare in brevissimo tempo. Visto che la disinfestazione è problematica e difficoltosa, avanziamo qui la nostra “modesta proposta“, alla maniera di Jonathan Swift: mangiamoli da piccoli!

Questo, almeno, è quello che fanno le popolazioni dell’Asia sudorientale, della Malesia, della Papua Nuova Guinea e di molti paesi amazzonici (Perù, Ecuador). La larva, chiamata sago in Asia e suri in Sudamerica, viene deposta dalla femmina all’interno del tronco della palma e, quando si schiude, comincia a divorare il legno verso l’esterno. Più legno mangia, più diventa grassa e gustosa.

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Le larve sono esposte vive nei mercati, e vengono spesso preparate sul momento. C’è chi si arrischia a mangiare queste larve proprio così, ancora vive, ma essendo questa una rubrica di alta cucina, preferiamo consigliarvi alcuni metodi di cottura per rendere ancora più prelibata questa raffinata pietanza. Il metodo classico, se avete un barbecue, è lo spiedino: cucinate alla brace, le larve assumono un sapore simile alla pancetta affumicata e una consistenza piuttosto tenace.

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In Perù, invece, vengono pulite (si toglie il condotto intestinale, che corre lungo la parte alta della larva, un po’ come facciamo con i gamberi), e scottate alla brace in un cartoccio di foglie di palma per 5 minuti. Questo metodo mantiene la carne più tenera e “cremosa”, ma ovviamente meno magra.

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Sempre in Sudamerica il suri viene anche condito con l’aglio e fritto nell’olio, servito poi con rondelle di banana fritta. Se cotte in pentola, senza aggiunta di olio, le larve rilasciano comunque abbastanza grasso da friggersi praticamente da sole; la loro carne si accompagna bene anche con il chili o la salsa di soia.

Le larve sono altamente caloriche, e in Nuova Guinea fanno parte integrante della dieta, fornendo oltre il 30% dell’apporto proteico per la popolazione locale. Sono anche una buona fonte di ferro, zinco e altri nutrienti, e vengono considerate un buon rimedio per le infezioni bronchiali dei bambini. Di cos’altro avete bisogno per convincervi?

Fachiri scatenati

Ad un talent show indiano fanno la loro entrata un gruppo di esagitati fachiri Sikh, che seminano il panico fra il pubblico e i giudici con un’escalation di rutilanti performance sempre più feroci. Quando si dice non avere il senso del limite…

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Placentofagia

Qualche tempo fa, Nicole Kidman dichiarò di aver mangiato la placenta dopo il suo ultimo parto. (Dichiarò anche di bere la propria urina per mantenersi giovane, ma quella è un’altra storia). Follie da VIP, direte. E invece pare che la moda stia prendendo piede.

La placenta, si sa, è quell’organo tipico dei mammiferi che serve a scambiare il nutrimento fra il corpo della madre e il feto, “avvicinando” le due circolazioni sanguigne tanto da far passare le sostanze nutritive e l’ossigeno attraverso una membrana chiamata barriera placentale, che divide la parte di placenta che appartiene alla mamma (placenta decidua) da quella del feto (corion). La placenta si distacca e viene espulsa durante il secondamento, la fase immediatamente successiva al parto; si tratta dell’unico organo umano che viene “perso” una volta terminata la sua funzione.

Quasi tutti i mammiferi mangiano la propria placenta dopo il parto: si tratta infatti di un organo ricco di sostanze nutritive e, sembrerebbe, contiene ossitocina e prostaglandine che aiutano l’utero a ritornare alle dimensioni normali ed alleviano lo stress del parto. Anche gli erbivori, come capre o cavalli, stranamente sembrano apprezzare questo strappo alla loro dieta vegetariana. Pochi mammiferi fanno eccezione e non praticano la placentofagia: il cammello, ad esempio, le balene e le foche. Anche i marsupiali non la mangiano, ma anche se volessero, non potrebbero – la loro placenta non viene espulsa ma riassorbita.

Se per quanto riguarda gli animali è intuitivo comprendere lo sfruttamento di una risorsa tanto nutritiva alla fine di un processo estenuante come il parto, diverso è il discorso per gli umani. Noi siamo normalmente ben nutriti, e non avremmo realmente bisogno di questo “tiramisù” naturale. Perché allora si sta diffondendo la moda della placentofagia?

La motivazione di questa pratica, almeno a sentire i sostenitori, sarebbe il tentativo di evitare o lenire la depressione post-partum. Più precisamente, la placenta avrebbe il potere di far sparire i sintomi del cosiddetto baby blues (quel senso di leggera depressione e irritabilità che il 70% delle neomamme dice di provare per qualche giorno dopo il parto), evitando quindi che degenerino in una depressione più seria. Sfortunatamente, nessuna ricerca scientifica ha mai suffragato queste teorie. Non c’è alcun motivo medico per mangiare la placenta. Ma le mode della medicina alternativa, si sa, di questo non si curano granché.

E così ecco spuntare decine di video su YouTube, e siti che propongono ricette culinarie a base di placenta: c’è chi la salta in padella con le cipolle e il pomodoro, chi preferisce farne un ragù per la lasagna o gli spaghetti, chi la disidrata e ne ricava una sorta di “dado in polvere” per insaporire le vivande quotidiane. Se siete persone più esclusive, potete sempre prepararvi un bel cocktail di placenta da sorseggiare a bordo piscina. Ecco un breve ricettario (in inglese) tratto dal sito per mamme Mothers 35 Plus.

Consci che l’idea di mangiare la propria placenta può non solleticare tutti i nostri lettori, vi suggeriamo un ultimo utilizzo, certamente più artistico, che sta pure prendendo piede. Si tratta delle cosiddette placenta prints, ovvero “stampe di placenta”. Il metodo è semplicissimo: piazzate la placenta fresca, ancora ricoperta di sangue, su un tavolo; premeteci sopra un foglio da disegno, in modo che il sangue imprima la figura sulla carta. Potete anche spargere un po’ di inchiostro sulla placenta prima di passarci sopra il foglio, così da ottenere risultati più duraturi. E voilà, ecco che avrete un bel quadretto a ricordo del vostro travaglio, da incorniciare e appendere nell’angolo più in vista del vostro salotto.

Tabù alimentari

L’uomo è un animale onnivoro, e può mangiare e digerire cibi di origine vegetale e animale alla stessa stregua. Eppure la maggior parte degli esseri umani consuma soltanto poche varietà di prodotti alimentari.

Alcune popolazioni si nutrono di alimenti che disgustano altre popolazioni: i tabù alimentari sono fra i più radicati, e intimamente legati al gruppo etnico di cui si fa parte. Secondo alcuni antropologi (tra cui Marvin Harris) sarebbero stati i fattori ambientali a far prediligere un certo cibo a un determinato popolo. Il tabù della carne di maiale per ebrei e musulmani nel Medioriente deriverebbe dalla difficoltà nell’allevare questo animale, che è tendenzialmente stanziale e abbisogna di ombra e acqua: permettere il consumo di carne di maiale avrebbe significato mettere in pericolo l’identità stessa della tradizione nomade.

Secondo altri antropologi (come ad esempio Steven Pinker) il tabù alimentare sarebbe alla base stessa della nostra identità. Nel primo periodo di vita di un bambino sarebbe assente la distinzione fra cibi buoni e cibi disgustosi: così, proprio nel periodo cruciale in cui si apprende a preferire dei cibi piuttosto che altri (fino ai 4 anni), i genitori escludono dalla dieta del bambino alcuni alimenti, e questo basta affinché i bambini crescano trovandoli disgustosi. La tattica, poi, si perpetua da sé: i figli, crescendo, diventano dei genitori che non danno da mangiare cibi disgustosi ai propri figli.

Nelle tribù è talmente importante questo elemento aggregativo (il pasto comunitario, le regole interne per la consumazione del cibo), che si è notato come la maggior parte dei tabù alimentari proibiscano proprio il cibo preferito dalla tribù nemica.

Oggi, nel mondo, esistono ancora fortissimi tabù alimentari. Quello che è buono e appetibile per alcuni, per altri è disgustoso e detestabile. Insetti, cavallette e lombrichi sono cibi prelibati per milioni di persone; ben quarantadue popolazioni mangiano ratti, mentre sono molte le popolazioni che non berrebbero mai un bicchiere di latte, in quanto secreto dalle ghiandole animali, come la saliva o il sudore. Per non parlare del formaggio, che altro non è se non latte andato a male. Un americano inorridisce in una nostra macelleria se gli viene proposta carne equina, e noi facciamo lo stesso di fronte a una zuppa cinese in cui galleggiano due zampe di cane. E come reagireste se in un ristorante sushi tradizionale in Giappone, vi servissero un pesce spellato e tagliuzzato, ma ancora vivo?

Praticamente tutti gli animali sono commestibili e vengono mangiati, in tutto il mondo.

L’entomofagia (il mangiare insetti) è fra le pratiche globalmente più diffuse. Questo signore ha provato ad importare questa tradizione culinaria “adattandola” ai gusti occidentali, proponendo un menu interamente a base di insetti:

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In tutto il sud-est asiatico, invece, uno dei cibi più apprezzati è il balut: si tratta di uova di anatra fecondate, che contengono cioè l’embrione quasi completamente formato del pulcino: lo stadio di sviluppo al quale sia preferibile consumare questa prelibatezza è strettamente questione di gusti personali.

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In Papua Nuova Guinea i pipistrelli si fanno arrosto:

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Anche da noi sono considerate commestibili le cosce della rana; ma ne mangereste il cuore ancora pulsante?

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Forse l’unico tabù fondamentale condiviso dalla maggior parte delle popolazioni al mondo è il divieto di mangiare carne umana; eppure perfino il cannibalismo è stato accettato, in certe culture, nonostante fosse regolato da precise condizioni, e rigidamente motivato all’interno di un determinato quadro simbolico e tradizionale.

Le radiografie del mangiatore di spada

Ecco alcuni mangiatori di spada che si esibiscono sotto l’ “occhio” dei radiografi.

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E a seguire alcune fluoroscopie (radiografie in movimento) sullo stesso argomento.

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Scoperto via swordswallow.com.